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Libero Rassegna Stampa
19.04.2024 La resa dei rettori ai violenti in ateneo
Commento di Daniele Capezzone

Testata: Libero
Data: 19 aprile 2024
Pagina: 1/6
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: «La resa dei rettori ai violenti in ateneo»

Riprendiamo da LIBERO di oggi 19/04/2024, a pag. 1/6, con il titolo "La resa dei rettori ai violenti in ateneo", il commento di Daniele Capezzone.

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

La Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) ha deciso che, per evitare scontri, le conferenze si terranno in streaming. Non viene riconosciuto il problema dell'antisemitismo nelle università. E si nega la realtà del boicottaggio degli atenei israeliani, con giri di parole.

Spiace dover svolgere – temiamo non in vasta compagnia – la parte dei grilli parlanti o quella degli spiriti incontentabili: ieri, infatti, da molte sponde sono giunti apprezzamenti verso il documento reso noto dalla Crui, la conferenza dei rettori delle università italiane, e verso le parole della presidente dell’organismo Giovanna Iannantuoni. E indubbiamente alcune delle intenzioni che abbiamo letto e ascoltato sono rassicuranti e positive. Tuttavia – ce lo si consenta – siamo al minimo sindacale di quanto dovrebbe accadere in una democrazia liberale. E ci sono almeno cinque questioni che non tornano affatto, e che anzi – temiamo inconsapevolmente – danno l’idea di un cedimento culturale di fondo. Primo. Dice la presidente della Crui che non c’è stato alcun boicottaggio della collaborazione scientifica con le università israeliane. E ci mancava solo che ci fosse in questi termini espliciti e sfacciati. Tuttavia – e non ci pare meno grave – c’è stata la scelta di diversi atenei di non rinnovare tali accordi o di non partecipare ai relativi bandi. Il caso di Torino – qualche settimana fa – è semplicemente indifendibile, con una decisione assunta in un clima surreale, con tanto di irruzione degli studenti pro Palestina (armati di bandiere e striscioni) in piena riunione dell’organismo dell’ateneo. I docenti – non sapremmo dire se intimiditi o culturalmente omogenei rispetto ai cori dei manifestanti – avrebbero ascoltato e poi, secondo quanto riferiscono le cronache, avrebbero risposto: «Riceviamo il documento e ne discuteremo al momento opportuno». Ma i manifestanti hanno chiesto di «essere partecipi della decisione», e i professori – spalle al muro – hanno di fatto obbedito. E' forse normale tutto questo? Non mi pare. Secondo. Restano in piedi – non di rado in numero superiore rispetto a Israele – accordi e intese di collaborazione con università di paesi autoritari, dall’Iran alla Russia. Dunque l’Italia finisce per accettare la discriminazione di enti culturali israeliani (come se fossero espressione dell’esercito di Gerusalemme o di una maggioranza politica) e invece non apre la discussione su autocrazie e dittature nelle quali è per lo meno improbabile supporre un’autonomia culturale delle istituzioni culturali pubbliche.

LE LIBERTÀ

Terzo. Si continua a parlare di diritto al dissenso: e – ovviamente – per chi ama la libertà di pensiero e di parola siamo di fronte a qualcosa di sacro. Ma non si può far finta di non cogliere la differenza tra l’esercizio di un dissenso – anche pubblico e vibrante – e il tentativo di impedire con la forza che degli eventi “sgraditi” si tengano, o di imporre decisioni ideologicamente orientate. E' forse diritto al dissenso impedire conferenze, allontanare relatori o costringerli ad andarsene, picchiare le forze dell’ordine? Quarto. Si continua a non vedere – e si tratta di una cecità allarmante – che oggi le persone davvero a rischio, nelle scuole e nelle università italiane, sono gli studenti e i docenti di religione ebraica, o chiunque simpatizzi (o sia sospettato di farlo) per le posizioni di Israele. E' ormai fatto notorio che molti studenti di religione ebraica non si sentano più sicuri nel frequentare i loro luoghi di studio, e meno che mai nel manifestare il proprio credo e le proprie opinioni. Vogliamo fingere che tutto questo sia accettabile? Quinto. Leggo – un po’ incredulo – che una delle soluzioni proposte nel documento della Crui, «in caso di interruzioni o fenomeni di intolleranza», sarebbe quella «di svolgere eventi in altra modalità (per esempio online)» al fine di non cancellare l’appuntamento. Ma stiamo scherzando?

CEDIMENTO TOTALE

Una soluzione del genere è già un cedimento pressoché totale: significa che – fisicamente – i prepotenti possono rivendicare una vittoria, che il territorio universitario è cosa loro. E a quel punto, anzi, tutto lo sforzo dei violenti sarà proprio quello di ottenere un risultato del genere, un no-platforming o un de-platforming fisico (cioè cacciare dei relatori o impedire delle conferenze), lasciando – bontà loro – ai soggetti sgraditi la possibilità di rifugiarsi in territorio virtuale. Ecco perché c’è da essere seriamente preoccupati davanti a un’impostazione complessivamente debole e rinunciataria come quella della Crui. Aggravata da una lunga serie di concessioni – se non al politicamente corretto – a quello che potremmo chiamare “pacifisticamente corretto”. Scrivono infatti i rettori che, «come perla tutela dell’ambiente, anche contro la guerra i giovani ci chiedono di assumerci delle responsabilità. Questa istanza non può rimanere inascoltata». Aggiungono che «appare necessario ribadire che la pace è un diritto fondamentale della persona e dei popoli»; che «si organizzino incontri pubblici dove ospitare gli esponenti delle organizzazioni umanitarie e della società civile che operano nelle zone di guerra perché possano raccontare la loro esperienza e promuovere forme di sostegno, anche economico, a tale azione umanitaria»; che «si promuovano nelle università linee di ricerca per la trasformazione non violenta dei conflitti»; che «si organizzino eventi nazionali sui temi della pace», e così via. Inutile girarci intorno: siamo lontanissimi da quanto sarebbe necessario affermare con forza contro ogni censura e contro la prepotenza di chi vuole imporre azioni chiaramente ostili a Israele e agli ebrei.

FORME DI CENSURA

Altro che farsi scrivere l’agenda dai collettivi terzomondisti e pacifisti. Da tempo, qui su Libero, ho proposto un passo di limpida impronta liberale: e cioè il ritiro dei finanziamenti pubblici a qualunque luogo o istituzione universitaria o educativa dove siano avvenute forme di censura, dove si siano registrati atti di discriminazione su base politico-ideologica (il caso di Torino, per capirci), dove sia stato praticato il no plat-forming o il de-platforming. Una ricetta dura? Certamente. Ma chiarissima e semplice, direi inequivoca. Sei un’università? Sei una scuola pubblica? Ricevi il denaro dei contribuenti? Se però ti sei reso protagonista di un comportamento censorio, se lo hai accettato o addirittura promosso, non potrai ricevere i soldi dei taxpayers. Si dirà che è una soluzione provocatoria: in qualche misura lo è, ma non nel significato deteriore dell’aggettivo. Semmai, è provocatoria nel senso che vuole provocare una presa di coscienza e una svolta. Quella che purtroppo non si trova nel flebile e cedevole documento dei rettori.

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