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La Repubblica Rassegna Stampa
16.05.2024 Rafah, ultimo bastione di Hamas-intervista a Yossi Kuperwasser
Intervista di Francesca Caferri a Yossi Kuperwasser

Testata: La Repubblica
Data: 16 maggio 2024
Pagina: 14
Autore: Francesca Caferri
Titolo: «Obbligatorio attaccare Rafah. È l’ultimo bastione di Hamas e non possiamo fermarci ora»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 16/05/2024, a pag.14 con il titolo "Obbligatorio attaccare Rafah. È l’ultimo bastione di Hamas e non possiamo fermarci ora". L'intervista di Francesca Caferri a  Yossi Kuperwasser.

Francesca Caferri
Francesca Caferri
L'analista militare Kuperwasser: “Obbligatorio attaccare Rafah. È l'ultimo  bastione di Hamas e non possiamo fermarci ora” - la Repubblica
Yossi Kuperwasser, analizza la situazione militare a Gaza, la sua desamina è chiara: Attaccare Rafah e sconfiggere Hamas

GERUSALEMME — Di fronte alla critiche che dall’Occidente arrivano quotidianamente per l’offensiva su Rafah, il generale Yossi Kuperwasser, ex capo della ricerca per l’intelligence militare israeliana, oggi membro del Misgav institute for National security and zionist strategy e - prima di tutto - uno dei più ascoltati analisti militari del Paese, non vacilla neanche un po’.

«Prendere Rafah è una condizione necessaria per vincere questa guerra. Non possiamo fermarci e non capisco chi ci chiede di farlo», dice. Posizione, va detto, condivisa dalla metà dell’opinione pubblica israeliana.

Perché Rafah è così importante?

«Per vari motivi. Il primo, il più ovvio, è che è la porta di Gaza. Se non controlli Rafah non controlli Gaza: tutto quello che abbiamo fatto non ha senso se non prendiamo Rafah. Il secondo: è l’ultimo bastione di Hamas, se vogliamo sconfiggerli dobbiamo farlo lì. Il terzo: se non facciamo pressione su Rafah non rilasceranno gli ostaggi, perché non saranno costretti a mostrare flessibilità se non sono sotto pressione. Quarto: Rafah è fondamentale per gli aiuti umanitari. Solo se la controlleremo potremo essere certi che Hamas non continui a rubare gli aiuti diretti alla popolazione, come sta facendo adesso. Infine l’ultimo: quello che accade a Rafah avrà effetti in tutta la regione. Se ci ritireremo, Hamas dirà di aver vinto e in questa manieradarà una spinta alle posizioni dell’Iran e di Hezbollah. Chi vuole una regione in pace dovrebbe stare dalla nostra parte».

Da quello che dice lei, Israele dovrebbe mantenere il controllo di Rafah a lungo: almeno nel medio e lungo periodo. Ho capito bene?

«Mettiamola così: se qualcun altro vuole pace e stabilità nell’area ed è disposto a collaborare si faccia avanti. Altrimenti ci penseremo noi».

Come? I soldati israeliani hanno combattuto nel centro e nel nord della Striscia: poi sono usciti, ora sono costretti a tornare di fronte a un nemico che, come sostengono i suoi colleghi, si sta riorganizzando.

«Questo è vero solo in parte. La zona del campo profughi di Jabalia è molto grande: non ci eravamo entrati e quindi non avevamo eliminato i battaglioni di Hamas che sono lì. Lo stiamo facendo ora. Siamo tornati in alcune aree: è la nostra strategia e ha ragione se mi dice che è problematica, non piace neanche ame. Ma così è stato deciso: Israele non ha intenzione di prendere il controllo della Striscia. E dunque non ci resta che andare, mettere sotto controllo, uscire e poi rientrare nel caso si renda necessario».

In questi giorni, molti dei suoi colleghi hanno criticato la mancanza di una strategia e di un piano per il giorno dopo: lei è d’accordo?

«Non è mancanza di strategia questa. Questa è la strategia: entrare, uscire, tornare se serve. Chiara e trasparente. Molta gente non è d’accordo: me compreso. Secondo me dovremmo sigillare Gaza e stabilire un’amministrazione civile fino a quando non saremo certi che Hamas sarà sotto controllo. Ma è stato deciso altrimenti e seguiamo le indicazioni. Certo, è complicato: ma il corridoio Netzarim (la nuova strada costruita all’altezza del kibbutz Be’eri ndr )aiuta. Quello che rende tutto più difficile è il fatto che siamo impegnati a ridurre il numero divittime civili».

Trentacinquemila morti...

«La interrompo perché lei, come tanti in Europa, usa cifre che non sono certe: le stesse Nazioni Unite dicono ora che sono gonfiate e che il numero esatto potrebbe essere 25mila».

Se permette, anche 25mila sono tantissimi…

«Non tutti sono civili: secondo i nostri calcoli 14mila almeno sono uomini di Hamas. Però concordo con lei: le vittime civili sono comunque tante. Stiamo facendo ogni sforzo per minimizzare l’impatto: facciamo attenzione nelle nostre azioni e lo dimostra il fatto che stiamo aspettando a lanciare un’offensiva completa su Rafah. Quando voi europei ci chiedete di fermarci, io rispondo: qual è l’alternativa? Perdere?».

Una soluzione politica, magari.

«Non ci sarà una soluzione politica fino a quando nel quadro ci sarà Hamas. Abbiamo visto il 7 ottobre quali sono i loro metodi politici».

Le riporto quello che mi ha detto qualche giorno fa Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet: «Hamas non si sconfigge militarmente. Hamas è un’ideologia, non un esercito».

«Sappiamo bene che è un’ideologia. Ma al momento per sconfiggere questa ideologia terrorista non resta che una vittoria militare chiara. L’altra opzione è che si arrendano: io non credo che lo faranno».

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