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Libero Rassegna Stampa
02.06.2024 Ugo Volli: La sinistra si crede sempre nel giusto, è molto pericolosa
Intervista di Giovanni Longoni

Testata: Libero
Data: 02 giugno 2024
Pagina: 6
Autore: Giovanni Longoni
Titolo: «La sinistra si crede sempre nel giusto, è molto pericolosa»

Riprendiamo da LIBERO del 31/05/2024, a pag. 6, con il titolo "La sinistra si crede sempre nel giusto, è molto pericolosa", intervista di Giovanni Longoni a Ugo Volli.

Giovanni Longoni.
Giovanni Longoni

Ugo Volli

Ugo Volli, semiologo e filosofo, ebreo triestino, è nato nel 1948 come lo Stato di Israele.
La sua traiettoria politica è esemplare: da ragazzo sceglie la sinistra dopo gli orrori nazifascisti. A 20 anni occupa la Statale. A 40 lo si ritrova nell’establishment progressista, scrive su Repubblica, lavora con Umberto Eco, frequenta il salotto di Inge Feltrinelli. A 50 riscopre la pratica religiosa. E, grazie anche a una esperienza in Informazione Corretta di Angelo Pezzana, è oggi un commentatore politico di cose israeliane e sostenitore non ideologico di Netanyahu. Non sa se è un conservatore ma di certo non è più di sinistra. E non stupirà il fatto che da tempo le porte dei salotti bene per lui sono chiuse, come pure quelle di certe case editrici e certe testate.
«Io nasco nel novembre ’48: la guerra a Trieste aveva causato una devastazione terribile della comunità ebraica. Sono diventato di sinistra da ragazzo perché pensavo che bisognasse opporsi al fascismo per quello che aveva fatto».

I suoi erano sionisti?
«Essere sionisti in quel momento era ovvio. Mia madre si era salvata dai nazisti fuggendo in quello che sarebbe diventato Israele. Conservo ancora i suoi documenti di “palestinese”, cioè di abitante del Mandato britannico che governava la Palestina. Fra gli scampati alla Shoà lo Stato di Israele appariva come un’assicurazione sulla vita».

Ha ricevuto un’educazione religiosa?
«I miei erano laici però fui mandato alla scuola elementare confessionale e mi furono insegnate le cose fondamentali, feci il bar mitzvah, la confermazione religiosa. Ma mi sono interessato davvero di cultura ebraica solo a partire dagli anni ’80».
Un giovane di sinistra che va a studiare a Milano...
«In famiglia sono tutti avvocati ma io, influenzato dai professori del liceo e dall’amicizia con Piero Dorfles, il nipote di Gillo che già studiava alla Statale, lo raggiunsi a Milano attratto da una facoltà di Filosofia che in quel momento aveva docenti del livello di Musatti, Dal Prà, Paci, Cantoni».
 

Lei arriva e scoppia il Sessantotto.
«E io faccio la mia parte. Ricordo un episodio tanto banale quanto significativo. C’era Luca Cafiero, allora assistente di Storia della filosofia e capo del servizio d'ordine del Movimento studentesco. Movimento che aveva come base un locale nei sotterranei della Statale ai quali si accedeva con l’ascensore. Arrivo io con in mano un pacco di volantini e l’ascensore non arriva. Ho fretta e allora faccio una cosa da ragazzino imbecille e maleducato. Cioè incomincio a prendere a calci la porta dell’ascensore per sollecitare che arrivasse. Passa di lì Cafiero, che era un mio docente, e invece di dirmi: cosa fai stupido? mi fa: bravo, vedo che sei dei nostri».

Occupa, però si laurea.
«Durante le interminabili assemblee, mentre gli altri parlavano della rivoluzione che avanzava, io estraevo dalle tasche dell’eskimo i libri e studiavo Husserl. Alla fine mi laureo in logica matematica con Mangione e Geymonat».
 

