Il Duomo di Milano sfregiato dalla bandiera terrorista Editoriale di Daniele Capezzone
Testata: Libero Data: 06 giugno 2024 Pagina: 1/8 Autore: Daniele Capezzone Titolo: «Una rinuncia alla nostra identità»
Riprendiamo da LIBERO di oggi 06/06/2024, a pag. 1/8, con il titolo "Una rinuncia alla nostra identità", l'editoriale di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Proveranno a nascondere la notizia, ad attenuarla, ad attutirla, a smorzarla, come del resto si è già largamente tentato di fare ieri.
Oppure, al massimo, di derubricarla a folklore, a colore, a provocazione di un personaggio bizzarro quale Stefano Apuzzo effettivamente è.
Si spiega così il gran silenzio della politica (a partire dal Pd e dagli alleati di quella lista Avs-Bonelli-Fratoianni in cui l’ineffabile Apuzzo è intruppato: meraviglie del “campo largo”) e del mondo cattolico progressista. Non a caso, invece, i più reattivi e sensibili (e ciò va a loro merito culturale, non solo religioso) sono stati gli esponenti della Comunità ebraica milanese, a partire dal presidente Walker Meghnagi, a cui non è sfuggito il significato simbolico dello sfregio, della profanazione, per certi versi dell’appropriazione.
Di questo si parla, quando una bandiera palestinese viene esposta sulla facciata del Duomo di Milano, violando e violentando la sacralità spirituale di quel luogo. Chi non capisce (o fa finta di non capire) deve spaventarci per questa propensione a sottovalutare un evento che avrebbe fatto disperare Oriana Fallaci e che conferma – fino alle virgole – le tesi e le cupe profezie di Michel Houellebecq.
La “sottomissione” è tutta lì, in quell’immagine, in quella foto fatta per girare e diventare virale, per circolare sui forum fondamentalisti più ancora che sui media internazionali, per rendere realizzato e perfino “normalizzato” ciò che invece era e doveva rimanere un tabù, cioè l’intangibilità di uno dei massimi simboli della cristianità e dell’elevarsi dello spirito umano verso il cielo. I riflessi di pochi scattarono pronti quando, nel 2020, il tiranno turco Erdogan “riconvertì” la basilica di Santa Sofia di Istanbul in moschea. E invece era l’inizio di un percorso di conquista, di sfida esplicita: non a caso, nel maggio scorso, la scena si è ripetuta con la trasformazione in moschea della chiesa di San Salvatore in Chora.
Si dirà: il temibile Erdogan non può certo essere appaiato al risibile Apuzzo. Vero, anzi verissimo: ma il punto è che– una volta in forma solenne, e un’altra in forma cabarettistica – il bersaglio è lo stesso: che si tratti dell’autocrate in cerca di una sempre più marcata connotazione integralista, o che si tratti di un piccolo esemplare del bestiario politico italiano, è stata sdoganata l’idea che certi simboli possano essere toccati, profanati, alterati.
Non solo: sia rispetto alla tragedia sia rispetto alla farsa, il “test” mostra che le vittime – cioè le culture da ridimensionare, da punire, da sottomettere, da sostituire – non reagiscono, sono accondiscendenti, sono perfino imbambolate rispetto alla gravità di ciò che sta accadendo.
Sta qui il cuore del problema: i nemici dell’Occidente ne studiano la storia, la cultura, le radici. Proprio perché vogliono recidere quei legami e quel patrimonio, lo conoscono, ne tengono conto. Di qua, invece, l’attitudine all’odio di sé è diventata abitudine, e in prospettiva destino: in un’atmosfera di distrazione, di inconsapevolezza, di dormiveglia. Ma la sorte dei sonnambuli è segnata: è raro che possano evitare di farsi molto male.
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