Blitz di Israele in Yemen Analisi di Francesca Caferri
Testata: La Repubblica Data: 21 luglio 2024 Pagina: 13 Autore: Francesca Caferri Titolo: «Israele, blitz in Yemen contro gli Houthi in risposta al drone che ha colpito Tel Aviv»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 21/07/2024, a pag.13 con il titolo "'Israele, blitz in Yemen contro gli Houti in risposta al drone che ha colpito Tel Aviv", l'analisi di Francesca Caferri.
Un bombardamento intenso su Hodeida, principale porto commerciale dello Yemen, porta economica fondamentale per il regime degli Houti, punto chiave per le infrastrutture del Paese: per il la raffinazione e il passaggio di petrolio, per l’ingresso di medicinali nel Paese in guerra, per i (pochi) scambi che contribuiscono a tenere in piedi lo Yemen. La risposta di Israele all’attacco con un drone che venerdì ha sorpreso Tel Aviv uccidendo una persona e ferendone altre non si è fatta attendere. Gli F16 hanno colpito ieri nel tardo pomeriggio e non c’è stato bisogno di aspettare molto dopo la diffusione delle prime immagini per sapere che a colpire era stata l’aviazione israeliana. Le forze armate dello Stato ebraico (Idf) hanno diffuso un comunicato per rivendicare l’azione, sostenendo di aver attaccato il porto perché da esso passerebbero le armi che l’Iran fornisce ai suoi alleati Houti. «Il sangue dei cittadini israeliani ha un prezzo: e questo vale in Libano, a Gaza, in Yemen e in ogni altro luogo », ha commentato il ministro della Difesa Joav Gallant. Israele ha anche fatto sapere di aver avvisato gli americani prima di colpire: nessuna collaborazione per l’attacco – i jet hanno colpito a 1800 chilometri di distanza dalle basi di decollo, in un Paese a cui non si erano mai avvicinati prima - ci sarebbe stata né dagli Stati Uniti né da altri Paesi (Italia compresa), come le varie diplomazie hanno subito fatto sapere. La specificazione che gli israeliani hanno voluto fare riguardo agli Stati Uniti dice molto dello scenario che gli ultimi due giorni aprono. Gli Houti fanno parte dell’asse sciita che dal 7 ottobre rappresenta il secondo fronte di guerra per Israele, assieme naturalmente a quello di Gaza: gli Hezbollah in Libano e gli iraniani in patria e in Siria. Strettissimi alleati di Teheran, da cui sono uniti da una affinità politica ma solo parzialmente religiosa (gli Houti si richiamano allo sciismo,pur non essendone direttamente seguaci), si sono uniti alla fronte solidale con Hamas sin dalla prima settimana di ottobre, conducendo attacchi contro le navi che passavano attraverso il Mar Rosso e lanciando missili che in qualche hanno raggiunto Eilat, nel Sud di Israele. Ma mai avevano toccato il cuore del Paese come hanno fatto venerdì. Per fermare i loro attacchi, che per mesi hanno danneggiato un’arteria fondamentale del commercio mondiale come appunto il traffico marino dell’area, erano intervenuti a più riprese gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: ma finora mai direttamente loStato ebraico. Proprio questo è il passaggio che fa temere che possa esserci un’escalation: gli Houti hanno immediatamente minacciato una risposta ma è difficile pensare che riescano di nuovo a cogliere di sorpresa l’Iron Dome (lo scudo anti-missile) e il resto delle difese aeree dello Stato ebraico. Più facile ipotizzare che una reazione possa arrivare attraverso gli alleati iraniani e libanesi degli Houthi: immediatamente dopo le prime notizie dell’attacco nel Nord di Israele – dove da nove mesi la guerra a bassa intensità contro Hezbollah rischia di trasformarsi in conflitto aperto –sono scattate le sirene che segnalano un attacco aereo. Ma proprio perché questo scenario si ripete da mesi è difficile capire se le due vicende siano collegate. C’è un’altra incognita da tenere in considerazione: mentre in aprile quando si era arrivati al picco dell’escalation fra Israele e l’Iran la diplomazia occidentale (e americana in particolare) era riuscita ad attivare tutti i suoi canali per contenere la crisi (compresi quelli indiretti che Washington normalmente utilizza per parlare con Teheran), immaginare un dialogo con gli Houti è molto più complesso. La nuova svolta nella crisi che da nove mesi sconvolge il Medio Oriente e il mondo arriva alla vigilia di un appuntamento fondamentale, il viaggio del primo ministro Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti. Il premier parlerà al Congresso il 24 luglio e avrebbe dovuto incontrare il presidente americano Joe Biden a Washington domani, nel primo faccia a faccia dopo gli scambi tesissimi di questi mesi, per parlare di un possibile cessate il fuoco a Gaza con conseguente scambio di ostaggi. Ma l’isolamento a cui Biden è costretto a causa del Covid cambia tutto: se ieri il segretario di Stato Usa Antony Blinken si è detto ottimista sulla possibilità di un accordo, così non la pensano migliaia di persone che da giorni in Israele protestano contro il viaggio, chiedendo che il governo sottoscriva un compromesso con Hamas prima che Netanyahu parta. In prima fila, le famiglie dei 120 ostaggi ancora a Gaza.
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