Auschwitz: andate a vedere il film “La zona d’interesse” Commento di Annalena Benini
Testata: Il Foglio Data: 02 marzo 2024 Pagina: 5 Autore: Annalena Benini Titolo: «I rumori di Auschwitz»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi 02/03/2024, a pag. 5, con il titolo "I rumori di Auschwitz", il commento di Annalena Benini.
Annalena Benini
Non basta leggere, bisogna sapere e vedere, vedere e sapere, indissolubilmente Claude Lanzmann. Se non avete ancora visto La zona d’interesse di Jonathan Glazer, e se sapete solo che tanti ne parlano e che c’entra Martin Amis, non leggete questo articolo. Strappatelo, o mettetelo da parte. Andate al cinema, e assolutamente allo spettacolo in lingua originale.
Se invece siete già stati al cinema e siete tornati a disagio, con la testa che gira, adesso voi e io abbiamo in comune un disvelamento e uno choc durato due ore ma che dura ancora, e anzi cresce e continuamente ci interroga sulla quotidianità del male e sulla potenza del cinema, che è riuscito a trovare le immagini e i suoni per raccontare qualcosa che nemmeno le parole sanno dire. Qualcosa di nuovo, dentro una storia che conosciamo tutti e che non vorremmo conoscere più. Naturalmente se Hannah Arendt non avesse scritto La banalità del male, durante il processo Eichmann, se Claude Lanzmann non avesse girato il documentario “Shoah”, questo film non esisterebbe. O forse invece sì, perché l’arte arriva e scopre nuovi modi di turbarci, anche di cambiarci, dicendo una verità a cui non sapevamo pensare. Facendocela ascoltare: i latrati dei cani, le urla di esseri umani, il rumore del treno, gli spari di allora, con le armi di allora, rumori di scarponi sul selciato, di soldati, rumore di morte senza mai vedere la morte.
La famiglia Höss, marito, moglie e cinque figli e figlie, vive a poche decine di metri dal campo di prigionia e di sterminio di Auschwitz (tutti, anche quelli che non sono mai stati ad Auschwitz, sanno com’è fatta Auschwitz, sanno riconoscere Auschwitz. Non è stato l’orrore piantato in mezzo al nulla e quella casa, che adesso è patrimonio Unesco e che è stata ristrutturata fedelmente in base al modello reale ma poche centinaia di metri più in là, esiste ed è stata il centro di una vita famigliare che allo stesso tempo determinava la strage e veniva permeata dalla strage). Gli Höss vivono e accolgono gli amici e le altre mogli naziste e la nonna in una bella casa borghese con giardino, piscina e serra. Lui è “Comandante ad Auschwitz”, come il titolo della sua autobiografia ripubblicata nel 1985 da Einaudi con la prefazione di Primo Levi e un articolo di Alberto Moravia. Primo Levi definisce Höss il “miglior tecnico della strage”, “uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese”: amorevole con i figli, amorevole con il suo cavallo, orgoglioso della propria immonda professionalità e della propria obbedienza diligente. I dettagli narrativi geniali del film ci mostrano l’importanza di festeggiare l’anniversario di matrimonio con la moglie e ripensare a quel bel viaggio in Italia insieme, la bellezza di portare i figli a fare il bagno nel fiume con la barchetta regalo di compleanno, salvo poi accorgersi che il fiume è pieno di strane cose organiche: meglio tornare a casa e fare tutti il bagno nella vasca, togliersi di dosso la cenere degli ebrei che Höss ha dato l’ordine di gasare e bruciare, per i quali ha ideato anche nuovi modi per morire più velocemente. Tutto questo noi lo sappiamo ma non lo vediamo, siamo costretti a immaginarlo, a sentirci male vedendo la cenere nera che scende nello scarico della vasca. Questa è la storia che conosciamo ma che non abbiamo mai davvero guardato: non avevamo mai visto l’aria impregnata di bugie e di rimozione, non avevamo mai visto bambini fare il bagno in piscina con grida di morte come sottofondo. E questa morte che abbiamo saputo, studiato, letto, ricordato, celebrato, rimosso e anche visto in altri film, questo annientamento che continuiamo a credere non ci riguardi, stavolta ci soffoca e ci stritola attraverso un punto di vista completamente nuovo. La zona d’interesse è candidato tra gli altri premi anche all’Oscar per il miglior sonoro, perché noi per tutta la durata del film sentiamo quello che accade in un campo di concentramento, cioè sentiamo quello che può sentire una famiglia che vive lì accanto, e a cui i rumori arrivano attutiti dal muro di cinta del giardino e dalle mura domestiche. Noi non vediamo che cosa accade dall’altra parte del muro, ma lo sentiamo, ne veniamo contaminati, e a un certo punto, verso la fine del film, siamo nella cameretta di uno dei figli, un bambino delle scuole elementari, ben pettinato e ben vestito che gioca con i soldatini sul pavimento della sua stanza con la finestra aperta. “Che cos’ha fatto? Ha litigato per una mela. Annegalo nel fiume”. Il bambino sente questo scambio, sente le urla, i latrati, si alza e chiude la finestra. Non vediamo la morte, non vediamo mai le torture, lo scempio, il denudamento, ma vediamo le mogli naziste spettegolare nel tinello dei vestiti che si sono prese, uno di una ebrea che “era alta la metà di lei”, vediamo la moglie di Höss (Sandra Hüller di Anatomia di una caduta) che si prova una pelliccia di visone allo specchio e in tasca alla pelliccia trova un rossetto: se lo prova con voluttà ma di nascosto, perché quel rossetto ha toccato le labbra di una donna ebrea. C’è un insopportabile distacco, un’insopportabile specie di allegria e di trionfo della moglie del comandante, figlia di una donna di servizio, che arriva in visita e le dice “sei proprio caduta in piedi figlia mia”, e lei è orgogliosa di mostrarle il riscaldamento centralizzato, i fiori incantevoli, i materassi comodi da “regina di Auschwitz”.
