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Il Foglio Rassegna Stampa
13.04.2024 Skobov, eroe in prigione in Russia che l’Occidente ignora
Commento di Micol Flammini

Testata: Il Foglio
Data: 13 aprile 2024
Pagina: 1/20
Autore: Micol Flammini
Titolo: «Professione dissidente»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/04/2024, a pag. 1/20, con il titolo "Professione dissidente" il commento di Micol Flammini.

Micol Flammini

Micol Flammini

Alexander Skobov, arrestato a San Pietroburgo. Dissidente sovietico ai tempi di Breznev, da tutta la vita lotta contro il regime di Mosca, prima quello comunista, poi quello di Putin

A inizio aprile Alexander Skobov è stato portato nell’aula di un tribunale a San Pietroburgo e prima che iniziasse il processo a porte chiuse ha urlato: “Gloria all’Ucraina, morte all’assassino Putin”. Ha sessantasei anni, è un uomo determinato, pronto a tutto pur di vedere libera la Russia, è stato arrestato per “sostegno al terrorismo” e “attività estremista” e i terroristi che Skobov sostiene, a detta della legge russa, sono gli ucraini che lottano contro l’aggressione e i russi che si oppongono alla guerra. 

E’ dal 2014 che Skobov manifesta contro l’invasione russa dell’Ucraina ed è da tutta la vita che combatte contro un regime. Per una minima parte della sua esistenza è stato una stella polare per la società russa, ma era soltanto l’inizio degli anni Novanta, quando le speranze di cambiamento durarono il tempo di un’illusione e lui veniva invitato nelle scuole e nelle università per raccontare come aveva combattuto contro il regime sovietico, come era stato rinchiuso dentro un ospedale psichiatrico da giovanissimo per i suoi discorsi contro il potere, come aveva lanciato dei volantini lungo la prospettiva Nevskij dell’allora Leningrado durante il quindicesimo Congresso del Pcus per suggerire un’idea diversa di società. Era il 1976, i servizi di sicurezza russi andarono a prenderlo ma lui continuò. Si impegnò nella stesura di saggi di argomento storico che venivano diffusi clandestinamente, produsse un volume dedicato alla storia della Russia e per il regime di Breznev Skobov era talmente una spina nel fianco che gli venne offerto di lasciare il paese. Non era intenzionato e neppure interessato ad abbandonare la sua Leningrado, a rinunciare a cambiare il corso del suo paese sempre in cerca di guerre. Skobov decise di rimanere perché era convinto che avrebbe potuto cambiare le cose, parlare a qualcuno, anche se clandestinamente: aveva scelto la dissidenza come lavoro. Le cose cambiarono davvero, l’Unione sovietica venne giù, bisognava costruire la libertà ed è in quel momento che Skobov iniziò a girare la Russia e le scuole per raccontare la storia della dissidenza, gli errori, i drammi, il coraggio. In un’intervista a Meduza ha detto che gli piaceva stare a contatto con i più giovani, sentire il potere di avere un influsso sulle loro menti, ma la guerra di Eltsin in Cecenia e poi l’arrivo di Vladimir Putin gli fecero capire che non era il momento di smettere di lottare, perché tutto poteva ricominciare, ripetersi. Non si è illuso, ha visto la disfatta dell’opposizione divisa su qualsiasi cosa, ha visto gli applausi al “liberale” Dmitri Medvedev fare da colonna sonora allo sprofondare nella dittatura e ha cercato ogni modo per protestare contro la guerra in Ucraina. Nel 2014 mentre camminava per San Pietroburgo, mai abbandonata, è stato accoltellato. Poteva smettere, poteva andarsene: ha continuato. 

Il suo processo è ancora senza sentenza, potrebbe essere condannato a sette anni di carcere in una Russia che ha descritto molto diversa dall’Unione sovietica, lontana dall’impero zarista, assimilabile piuttosto alla Germania nazista, dove i cittadini avevano una tale assuefazione al male e sbornia di propaganda che non avrebbero mai capito la differenza tra la libertà e la reclusione, tra la vita e la morte. Allo stesso modo, nelle ultime interviste rilasciate prima dell’ultima udienza ha descritto i suoi concittadini: drogati, assuefatti, distanti. Molto diversi da quelli sovietici, che rimanevano nell’ombra senza farsi domare, adesso i russi credono, assorbono e il cambiamento per Skobov si è fatto più lontano. Alla giornalista Anastasja Obnorskaja ha raccontato che questo regime potrà finire soltanto in modo violento: “Colpo di stato, un cuscino che lo soffochi, un cecchino! Sfortunatamente non credo che nei prossimi anni o nei prossimi due la guerra apporterà nella società russa i cambiamenti che avvennero durante la Prima guerra mondiale, quando nel 1917 il popolo russo si rifiutò di combattere e demolì lo zarismo”. La differenza sta nelle menti, nel grado di trasformazione in zombi da cui si sono salvati in pochi. Basta un esempio: il 22 marzo scorso un commando di quattro uomini è entrato in una sala concerti alle porte di Mosca, ha ucciso più di cento persone, ha dato fuoco alla struttura. L’attentato è stato rivendicato più e più volte dallo Stato islamico, in un agone inedito di comunicazione contro la propaganda russa che invece continua ad accusare Kyiv e l’occidente fino a portare i terroristi catturati e torturati a confessare di aver avuto contatti con gli ucraini. Il Cremlino con i suoi funzionari e le sue televisioni ha ripetuto talmente tante volte questa versione inverosimile che i cittadini hanno iniziato a credervi in uno sforzo di ipnosi di massa. 

Non si possono cancellare sessant’anni di dissidenza febbrile, a chi domanda perché non tenti la salvezza con l’esilio, Skobov risponde: “Facessero di me quello che vogliono, di quel che sono rimarrà sempre una certa quantità di memoria, sarà quella la mia voce”.

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