E incontra Umberto Eco.
«In quel momento era un giovane intellettuale che lavorava in casa editrice ma questa conoscenza divenne un’amicizia importante. Lui è stato uno dei miei vice-padri. Frequentavo casa sua, ero molto amico di moglie e figli e già alla fine del mio periodo di studi in Statale aiutavo Eco ad Architettura. Incominciai a occuparmi di semiotica cosa che mi portò alla Bompiani e poi all'incarico a Bologna».

E il suo legame con Eco?
«Io leggevo le sue cose prima che lui le pubblicasse e ne discutevamo. Ci facevamo delle lunghe serate di chiacchiere, in famiglia. È stato un periodo molto bello, turbato poi dal ’77».
 

La Bologna di Radio Alice.
«Bologna divenne l’epicentro della contestazione: ci fu un grande convegno contro la repressione coi soliti Deleuze e Guattari che vennero lì a spiegarci che bisognava combattere contro il “fascismo del PCI emiliano”».
 

Con Eco ci fu una rottura.
«Sì, cominciarono a nascere differenze teoriche e lui se la prese molto perché io non ero d’accordo, essendo di formazione un logico matematico, col suo modo di usare una nozione logico-filosofica che sono i “mondi possibili”. Mi dedicò una ramanzina in una nota a piè di pagina di un suo libro importante, “Lector in fabula”.
Insomma ci fu un po’ di distacco. Nel frattempo lasciai la Bompiani e approdai a Repubblica dove divenni critico teatrale. Ero passato dalle posizioni sessantottine al salotto di Inge Feltrinelli.
 

Sono anche gli anni del Maurizio Costanzo Show.
«Non aspiravo a fare il personaggio tv. Ma mi è capitato, in una certa fase, di avere molti rapporti non solo con Costanzo, ma anche con Sgarbi. Con Vittorio progettammo anche di scrivere un libro sull’arte».

Cosa ricorda di Costanzo?
«Avevamo un buon rapporto tanto che a un certo punto mi affidò l’incarico, come dire, di “sorvegliare” sua figlia che era venuta a studiare a Bologna e quindi mi aveva chiesto di aiutarla. In realtà non è successo niente di particolare, semplicemente le ho dato qualche volta dei consigli».

L’essere ebreo quando comincia a contare nella sua riflessione politica?
«Durante il Ventennio, anche tra gli ebrei c’erano fascisti e antifascisti ma aun certo punto sia i fascisti che gli antifascisti vengono emarginati, perseguitati, completamente rinnegati. Dopo la guerra passò l’idea che la Resistenza fosse stata tutta comunista e si afferma la convinzione che per riuscire a essere ebrei bisogna essere di sinistra; cosa confermata nel ’48 dall’atteggiamento positivo dell’Urss nei confronti della fondazione di Israele. Atteggiamento regolarmente smentito nei decenni successivi. È una storia che si ripete anche oggi, quando Schlein sostiene che si debba riconoscere lo Stato di Palestina».

Il terrorismo è stata una sveglia?
«Certo, come pure quello che ho conosciuto dell'est comunista. Ricordo una visita in Russia con Dario Fo. La situazione che vedevamo era chiaramente catastrofica; era il fallimento e l'umiliazione con una gestione del potere anche a livello molecolare in cui la corruzione era palese. Invece Fo giustificava tutto.

Quando comincia a scrivere di Israele?
«Il punto di svolta è il mio rapporto con Informazione Corretta su cui scrivevo delle cose per Angelo Pezzana, una persona notevole anche se poi uno può essere o non essere d'accordo con lui su alcune cose. A partire dal mio trasferimento all’Università di Torino, cioè dal 2000, questa esperienza diventa importante. Poi ci sono una serie di piccoli episodi: avendo vinto un concorso per ordinario, si supponeva che io dovessi diventarlo allo IULM dove stavano cercando di raccogliere il meglio nelle scienze sociali e si pensava anche di chiamare Renato Mannheimer da Genova. Poi qualcuno con imbarazzo ci disse che no, due ebrei no. Lì ho capito che c'era bisogno di alzarsi in piedi e difendere le posizioni di Israele».

