Usa, guida debole per il mondo Commento di Daniele Capezzone
Testata: Libero Data: 24 marzo 2024 Pagina: 1/13 Autore: Daniele Capezzone Titolo: «I dubbi sulla strage russa e le troppe incertezze Usa»
Riprendiamo da LIBERO di oggi 24/03/2024, a pag. 1/13, con il titolo "I dubbi sulla strage russa e le troppe incertezze Usa", il commento di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Uno che se ne intendeva come Winston Churchill spiegò - e la definizione rimane inarrivabile per dolorosa profondità - che la Russia è «un rebus avvolto in un mistero ricompreso in un enigma».
A maggior ragione, quindi, suscitano un misto di preoccupazione e pena quelli che (non essendo Churchill, peraltro...) sono convinti di avere in tasca certezze assolute sul tragico attentato dell’altra sera a Mosca. Purtroppo, l’unica certezza sta nel numero enorme di vittime e di feriti provocato da questa atroce azione terroristica. Tutto il resto appartiene a una imperscrutabile combinazione di vero-verosimile-finto-falso alla quale stanno contribuendo diversi attori, con scopi a loro volta oscuri. Né soccorre il metodo del “cui prodest”, cioè dell’individuazione su basi razionali di chi possa avvantaggiarsi di un certo evento. A volte le cose possono essere effettivamente spiegate attraverso questa chiave, ma a volte no, in particolare quando si entra nel gioco di specchi delle simulazioni e delle dissimulazioni. E in ogni caso - verità inafferrabili a parte - rimane il tema dell’uso politico che ogni attore deciderà di fare di questa sanguinosa circostanza, sfruttandola per i propri fini.
È attendibile ad esempio la rivendicazione dell’Isis? Certamente si tratta di un antico nemico della Russia putinista, e di un soggetto interessato sia a vendicarsi sia a innescare dinamiche di destabilizzazione. Ma di più non sappiamo.
Ancora: è attendibile l’indagine che, a ritmi serrati, è stata condotta dall’intelligence russa, e che ha portato agli arresti istantanei di undici persone, tra cui quattro possibili attentatori? Può darsi di sì, ma tutto va naturalmente preso con le molle: sia perché Putin, che tiene alla sua immagine di uomo capace di garantire la sicurezza dei suoi concittadini, è stato indubbiamente danneggiato dalla notizia di un attentato nel cuore del Paese, e dunque ha una necessità spasmodica di “risolvere il caso”; sia perché è evidente la fretta di Mosca nel coinvolgere Kiev, ad esempio ipotizzando che i colpevoli intendessero fuggire verso l’Ucraina.
E allora si arriva al cuore del problema: tra vero-verosimile-finto-falso, è scontato che al Cremlino faranno di tutto per scaricare sull’Ucraina responsabilità dirette o indirette, e dunque per giustificare un’escalation, un inasprimento dell’offensiva, una feroce rappresaglia. E qui scatta il nodo più doloroso. Davanti a circostanze e prospettive così incerte e così cupe, sarebbe massimamente necessario - per il mondo e per il nostro Occidente - disporre di una leadership americana al suo meglio. Diciamolo in termini che non piaceranno a chi cova antichi e radicati sentimenti anti-atlantisti: servirebbe un guardiano del mondo forte, autorevole, credibile, e pure in certa misura temuto. Purtroppo, per ragioni che sono a tutti evidenti, non è questa la situazione in cui si trova Joe Biden. A ritroso, si può ragionevolmente ritenere che proprio la precipitosa e umiliante ritirata Usa dall’Afghanistan nell’agosto del 2021 abbia incoraggiato Vladimir Putin, qualche mese dopo, a tentare l’avventura in Ucraina. Il guardiano del mondo era debole, e dunque Mosca ritenne di poter osare l’inosabile.
E DOPO BIDEN?
In questa primavera del 2024, se possibile, la situazione è perfino peggiorata: gli Usa bideniani stentano a supportare adeguatamente l’Ucraina, esitano (per non dire: balbettano) nel Mar Rosso, lavorano in Medio Oriente per frenare Israele. Una ritirata morale generalizzata. E questa propensione alla timidezza, alla paralisi decisionale, al gioco di rimessa, potrà solo accentuarsi nei lunghissimi sette mesi che ci separano dalle elezioni presidenziali americane di novembre (che diventeranno nove-dieci mesi fino all’insediamento del nuovo inquilino della Casa Bianca a gennaio 2025).
E poi chi sarà il nuovo presidente? Se fosse ancora Biden, ci ritroveremmo pari pari nella semiparalisi attuale. Se invece fosse Donald Trump, saremmo in una situazione totalmente non prevedibile. Per inciso, imprevedibile (“unpredictable”) è esattamente la definizione che l’allora candidato Trump diede nel 2016, in una lunga intervista rilasciata all’editorial board del Washington Post, per descrivere le caratteristiche della sua futura politica estera. E aveva detto il vero, va riconosciuto. Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca, infatti, non sempre predicò bene, ma in compenso razzolò benissimo. Non uno dei “cattivi” del mondo, durante il suo mandato, guadagnò posizioni; l’operazione “Accordi di Abramo”, in Medio Oriente, fu eccellente e capace di coinvolgere Gerusalemme e Riad isolando saggiamente Teheran (purtroppo, come si sa, Biden avrebbe poi smontato tutto). E anche rispetto alla Russia i comportamenti reali di Trump sono sempre stati assai migliori dei suoi discorsi: è stato Trump a criticare la Germania e l’Ue per la loro eccessiva dipendenza dal gas di Mosca (e aveva ragione lui); è stato sempre Trump a rifornire saggiamente Kiev degli efficacissimi missili javelin; ed è stato ancora Trump a spiegare a Bruxelles-Parigi-Berlino che non potevano permettersi ambiguità e posizionamenti “terzi” tra Occidente e potenze eurasiatiche.
LE PAROLE DI DONALD
Certo, Trump è stato inseguito dalle ombre del Russiagate, cioè di una presunta collusione con Mosca: ma quelle accuse sono rimaste senza prove, e i suoi comportamenti alla Casa Bianca sono stati limpidi. Non altrettanto si può dire - purtroppo - di alcuni suoi recenti interventi, in cui la (condivisibile) critica a Biden e ai leader occidentali è talora sconfinata in un (non condivisibile) ammiccamento a Putin. Pirandellianamente parlando, dunque, quale tra i molti Trump possibili vincerebbe il prossimo novembre?
Di nuovo, non possiamo saperlo.
E allora eccoci di nuovo in mezzo al guado, alle prese con le incertezze e le fragilità di Biden. Il quale non sembra avere né la forza o la volontà per assistere Kiev in modo tale da consentire agli ucraini di non perdere troppo terreno sul campo; né la convinzione per farsi promotore di un accordo di pace che non premi eccessivamente gli aggressori russi; né la credibilità per evitare che una serie di altri attori (dalla Turchia alla Cina all’Arabia Saudita) cerchino variamente di trarre vantaggio da una situazione di caos crescente in diversi teatri. Mala tempora currunt, peiora parantur. Quando Washington è incerta, il mondo libero è più debole.
Quanto a noi, siamo qui a discutere delle piazzate del sindaco Antonio Decaro, delle furbate di Giuseppe Conte, del vuoto pneumatico di Elly Schlein: quadro deprimente.
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