Tutto questo è in totale sottrazione ed è soffocante, e anche se non potrebbe succedere al cinema, accade invece di sentire, per immedesimazione, per disagio, quell’odore di morte e putrefazione umana che Martin Amis descrive ne La zona d’interesse (Einaudi 2015), quel sapore mefitico dell’acqua potabile, quella cosa che non si vede ma che nel film fa tossire tutti, piangere i neonati, ubriacare la baby sitter, mentre una bambina è sonnambula e un altro chiude il fratellino dentro la serra e con le labbra sibila il rumore del gas. La nonna si preme un fazzoletto contro la bocca. Per questo La zona d’interesse è un grande film, perché ricrea la memoria, la rigenera, scoprendone angoli inesplorati e momenti narrativi sconvolgenti.
Vediamo la morte, vediamo lo sterminio, vediamo il progetto di annientamento soltanto guardando un muro, sul quale si vuole far crescere qualche rampicante. Detto così, come noi diciamo di voler far crescere i glicini sul balcone.
E vediamo il fumo che sale dal camino, quindi dal forno crematorio in funzione tutto il giorno, lo vediamo molto nitido per pochi istanti, al di là del muro e contro un cielo livido e allucinato, e intanto ci troviamo dentro un giardino quasi lussureggiante, dove la regina di Auschwitz è estasiata dalla crescita del cavolo rapa che fa tanto bene ai bambini, e totalmente indifferente a tutto il resto. Ci troviamo in una realtà esaltata e bucolica (credo che non userò mai più questo aggettivo spaventoso, una volta terminato questo articolo), in cui il padre amorevole legge le fiabe dei fratelli Grimm, e legge di Hansel e Gretel che riescono alla fine a spingere nel forno la strega cattiva. Questo è troppo, questo è tutto, ed è di una tale potenza grottesca vedere il picnic in riva al fiume, all’inizio del film, che l’orrore del picnic cresce a poco a poco dentro la testa, perché quella scena banale, quella scena idilliaca e appunto bucolica ha bisogno di espandersi nel cervello, di mettersi in connessione con i latrati dei cani e con il rumore degli scarponi sul selciato. Si vedono dei deportati in cammino con le casacche grigie, a un certo punto, mentre Höss gira a cavallo per la campagna alla ricerca di un airone. E quindi sta a noi immaginare, ricordare, sapere, finalmente capire che cos’è la banalità del male: il male estremo e non profondo. Il male ottuso, borghese, diligente, meccanico, ciecamente accettato, il male che si espande tutt’intorno e che diventa una vita normale. “Devo confessare di avere assolto il mio compito con coscienza e attenzione, di non avere avuto riguardi verso i prigionieri”, scrive Höss nelle sue memorie con orgoglio, senza alcuna capacità di falsificare la storia, e anche nella Zona d’interesse è fiero di obbedire agli ordini, mentre la moglie gli dice: parla con Hitler, non farti trasferire, e si lamenta e strepita e lo convince a lasciarla lì, con i bambini che stanno crescendo così bene in mezzo alla morte che non si vede. E intanto la ragazzina si sveglia di notte e confonde realtà, sogno e favole, e noi con lei (ma quelle mele portate al campo di notte di nascosto in bicicletta sono vere).
A un certo punto, è tutto così insopportabile che il regista deve uscire da lì e tornare qui: al museo di Auschwitz, alla memoria che adesso è materia perché è un mucchio di scarpe dentro una teca di cui due donne stanno pulendo i vetri, e pulendo a terra con l’aspirapolvere.
Siamo qui, siamo vivi, siamo scandalizzati, andiamo in visita ad Auschwitz, l’abbiamo superato, lo supereremo mai? Certo che no: no. Finché questo male dell’uomo sull’uomo riesce a trasformarsi in un picnic bucolico, finché diremo: era un mostro, senza guardare di che sostanza umana è fatto quel mostro. Höss va a una festa a Berlino, una festa di ariani, una festa di nazisti, ed è molto soddisfatto perché gli hanno comunicato che tornerà ad Auschwitz: è lui il più adatto all’enormità del lavoro e all’aumento dei carichi. Sapete che cosa sono i carichi. A questa festa si mette in alto, e dall’alto guarda la sala da ballo piena di gente. Dopo, forse un po’ ubriaco, telefona alla moglie che non ha nessuna voglia di parlare con lui, ma gli chiede per educazione chi c’era alla festa. C’era questo, c’era quello. Una conversazione qualunque. E lui le risponde più o meno così: “Non ci ho fatto caso, li guardavo ma ero troppo concentrato sul pensiero di come fare per gasarli tutti. Con i soffitti alti è impossibile”.
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