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israele.net Rassegna Stampa
23.06.2024 Israele combatte per la propria stessa esistenza
Commento di Alfred Moses

Testata: israele.net
Data: 23 giugno 2024
Pagina: 1
Autore: Alfred Moses
Titolo: «Israele combatte per la propria stessa esistenza»

Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - un articolo di Alfred Moses tradotto da YnetNews, dal titolo "Israele combatte per la propria stessa esistenza".

Alfred Moses
"Dal fiume al mare la Palestina sarà libera" vuol dire solo una cosa: la distruzione dello Stato di Israele. In questa guerra, come nelle precedenti, gli israeliani combattono per sopravvivere.

Non passa giorno senza che i media riferiscano di vittime civili a Gaza, con particolare enfasi su donne e minorenni uccisi o feriti dall’esercito israeliano. Nessuno che abbia un senso di umanità non si commuoverebbe.

Come disse con felice sintesi il generale della guerra civile americana William Tecumseh Sherman, “la guerra è un inferno”.

Questo stesso senso di rassegnazione all’inevitabile deve essere ciò che permise di giustificare il blocco britannico della Germania durante la prima guerra mondiale. “Facciamoli morire di fame” fu il grido di battaglia degli inglesi che portò alla resa della Germania, benché il suo esercito in Francia fosse ancora in gran parte integro.

Ciò spinse uno sconosciuto caporale tedesco di nome Adolph Hitler a sostenere la falsa teoria che il Reich era stato “svenduto dal fronte interno” (in particolare, a suo dire, per colpa degli infidi ebrei ndr).

Nella seconda guerra mondiale le vittime civili da entrambe le parti furono ancora più numerose, compresi sei milioni di ebrei trucidati dai nazisti.

Anche lo sforzo bellico degli Alleati ebbe un pesante impatto sui civili: dai bombardamenti incendiari di Dresda e Tokyo fino alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki con le bombe atomiche americane.

Le tragiche perdite di vite civili non cessarono con la fine della seconda guerra mondiale. Si sono ripetute in ogni  guerra e operazione militare dal 1945 in poi.

Gli studiosi di teoria politica ci dicono che esiste una differenza tra guerre “giuste” e “ingiuste”. I cinici diranno che la differenza sta solo negli occhi dell’osservatore.

Ma se mai esiste una guerra giusta, certamente è giusta la guerra di Israele che ha l’obiettivo dichiarato di debellare le capacità terroristiche e militari di Hamas: una reazione più che legittima alla sfrenata carneficina perpetrata da Hamas il 7 ottobre in Israele.

Israele ha il dovere morale di non prendere di mira i non combattenti. Ha commesso degli errori, alcuni li ha ammessi.

Anche Hamas avrebbe l’obbligo morale di salvaguardare e proteggere la popolazione civile, e di non usarla come scudi umani nella proclamata speranza di spingere gli amici e alleati di Israele a rivoltarsi contro lo stato ebraico quando dei civili arabi restano (accidentalmente) uccisi negli attacchi della controffensiva israeliana.

Andando al di là degli ultimi titoli di giornale, il conflitto in senso più ampio non è tra Israele e Hamas, ma tra Israele (e i paesi amici, una mezza dozzina di stati arabi) e l’Iran, il principale sostenitore e sponsor dei terroristi jihadisti nello Yemen, in Libano, in Siria, in Iraq e, sì, nella striscia di Gaza.

Nella sua essenza il conflitto è binomiale. Proclamare “siano maledette entrambe le casate” (cit. William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto III, scena I ndr) è l’equivalente morale di lavarsene le mani e rimandare all’infinito. Non fa che promuovere ulteriormente terrorismo e instabilità.

Qual è la soluzione? La risposta più frequente è invocare la creazione di uno stato palestinese indipendente sulla sponda occidentale del fiume Giordano (Cisgiordania). Sfortunatamente, gli arabi palestinesi hanno ogni volta rifiutato la soluzione a due stati, a cominciare dal piano di spartizione proposto dalle Nazioni Unite nel 1947, un anno prima della creazione dello stato di Israele.

