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Bet Magazine Rassegna Stampa
16.05.2024 Gian Antonio Stella: I quotidiani italiani e il conflitto a Gaza
Intervista di Francesco Paolo La Bionda

Testata: Bet Magazine
Data: 16 maggio 2024
Pagina: 13/14/15
Autore: Francesco Paolo La Bionda
Titolo: «Il conflitto israelo-palestinese è molto complesso, ma questa guerra è iniziata con il pogrom di Hamas del 7 ottobre. E i cittadini hanno il dovere di informarsi»

Riprendiamo da BET Magazine-Mosaico di maggio 2024, a pag. 13/14/15, con il titolo "Il conflitto israelo-palestinese è molto complesso, ma questa guerra è iniziata con il pogrom di Hamas del 7 ottobre. E i cittadini hanno il dovere di informarsi", l'intervista di Francesco Paolo La Bionda a Gian Antonio Stella.

Francesco Paolo La Bionda
Gian Antonio Stella

Gian Antonio Stella, giornalista e scrittore, è da decenni una penna di punta del Corriere della Sera, sulle cui pagine scrive ancora oggi come stimato opinionista. Lo abbiamo intervistato per chiedergli come si approcci alla trattazione di un argomento complesso e delicato come il conflitto tra Israele e Hamas e come valuti l’operato del panorama mediatico italiano sull’argomento.

Scrivere di un conflitto che si svolge all’estero implica, in primo luogo, dover reperire le informazioni attraverso fonti dirette e indirette. Lei come si documenta in questi giorni su quanto avviene in Israele e a Gaza?
Mi sveglio molto presto la mattina e comincio a leggere la mazzetta dei giornali. Raccolgo tutto il materiale che reputo interessante o utile e lo metto da parte, così da averlo a disposizione successivamente: dal 7 ottobre, sto continuando a salvare ciò che riguarda il conflitto nel mio archivio. Leggo di tutto, anche se cerco di evitare le uscite più di dubbio gusto. Mi interessa soprattutto trovare approfondimenti che nessun altro è in grado di fornire.

Come reputa il lavoro che ha svolto finora il suo giornale, il Corriere della Sera, sulla copertura della guerra?
Ha fatto un lavoro eccellente, attraverso colleghi che conoscono molto bene sia il mestiere sia l’argomento. Lorenzo Cremonesi, ad esempio, l’inviato in loco, ha vissuto per molti anni lì a partire dal 1982, quando ci arrivò affascinato dall’esperienza dei kibbutz. Usciva da un’esperienza nella sinistra extraparlamentare e si innamorò di un Israele idealista, aperto e socialista, raccontandone poi negli anni i cambiamenti. Anche Davide Frattini, corrispondente del Medio Oriente, e Francesco Battistini, inviato speciale, hanno seguito tutto con grande professionalità. Nel complesso, sono contento che il mio giornale si sia impegnato tutti i giorni per offrire una visuale quanto più ampia possibile del conflitto, raccontando anche i lati di Israele che non piacciono a tanti di noi democratici e liberali. Cose che anche chi sta a fianco dello Stato ebraico non può accettare, come le posizioni dei fanatici dell’ultradestra israeliana.

Per quanto riguarda gli altri giornali italiani invece?
Su alcuni purtroppo ho letto cose che spesso inesatte o forzate. Altri credo si siano invece si distinti in positivo. In particolare, Il Foglio ha svolto un formidabile lavoro di documentazione. Poi puoi essere d’accordo o no ma si vede la ricerca di studiare, capire, documentare. Io sono del parere che a determinare il corso dei fatti siano soprattutto le persone: nella storia troviamo sempre personaggi straordinari e terrificanti, purtroppo spesso più i secondi dei primi, pochi Mandela e tanti delinquenti insomma. Conoscere quindi i protagonisti degli avvenimenti, la loro vita familiare, i loro studi, le loro letture e via dicendo è quindi fondamentale. Sul Foglio questo è stato fatto, ad esempio con i ritratti di Netanyahu, un lavoro che il collega Giulio Meotti ha svolto già prima del 7 ottobre, portando alla luce in particolare l’influenza determinante, sull’attuale primo ministro israeliano, delle figure del padre e del fratello. Si capisce ad esempio come la decisione del padre di far vivere la famiglia in America abbia influenzato l’idea del figlio, cresciuto lì, su come le grandi nazioni si costruiscano anche a spese altrui. So bene che Il Foglio è un giornale schierato, naturalmente, ma vedi il tentativo costante, ripeto, di studiare e di capire. E sempre dalla parte della democrazia e contro il terrorismo di Hamas. Gli invidio la possibilità, che il Corriere della Sera non ha per tipologia di lettori, di ospitare approfondimenti di pagine e pagine come, ad esempio, una formidabile di Siegmund Ginzberg sull’uso e l’abuso della Bibbia nella retorica politica israeliana.

