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Libero Rassegna Stampa
02.07.2024 Israele contesta Bibi, ma vuole uno più duro
Reportage di Giovanni Longoni

Testata: Libero
Data: 02 luglio 2024
Pagina: 14
Autore: Giovanni Longoni
Titolo: «Israele contesta Netanyahu, ma vuole uno più duro di lui»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 02/07/2024, a pag. 14, con il titolo "Israele contesta Netanyahu, ma vuole uno più duro di lui", analisi di Giovanni Longoni.

Giovanni Longoni.
Giovanni Longoni

I media occidentali fraintendono le proteste contro Netanyahu. Credono che siano pacifiste. Ma gli israeliani chiedono un leader che sia ancor più determinato dell'attuale premier conservatore.

I gatti di Nir Oz fanno le fusa, si strusciano contro le gambe dei visitatori, li guardano dal basso in alto in cerca di carezze e croccantini. Non hanno paura degli uomini: sono tutti esemplari giovani, di pochi mesi.
Sono tanti, sbucano da ogni parte e, escluse le mosche, sembrano gli unici animali a popolare il kibbutz che la mattina di sabato 7 ottobre 2023 venne investito dall’attacco in tre ondate di quasi un migliaio di terroristi di Hamas sputati fuori da Gaza, distante circa un chilometro da quello che è uno degli insediamenti israeliani più vicini alla Striscia. I guerriglieri della forza al Nukhba, truppe d’élite di Hamas, che uccisero 46 dei quasi 400 abitanti e ne presero 71 come ostaggi, sterminarono anche gli animali delle fattorie (bovini e pollame) e quelli d’affezione: cani, pappagallini e persino i gatti ai quali la predilezione del Profeta non bastò a salvarli.
I felini che girano oggi per i vialetti quel giorno non c’erano, anzi non erano nemmeno nati. Sarà per questo che avvicinano fiduciosi gli umani. Nir Oz era, e in qualche modo è tuttora, uno degli insediamenti più belli della colonizzazione ebraica. È un giardino botanico, uno dei più noti del Paese, le casette diroccate e bruciate sono immerse nel verde, 12 ettari, vi crescono 900 specie vegetali, piante grasse, ficus enormi. A oriente del kibbutz si estendono i campi coltivati e sembra di stare nella Central Valley californiana. A ovest invece si vede la barriera che poco è servita il 7 ottobre, poi una lingua semidesertica al di là della quale, a meno di un chilometro di distanza, si scorge l’ammasso di case gazawi.
Dentro gli edifici del kibbutz, casette e stanze comuni, si sente un odore dolciastro, sgradevole, difficile da definire.
Irit Lahav è una dei sopravvissuti al massacro, grazie alla prontezza con cui è riuscita a trovare un sistema per bloccare dall’interno la porta del rifugio antimissile in cui si era rintanata con la figlia. Racconta con un sorriso timido quella giornata. Ricorda le raffiche di armi automatiche senza interruzione («nei film», dice, «senti gli spari, poi la gente corre, poi qualcuno dice qualcosa. No dalle 6.30 del mattino fino a sera le mitragliatrici hanno sparato di continuo»). Ricorda il terrore, la morte a due passi che urlava minacce in arabo. «Era difficile anche solo tenere in mano gli oggetti», dice, «perché in quei momenti il corpo trema tutto e non riesci a fermarti».
Siamo arrivati a Nir Oz scendendo verso sud lungo la statale 232, l’arteria che collega villaggi e kibbutz e che nei giorni successivi al 7 ottobre si poteva percorrere solo zigzagando tanto era ingombra di corpi decapitati e teste umane. Il sito del festival Nova, vicino all’insediamento di Be’eri, è a una decina di chilometri a nord di Nir Oz. L’area della strage è oggi un memoriale cresciuto in modo spontaneo: l’avrete visto in tv, ormai è una tappa per i gli autobus di turisti cinesi e giapponesi. Ci sono pali che reggono le fotografie delle vittime. Si ritrovano volti che tutti conoscono come quello di Shani Louk. C’è uno striscione dei tifosi dell’HaPoel Tel Aviv per Tomer Starosta: è in ebraico ma tradotto in inglese suona come You’ll never walk alone. C’è Vitaly Kersik con la sua barba. E Hilly Solomon uccisa a 27 anni.
La flemma di Irit, che pensa già a come sarà ancora più bello, più ecologico e high tech il kibbutz quando verrà ricostruito e ripopolato entro due anni, non è un caso unico. Ma c’è anche chi le critiche al governo non le manda a dire: sono i parenti dei rapiti e gli ostaggi liberati con cui abbiamo parlato al quartier generale del loro movimento vicino alla Piazza degli Ostaggi di Tel Aviv (così è stata ribattezzata l’area davanti al Museo d’arte centro delle proteste contro il governo).
Ce l’hanno con Bibi (lo chiamano tutti così): chiedono il cessate il fuoco, le trattative e l’accettazione delle richieste nemiche, a costo di svuotare le galere dello Stato ebraico. Tutto come si legge sulla stampa, ma pochi media fanno notare che quelle stesse persone, le quali si augurano che Netanyahu se ne vada, dichiarano di aver fiducia soltanto nelle forze armate.
Gilad Shoham, padre di Tal, ostggio, è disperato, chiede il cessate il fuoco e che siano intavolate trattative subito. È pronto a dare qualunque cosa per riavere Tal, persino a svuotare le galere. Ma poi i terroristi rilasciati si va a eliminarli. Anche Danni Miran ha il figlio Omri a Gaza. Danni, 78 anni, si è lasciato crescere una lunga barba bianca: «Immagino che mio figlio non avrà la possibilità di radersi. Quando tornerà a casa, andremo insieme dal barbiere». Danni è giardiniere e progettista di giardini, «mi occupo di cose belle». Cosa pensa dei civili di Gaza?
«Sono tutti di Hamas».
Se dal movimento dei parenti degli ostaggi nascerà un partito politico difficilmente sarà di sinistra e mai su posizioni pacifiste. Anche il sindaco di Mate Asher, in Galilea, Moshe Davidovich, la vede così: «Qui la gente, prima di venire sfollata per timore dei razzi di Hezbollah, votava quasi tutta per il centrosinistra. Penso cambieranno drasticamente posizione alle prossime elezioni».
Qualcuno forse tornerà vivo da Gaza. Altri rientreranno nei kibbutz insieme a Irit e ai gatti. Gli animali sono stati macellati, gli esseri umani uccisi o deportati ma gli alberi sono rimasti. Hanno radici forti.

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