Il loro mantra era ed è tuttora “tutto è arabo, dal fiume al mare”: cioè dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In altre parole, tanti saluti allo stato ebraico di Israele e ai suoi sette milioni di abitanti ebrei.

Le origini del conflitto risalgono almeno alla Dichiarazione Balfour del 1917 quando il governo britannico proclamò che “il governo di Sua Maestà vede con favore l’istituzione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico e farà tutto il possibile per promuovere il conseguimento di questo obiettivo…”. La Palestina era allora sotto Mandato britannico. La Dichiarazione Balfour (poi adottata dalla comunità internazionale con la Conferenza di Sanremo del 1920 ndr) contestualizzava la bimillenaria aspirazione del popolo ebraico a tornare a governare se stesso nella propria patria ancestrale.

La famosa frase di Mark Twain “non c’è un acro di terreno sul globo che sia in possesso del suo legale proprietario, e che non sia stato strappato con la forza e lo spargimento di sangue da proprietario all’altro, un ciclo dopo l’altro” è probabilmente più vicina alla verità di quanto non vorrebbero ammettere quelli tra noi che amano fare appello alla buona volontà.

Oltretutto, una mezza dozzina di cicli fa la Palestina era una patria ebraica, non araba. Gli arabi se ne impossessarono “con la forza e lo spargimento di sangue”.

Se dobbiamo restituire la terra ai penultimi proprietari, perché non tornare – ad esempio – al 1848, quando gli americani, in quella che il generale americano U.S. Grant definì “la guerra più ingiusta mai intrapresa da una nazione più forte contro una nazione più debole”, tolsero al Messico la California, il Texas, il Nuovo Messico, lo Utah, l’ Arizona, il Nevada e parti del Colorado e dello Wyoming?

Lo stesso si potrebbe dire praticamente di ogni pezzo di terra del globo.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu non è Israele, né lo sono i membri estremisti del suo governo attuale. Prima o poi passeranno, ma lo stato ebraico d’Israele è molto più di coloro che lo governano in ogni dato momento, e merita di resistere insieme alle democrazie di tutto il mondo, guidate dagli Stati Uniti, nella guerra non dichiarata contro Iran, Russia, Cina, Corea del Nord.

La battaglia di Israele è esistenziale. Se perderà contro coloro che proclamano “dal fiume al mare”, non ci sarà più Israele e forse col tempo non ci sarà più nemmeno il popolo ebraico.

Il generale Sherman aveva ragione, la guerra è un inferno. Ma per una nazione, la propria totale distruzione potrebbe essere peggio dell’inferno.

(Da: YnetNews, 20.6.24)

NdR In una recente intervista, alla domanda “Ma Hamas rappresenta il popolo palestinese oppure no?”, l’autrice di War of Return Einat Wilf ha risposto:

«Hamas rappresenta l’ethos palestinese più profondo. Essere palestinese significa innanzitutto credere che ovunque, tra il fiume e il mare, non debba esserci uno stato ebraico. Questo è il tratto distintivo dell’identità palestinese. Tragicamente si tratta di un nazionalismo forgiato in negativo, un nazionalismo forgiato attorno all’idea di revanche, di rivalsa, di vendetta, con la distruzione dello stato ebraico e il cosiddetto ritorno. E’ importante capire che Hamas rappresenta il profondo desiderio dei palestinesi che non esista uno stato ebraico. Quelli di Hamas non sono altro che gli esecutori più brutali ed efficienti di questa visione palestinese. Nel mio libro, ho inventato la parola westplaning (westerner+explaining) per indicare quei giornalisti e diplomatici occidentali che spiegano ciò che intendono i palestinesi, anche quando i palestinesi parlano molto chiaramente. Dopo il 7 ottobre i palestinesi fanno il tifo per Hamas, ne sono orgogliosi e dicono che è meraviglioso quello che ha fatto, e l’Occidente ripete: no no, Hamas non rappresenta i palestinesi.»

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