A proposito di linee editoriali, qual è il bilanciamento che deve esserci tra queste e la libertà dei singoli giornalisti? Lei come si pone su questo tema?
Indro Montanelli ed Enzo Biagi sostenevano che la libertà un giornalista se la conquista con la sua bravura ogni giorno, e sono anche d’accordo, ma non bisogna poi mitizzare questo aspetto. Sennò si potrebbe teorizzare che chi non è professionalmente bravissimo deve rassegnarsi alle pressioni. No, ovviamente. Secondo me, la libertà della propria opinione la si guadagna cercando di essere sempre onesti. Non dipende solo da quanto è importante la testata su cui si scrive: dal New York Times alle pagine locali dei giornali provinciali, se si dimostra di essere professionali, di sapere di cosa si scrive, di saper approfondire e di appoggiarsi ai fatti, si può essere liberi. Poi capisco che, soprattutto nella cronaca quotidiana, non sia sempre facile avere il tempo materiale di approfondire tutto a dovere. Per quanto mi riguarda, lavoro da talmente tanto tempo al Corriere della Sera da aver visto anche i casi peggiori della sua storia in quanto a interferenze, come le infiltrazioni della P2, ma nel grosso della mia carriera ho visto il giornale cercare di essere sempre onesto nel raccontare anche i momenti più difficili e quindi per me è stato più facile scrivere liberamente. Sinceramente, ho avuto la fortuna di non porre mai il problema se stessi dando fastidio a qualcuno.

Consulta anche le fonti estere?
Le leggo meno perché nella mia mazzetta dei giornali, che ormai è digitale, ci sono soprattutto i giornali italiani, e in ogni caso riportano quanto arriva dall’estero. Per un mio progetto di approfondimento sul tema delle fake news, che ho portato nelle scuole, ho però consultato sul tema della guerra attuale cominciata con le stragi del 7 ottobre, tra gli altri, la CNN, Al-Jazeera, il Times, il Guardian. Quest’ultimo ha fatto un lavoro eccellente sotto questo punto di vista, come sul caso di uso manipolato di un noto video. Si tratta delle riprese del massacro di Tadamon, avvenuto nel 2013 a Damasco a opera di agenti del regime di Assad contro decine di oppositori politici. Ebbene, questo video è stato spacciato in questi mesi sia in campo palestinese sia in campo israeliano come operato della parte avversa. Quello delle fake news è un tema cruciale e i media seri devono porre la massima attenzione in tal senso, devono verificare prima ed evitare di diffondere fake, anziché correggere dopo, quando il danno ormai è fatto. Ormai è facile controllare, bisogna resistere all’impulso di gettarsi sulla notizia con leggerezza. Non che comunque l’uso strumentale delle notizie sia una novità contemporanea: le distorsioni della propaganda, soprattutto bellica, sono vecchie come il mondo.

Eppure, anche fonti autorevoli hanno preso abbagli nella cronaca del conflitto, dovendo poi tornare sui propri passi e correggersi.
Sì, e in maggioranza devo dire in senso anti-israeliano. Pensiamo al caso dell’esplosione all’ospedale Al-Ahli a Gaza. Molti hanno riportato inizialmente il dato di Hamas di 487 morti, ma è impossibile in un caso simile avere subito un conteggio così preciso. La BBC ha verificato ed è poi venuto fuori che era una cifra priva di fondamento. Di nuovo, bisogna verificare i fatti. Hamas ha anche dichiarato che la strage era stata opera di un missile israeliano, ma quando hanno chiesto che mostrassero i frammenti ha sostenuto che erano evaporati! Poi bisogna avere l’onestà di tenere alcuni punti fermi: è chiaro che in una vicenda storica complessa e complicata come quella israelo-palestinese torti e ragioni sono distribuiti da entrambi i lati, ma questa guerra è cominciata col pogrom di Hamas del 7 ottobre e non si può non tenerne conto nel raccontarla. E se i media hanno sicuramente una responsabilità professionale e deontologica, anche i cittadini hanno il dovere civico di informarsi. La voglia di approfondire è determinante. È indecente accontentarsi delle cronache televisive, o, peggio ancora, dei social media. Con tutto l’affetto che si può avere per i ragazzi di sinistra che manifestano nelle nostre piazze su posizioni smaccatamente filopalestinesi, come fanno a non chiedersi perché nelle immagini di Gaza, prima e durante il conflitto, non si vede neanche una donna adulta senza velo o non si trova un solo reportage da Gaza scritto o filmato da giornalisti occidentali che lì non possono mettere piede perché l’unica “verità” è quella di Hamas?

Rispetto appunto alle testate straniere, nei giornali italiani si dedica mediamente poco spazio alla politica estera. Che ne pensa?
Sì, ci si occupa poco di politica estera e in effetti un’indagine di qualche anno fa di Ipsos ha rivelato che nel complesso gli italiani non sono molto informati su quanto succede nel mondo, anche se ce la caviamo meglio ad esempio degli Stati Uniti. È chiaro che paesi come Francia e Inghilterra, che hanno passati coloniali, hanno un interesse per gli esteri e una vocazione internazionale maggiori delle nostre. Quindi sì, i nostri giornali dovrebbero occuparsi di più di politica estera ma devo dire che oggi comunque hanno un approccio migliore rispetto al passato, dove si riduceva tutto alla diplomazia e gli articoli di approfondimento erano pochi.

Per inviare a Bet Magazine-Mosaico la propria opinione, telefonare: 02/483110225, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


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