25 Aprile: le amnesie dei maestrini rossi Commento di Daniele Capezzone
Testata: Libero Data: 25 aprile 2024 Pagina: 1/13 Autore: Daniele Capezzone Titolo: «Scivoloni e amnesie dei maestrini del 25 aprile»
Riprendiamo da LIBERO di oggi 25/04/2024, a pag. 1/13, con il titolo "Scivoloni e amnesie dei maestrini del 25 aprile", il commento di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
L’imprevedibile e capricciosa regia del caso sa far bene le cose: è significativo – un’autentica nemesi perla sinistra e il suo antico complesso di superiorità – che lo sgradevolissimo scivolone del conduttore Rai Giorgio Zanchini sia avvenuto proprio nelle ultime ventiquattro ore, alla vigilia della ricorrenza di oggi. Questa edizione di Libero vi spiegherà tutto al riguardo: scuse e arrampicate sugli specchi a parte, resta il fatto che a una persona di destra (nel caso specifico, alla parlamentare Ester Mieli) si può fare e chiedere di tutto. Immaginate cosa sarebbe successo se un giornalista “di destra” avesse osato interrogare una deputata di sinistra sulla sua fede religiosa o magari sul suo orientamento sessuale. Sarebbe stato messo al rogo dall’inquisizione progressista.
Intanto, che giorno sia oggi lo sapete fin troppo bene: ci hanno letteralmente sfinito con l’uso politico del 25 aprile. Vale la pena di ricordare che l’intuizione degasperiana di questa festa era ispirata al tentativo di pacificare. «Aiutateci» disse De Gasperi in un celebre discorso rivolgendosi in primo luogo ai partigiani «a superare lo spirito funesto delle discordie. Si devono lasciar cadere i risentimenti e l’odio. Si deve perdonare».
E invece, quasi ottant’anni dopo, sembriamo (anzi: siamo) più divisi di allora. Va detto: in primo luogo per responsabilità di una sinistra che, anno dopo anno, ha sempre più tramutato i festeggiamenti per la Liberazione in un’occasione per escludere anziché per includere, per rimanere fossilizzati anziché per voltare pagina, per autocelebrarsi anziché per favorire un’autentica riconciliazione nazionale.
Da molto tempo, infatti, ma con una brusca accelerazione a partire dal 1994 (anno della prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi), la sinistra ha operato una torsione e una potente strumentalizzazione di questa ricorrenza: facendone l’occasione di una rumorosa sceneggiata contro i presunti (e ovviamente inesistenti) fascisti di oggi, cioè semplicemente contro i propri avversari, a cui tenta invariabilmente di infilare fez-stivaloni-camicia nera. Per mostrificarli, per delegittimarli, per presentarli come portatori di un dna malato che potrebbe di nuovo condurre a esiti liberticidi.
FACCIAMO FINTA CHE...
Ma invece – forse con una punta di ingenuità – proviamo per un istante a prendere sul serio i progressisti e le loro chiassate anti-dittatura. Concediamo a loro totale buona fede e concediamo a noi stessi il tempo di un esercizio: facciamo come se i loro slogan, le loro scenate, le loro sfilate corrispondessero a un genuino desiderio di contrapposizione a ogni dittatura, a ogni autocrazia, a ogni lesione della libertà a qualsiasi latitudine. Se fosse così – proseguiamo il nostro piccolo esercizio – come si potrebbe non desiderare un 25 aprile anche per tutti gli oppressi di oggi nel mondo? Un 25 aprile per gli iraniani, un 25 aprile per i venezuelani, un 25 aprile per i cubani? E poi chissà – certo, serve molto ottimismo solo per immaginarlo – un immenso 25 aprile per i cinesi e i russi?
Per stare ai conflitti aperti in questo momento: gli ucraini vorrebbero un loro 25 aprile, con gli invasori di Mosca fermati o almeno messi in condizione di non nuocere oltre. E un 25 aprile se lo meriterebbero per un verso gli israeliani e per altro verso gli stessi palestinesi ostili ad Hamas, se gli uni e gli altri potessero vedere la fine, la cancellazione, la distruzione di quel mostro terroristico.
IL MODELLO MENO DIFETTOSO
E invece no: al solo orecchiare un argomento del genere, i nostri compagni di sinistra (e pure qualche residuato anti-atlantista di destra...) tendono a storcere il naso e la bocca, ad alzare il sopracciglio, e soprattutto a recitare le loro ben note formulette prestampate: no all’esportazione della democrazia, no alla pretesa di superiorità del modello occidentale, no all’unilateralismo, sì al dialogo, sì alla diversità, bla bla bla...
Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine. Le nostre democrazie occidentali sono forse perfette e immuni da errori e in qualche caso perfino da orrori? Certo che no. Eppure – ecco il punto – questo pur fragile e fallibile mix di democrazia elettorale e libero mercato è il modello meno difettoso, meno violento, meno disastroso che gli esseri umani abbiano saputo concepire per organizzare la loro convivenza. Di più: considerando che questo esperimento vige da pochi secoli in una limitata parte del pianeta, si può ben dire che esso sia un “vagito della storia”, un tentativo ancora giovane, qualcosa che meriterebbe di essere accompagnato-perfezionato-difeso dinanzi alle sfide che inevitabilmente si stagliano all’orizzonte.
Non solo: questo modello meriterebbe forse di esser fatto conoscere a quei miliardi di esseri umani che non hanno ancora potuto né sceglierlo né tantomeno sperimentarlo. Ecco dunque il concetto chiave: non si tratta di “esportare” alcunché, ma – questo sì – di promuovere un sistema, di portarlo nel novero delle opportunità a disposizione di un numero più elevato di abitanti del pianeta, rimuovendo o contribuendo a rimuovere gli ostacoli che ne hanno finora impedito lo sviluppo in numerose aree.
È come se fossimo al bivio tra la fiducia e un altro concetto (meno piacevole, ahimé) che evocherò tra poco. La fiducia (beninteso: una fiducia nutrita di sano realismo, senza voli pindarici, senza illusioni) ci porta a ritenere che, quando le donne e gli uomini hanno la possibilità di scegliere maggiore libertà, per lo più tendono a farlo, a non disprezzare questa opportunità. A meno di essere prigionieri – qui, nei nostri comodi appartamenti, tra aria condizionata e serie tv, maneggiando l’ultimo modello di smartphone – della curiosa convinzione secondo cui questi agi materiali e insieme un notevole grado di libertà spettino, non si sa bene perché, solo a noi, cioè soltanto a chi – nel grande gioco del destino – ha estratto la carta di nascere nel paese “giusto”.
LA PAROLA GIUSTA
Si tratterebbe – per chi lo adottasse – di un surreale doppio standard. Calcisticamente parlando, infatti, in casa si continuerebbe a gridare “diritto a questo, diritto a quello”, in un crescendo dirittista pressoché inarrestabile. In trasferta, tuttavia, il soufflé dei diritti potrebbe tranquillamente sgonfiarsi, nell’indifferenza dei cuochi. Strano, no? La poetica dei diritti varrebbe solo per noi, sulla pelle e alle spalle di coloro che non potranno mai usufruirne.
C’è una parola (accennavo prima a un concetto poco gradevole in cui ci saremmo inevitabilmente imbattuti) che sintetizza questo atteggiamento dei nostri professionisti dell’antifascismo, che però non vogliono un 25 aprile per gli oppressi di tutti il mondo. Tenetevi forte, perché è l’ora – per noi – di giocare all’attacco e di metterli sulla difensiva, chiamandoli con il loro nome: è la parola razzisti.
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