'Detesto i musulmani, ci trattano da schiave' Intervista di Elisabetta De Dominis
Testata: Libero Data: 11 aprile 2024 Pagina: 5 Autore: Elisabetta De Dominis Titolo: «'Detesto i musulmani, ci trattano da schiave'»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 11/04/2024 a pag.5, con il titolo "Detesto i musulmani, ci trattano da schiave", l'intervista di Elisabetta De Dominis a Roja, donna iraniana divorziata.
«Regina, mi chiedi di rinnovare un grande dolore» dice Enea a Didone che l’ha pregato di narrarle il suo passato. Ricordare comporta sofferenza perché, quando si è costretti ad abbandonare un luogo dove si era qualcuno, ci si spoglia della propria identità, di quello che siamo stati finora. E' la società a conferirci il riconoscimento sociale. Eppure si fugge per essere liberi, convinti di fare una scelta identitaria perché stiamo salvando noi stessi. Si ripartirà da zero, ma si riuscirà mai a ritornare quelli di prima? L’identità non è un vestito che si può portare con sé né corrisponde alla libertà. Solo chi ha una spiccata personalità antepone sopra ogni altro bene la libertà.
Roja, una donna iraniana culturalmente e socialmente elevata, dieci anni fa si è trasferita in Italia scegliendo di rinunciare a tutto quello che aveva e quella che era per essere libera. Mentre narra a Libero la sua storia struggente, la voce gutturale sembra risalire a fatica dal profondo della sua anima, lacerata da chi l’aveva messa al mondo e avrebbe dovuto amarla: sua madre. Per anni si è piegata a tutto quello che le imponeva: per essere amati si accettano cose difficili perfino da confessare. La fame d’amore è fame di vita finché non ti accorgi che per sopravvivere con dignità devi prima imparare ad amare te stessa.
Roja come ti definisci? Persiana, musulmana...
«Mi definisco un essere umano. Non mi sono mai sentita una musulmana. Dove ci sono i musulmani c’è la guerra. Odio questa religione. E detesto gli uomini musulmani: per loro la donna è una schiava, deve servire. Un uomo può avere fino a 40 mogli, basta che le mantenga. Il problema dell’Islam sono le donne che finché non si ribelleranno, continueranno a crescere i figli secondo le regole imposte dagli uomini».
Quando ti sei ribellata?
«Ho smesso di essere una donna accondiscendente quando ho deciso di divorziare: nessuno avrebbe più potuto dirmi quello che dovevo fare. Sono nata nel 1979, esattamente l’anno della rivoluzione che ha scacciato lo scià e gli ayatollah hanno preso il potere seminando la paura. Non ho mai vissuto nella libertà. Ma sapevo che prima gli iraniani erano liberi perché mia nonna e mia zia me lo raccontavano e mi davano tanti libri da leggere. Trovavo risposte alle mie domande. Meditavo su frasi come: “Se vuoi cambiare il mondo, devi prima cambiare te stessa”. Leggere mi ha aperto la mente. Non potevo accettare quelle regole di sottomissione.
Era vietato ascoltare musica, dovevo indossare il chador, ero sempre chiusa in casa e mia madre mi urlava che ero una puttana. A 18 anni tentai il suicidio ingerendo delle pillole a scuola. Nel letto d’ospedale sentii mio padre che diceva: “$ morto un cane”. Mi riportarono a casa gettandomi sul letto proprio come fossi un cane.
Nessuno mi chiese il perché del mio gesto».
Ti sei sposata per amore?
«Come ci si può innamorare se è vietato guardarsi negli occhi?
Ero la più brava del liceo e volevo studiare lettere, ma mio padre mi impose di iscrivermi alla facoltà di matematica. Conobbi un uomo che aveva un negozio. Ci saremmo telefonati dieci volte e rivisti due volte per strada. Tutto con la paura di venir arrestata: una donna non può uscire con un uomo se non è un suo parente. Mi chiese di sposarlo. Mia madre lo venne a sapere, convocò tutti i parenti, piangeva e gridava: dovetti sposarlo, munita di certificato di verginità. Mi ha rovinato la vita, non riesco a perdonarla».
Quando hai deciso di divorziare?
«Insegnavo matematica all’università e mio marito chiese il licenziamento. Poi divenni direttrice di una fabbrica, in cui lui faceva l’operaio. Andavo a lavorare con la faccia tumefatta: mi picchiava per dimostrare che se anche io comandavo in fabbrica, lui comandava me. Ho sopportato sette anni per crescere mio figlio. Una sera mi picchiò a sangue gridando: “Ti uccido e pago il tuo funerale”.
La notte presi mio figlio e fuggii a casa dei miei. Era buio e pioveva, ma mia madre non aprì la porta. Il giorno dopo chiesi il divorzio: lo ottenni dopo tre anni e mezzo, mio figlio fu affidato al mio ex. Mi telefonò che si trasferiva in Svezia con lui. Mi cadde il mondo addosso. Pagando, ottenni il permesso di emigrare in Italia perché vi abitava mia sorella. In Iran ero una persona forte; qui, in Italia, sono libera ma non mi sento forte: faccio la cameriera, però riesco a mantenere mio figlio agli studi.
Mi manca la Roja che ero in Iran».
Tornerai in Iran?
«Andrò a combattere ancora. Riprenderò a studiare giurisprudenza. Salverò vite di donne e bambini: soffriranno di meno».
Ma sai che ti sacrificherai?
«Per qualsiasi cambiamento servono sacrifici. Dovremo dare ancora tanto sangue».
Cosa pensi della pretesa dei musulmani di costruire moschee in Italia?
«Dove c’è una moschea, lì è terra di Allah. Che tornino a casa loro!».
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