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Libero Rassegna Stampa
16.05.2024 Per i giudici si può dire che i ministri sono neo-hitleriani
Editoriale di Daniele Capezzone

Testata: Libero
Data: 16 maggio 2024
Pagina: 1/7
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: «E' morta la diffamazione. La sinistra non avrà freni nella polemica politica»

Riprendiamo da LIBERO di oggi 16/05/2024, a pag. 1/7, con il titolo "E' morta la diffamazione. La sinistra non avrà freni nella polemica politica", l'editoriale di Daniele Capezzone. 

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

La professoressa Donatella Di Cesare, paladina della causa pacifista e del 25 aprile partigiano, ha definito Lollobrigida un "ministro neo-hitleriano". Prosciolta. D'ora in avanti, la diffamazione è lecita, almeno se a diffamare è qualcuno che dice cose di sinistra contro politici di destra.

Segnatevi la data di ieri, 15 maggio 2024: è il giorno in cui è ufficialmente morto il reato di diffamazione, e – con esso – la possibilità di difendere l’immagine, l’onore e la reputazione di una persona.
I fatti, intanto: un giudice ha prosciolto («perché il fatto non costituisce reato») la professoressa Donatella Di Cesare, campionessa filosofica dell’ultrasinistra, che era stata rinviata a giudizio per diffamazione per aver definito il ministro Francesco Lollobrigida nientemeno che «neohitleriano».
Comprendete bene che, se viene sdoganata un’accusa del genere, tra le più infamanti che si possano scagliare contro qualcuno, tutto diventa possibile nella polemica pubblica (con l’eccezione che vedremo tra poco), e qualunque freno inibitorio è destinato a saltare. Per capirci, se questo è il metro di giudizio, anche l’atroce insulto del professor Luciano Canfora contro Giorgia Meloni («neonazista nell’animo») rischia di ricevere un clamoroso semaforo verde giudiziario.
Intendiamoci bene, a scanso di equivoci.
Già sento l’obiezione di qualche vocina di sinistra: ma come, caro Capezzone, proprio tu che dici di essere liberale vuoi restringere la libertà di parola, vuoi comprimere il free speech? Obiezione respinta, cari compagni: in un paese civile, infatti, non può e non deve esserci alcun divieto preventivo rispetto alla possibilità di dire o scrivere alcunché, insomma non deve esserci nessuna censura. Ma, dopo che il sacro diritto a esprimersi è stato garantito, deve rimanere salvo l’altrettanto prezioso diritto della persona che si senta offesa a poter difendere la propria reputazione. Altrimenti siamo già nella giungla, in cui la belva più prepotente può umiliare le altre o addirittura divorarle, se per caso ha fame. Da questo punto di vista, la pronuncia giurisdizionale di ieri appare abnorme e dalle conseguenze letteralmente devastanti.
Peraltro, c’è da osservare che ormai – in sede giurisprudenziale – c’è un’interpretazione spesso di manica larghissima nei confronti di cose che siano state dette o scritte sui canali social: metro di giudizio che ieri è stato esteso anche a parole pronunciate in una trasmissione televisiva (come aveva fatto la professoressa Di Cesare).
Dov’è che invece tende a rimanere un’asticella altissima? Rispetto alle vere o presunte diffamazioni realizzate a mezzo stampa. Per capirci, se io scrivessi qui che le posizioni contro Israele di alcuni esponenti della sinistra, magari facendo nomi e cognomi, mi paiono “antisemite”, è praticamente certo che il direttore responsabile di Libero, il mio amico Mario Sechi, passerebbe un guaio indimenticabile.
Come si vede, in Italia, le disgrazie non vengono mai da sole: per un verso si abbassa ancora l’asticella della possibilità di tutelare l’immagine e l’onore di chiunque, e per altro verso si conferma un doppio standard svantaggioso solo ai danni della carta stampata.
Da ultimo, resta una considerazione tutta politica da svolgere. Poiché nessuna decisione giudiziaria viene da Marte o resta sospesa nello spazio, è fin troppo facile immaginare le conseguenze concrete che la decisione di ieri produrrà nella nostra discussione pubblica. A sinistra riterranno di poter dire qualunque cosa nei confronti del governo e di ogni soggetto “sgradito”. In questo senso, giova ricordare l’episodio da cui la controversia giudiziaria tra Lollobrigida e la Di Cesare ha tratto origine. Lollobrigida, per esprimere un concetto ragionevole (e peraltro assai condiviso dalla maggioranza degli italiani), e cioè che l’immigrazione non debba essere incontrollata e senza limiti, e che per altro verso occorra favorire la natalità nel nostro paese, evocò in una conferenza il rischio di una «sostituzione etnica». Espressione probabilmente infelice e certamente discutibile, che molti di noi non avrebbero usato. Ma contro di lui tanti si sentirono in diritto di lanciare fango oltre ogni limite. Non ci fu solo la Di Cesare, infatti. Ricordo qui (senza evocare i peccatori) che contro il ministro dell’Agricoltura ci fu chi evocò l’apartheid, ci fu chi parlò di leggi razziali, e ci fu perfino chi citò la terribile rivista di Telesio Interlandi «La difesa della razza». Accuse ovviamente irricevibili e indegne: ma che passarono come acqua sulle pietre, nel senso che nessuno parve preoccuparsene. E, a questo punto, dopo l’ok di ieri all’espressione «neohitleriano», tutto diventerà possibile: a una persona di destra si può e si potrà dire letteralmente di tutto.
Dall’altro lato, proprio il centrodestra farebbe bene a riflettere sull’atmosfera in cui la pronuncia giurisdizionale di ieri si è inserita. Da tempo, con amicizia e sincerità, qui su Libero, poniamo alla destra italiana il tema di un accerchiamento culturale e mediatico che prosegue contro i vincitori delle ultime elezioni. Sono sicuri il governo e la maggioranza – anche con le loro scelte – di stare operando al meglio per evitare che tale accerchiamento si faccia ancora più sistematico e minaccioso? Sono certi di essere ben attrezzati nella polemica culturale?
Sanno riconoscere chi possa davvero aiutarli con autonomia e indipendenza di giudizio? Purtroppo non ne siamo convintissimi, ma rischiamo di fare la parte del povero Grillo Parlante di Pinocchio, che – com’è noto – non finì benissimo.

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