Cosa scopre?
«Che l’avversario con cui bisognava scontrarsi sul piano del pensiero è la sinistra non solo quella estrema, extraparlamentare, ma anche buona parte della sinistra istituzionale, universitaria. Certo, con varie differenze perché Fassino non è così. O uno diventa Moni Ovadia, quindi tradisce magari imbrogliando un po’ l'ebraismo per la sinistra, oppure resta attaccato ai valori dell'ebraismo e non può essere di sinistra».
 

Lei è praticante ma anni fa ha scritto un libro: “Per il politeismo”.
«Intanto quel “per” era un moto per luogo. Cioè non voleva dire di essere “a favore” ma che bisogna pensare “passando per” questo politeismo. Era un'immagine consapevolmente provocatoria a favore del pluralismo cioè l'idea che in democrazia è importante che ci sia una pluralità di valori e di pensieri. Ho trovato sempre pericolosissimi i buoni; tutto sommato è meglio avere a che fare con dei farabutti e non con qualcuno che ce l'ha con te perché pensa di essere lui il solo nel giusto. Se lo guardo oggi quel libro è una tappa importante nel mio rifiuto della sinistra. Una tappa importante nel pensare che la società è fatta di parti, che possono essere gruppi sociali, gruppi religiosi, depositari di identità nazionali. Tutte cose avversate dal pensiero dell'uniformità che è molto forte oggi. Caratterizza quelli che sostengono l'Unione europea e l'Onu e per i quali ci sarebbe una sola etica giusta, un solo sistema di valori giusto. E che ogni considerazione andrebbe sacrificata rispetto a questa idea. A me sembra molto molto pericoloso».

Lei è un conservatore?
«Non so se definirmi un conservatore. Leggevo con molto interesse Roger Scruton per esempio, conservatore nel senso anglosassone. Anche il libro di Yoram Hazony sul nazionalismo mi è molto piaciuto. Secondo me è importante recuperare questa impostazione in una situazione in cui da un lato ci sono degli imperi che non dicono di essere imperi ma che lo sono e stanno cercando di consolidarsi e dall'altro c'è una retorica dei diritti dei lavoratori che è una retorica conservatrice. Progressismo e conservatorismo si sono scambiati i temi se non i ruoli cosa che si vede anche nei risultati elettorali. Quelli che in questo momento vogliono conservare o ritornare indietro a uno stato di cose peraltro fallito sono le sinistre mentre il cambiamento, il tentativo di trovare nuovi equilibri sono invece prevalentemente temi della destra».

Le piace Salvini?
«Salvini in una certa fase mi è piaciuto e mi è sembrato ingiustamente demonizzato. C'è una macchina dell'informazione che cerca di triturare gli avversari senza riconoscerli. Faccio un esempio che non c'entra con Salvini: ho visto un'intervista che Hazony ha fatto a Viktor Orban. Beh, io avevo un’idea fattami sulla stampa di Orban come di un rozzo macellaio. Anzi: un aspirante dittatore. Su certe cose che dice sono d'accordo, su altre non sono d'accordo ma è un politico serio, capace di argomentare e anche con una notevole cultura. La stessa impressione ce l'ho su Netanyahu che è diventato l'uomo nero come prima lo era stato Sharon. Netanyahu è un politico fine ed esperto che pensa molto e che certamente non è estremista ma cerca di mediare. Però viene dipinto in maniera assolutamente caricaturale dalla stampa. Lo stesso avviene in Italia. Credo che tutti quelli che oggi pensano e dicono che Meloni sia Mussolini tornato al potere stanno facendo un errore stupido o una speculazione; in una politica che è così variabile bisogna giudicare le persone e i movimenti per quello che fanno».

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