24/02/2022: Putin dichiarò guerra all’Occidente Commento di Mario Sechi
Testata: Libero Data: 24 febbraio 2024 Pagina: 6 Autore: Mario Sechi Titolo: «Gli errori e gli orrori di due anni di guerra. Una sola la certezza: è una battaglia di civiltà»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 24/02/2024, a pag.6 con il titolo "Gli errori e gli orrori di due anni di guerra. Una sola la certezza: è una battaglia di civiltà" l'editoriale di Mario Sechi.
Mario Sechi
Due anni. Il 24 febbraio del 2022, il giorno in cui Vladimir Putin annuncia l’invasione dell’Ucraina, lo ricordo come un bagliore. Come il pomeriggio dell’11 settembre 2001, gli attentati alle Torre Gemelle a New York; come il 31 dicembre 2019, quando la Cina diede in ritardo all’Oms la notizia della “misteriosa polmonite”, epicentro a Wuhan; come la morte del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio del 2020 da due missili Hellfire a Baghdad; come il ritiro delle truppe americane da Kabul, il 30 agosto 2021, l’immagine del generale Chris Donahue che sale sull’aereo, l’ultimo soldato; come la mattanza di Hamas in Israele, la caccia all’ebreo del 7 ottobre 2023. Fatti che hanno plasmato un altro mondo, quello in cui viviamo.
Il 24 febbraio del 2022 Putin dichiarò guerra all’Occidente, senza mai pronunciare la parola guerra. I carri armati, la fanteria, i missili, per lui erano “l’operazione speciale”. Va avanti da due anni, dopo centinaia di migliaia di morti, un sottosopra nel corso della Storia, quanti orrori e di errori. Chi ha parlato di “blitzkrieg”, di guerra -lampo della Russia, ha sbagliato; chi s’è detto sicuro della vittoria rapida dell’esercito di Kiev, ha sbagliato; chi ha scommesso sull’implosione del clan di Pu tin, ha sbagliato; chi si è illuso di respingere l’esercito di Mosca senza i cacciabombardieri, ha sbagliato; chi ha decretato la fine dei carri armati, ha sbagliato; chi ha archiviato la Nato, ha sbagliato; chi ha detto che la Cina avrebbe isolato la Russia, ha sbagliato; chi ha taciuto sul filo rosso tra Mosca e Teheran, ha sbagliato; chi ha sorvolato sulla gang di Hamas ricevuta a Mosca, ha sbagliato; chi non ha visto i droni degli Ayatollah volare sulle teste degli ucraini, ha sbagliato. I saggi si nutrono con il latte del coraggio e il miele del sapere, giusto è chi ha ricordato Winston Churchill ne “L’ora più buia”: «Non si può ragionare con una tigre quando la tua testa è nella sua bocca». La tigre è Putin.
I valori dell’Occidente, dell’Atlantismo, la difesa della libertà e del metodo democratico, della “rule of law” senza il centro destra e il governo Meloni sarebbero stati a rischio, perché l’Italia del centrosinistra è sprofondata nella palude né né, nel “ma anche”, nell’equidistanza che mette tra parentesi Putin e Hamas, l’Iran e gli Houthi, nell’ignoranza boriosa degli intellettuali in guanti bianchi che hanno hackerato il “popolo della pace” per farne l’utile idiota dei dittatori, degli autocrati, degli anti -semiti. La prova generale del grande sbandamento geopolitico giallo-rosso l’abbiamo vista durante la pandemia, con il governo guidato da Giuseppe Conte che scriveva faq surreali sulle regole del lockdown mentre spalancava le porte alla calata dei militari russi, chiedeva consigli ai cinesi, quelli che sigillavano con il saldatore le uscite dei grattacieli. Tutto dimenticato.
Poi è arrivato il governo di Mario Draghi. La guerra di Putin. Lo shock energetico.
L’emergenza. Lo scioglimento delle Camere. Il voto. E la prima donna a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni. La sinistra ha provato fin dall’esordio del governo a trazione Giorgia a far passare l’idea di un centrodestra putiniano. Progetto fallito in partenza, perché Meloni ha mantenuto la rotta occidentale e la Lega guidata da Matteo Salvini, alla prova dei fatti, degli atti parlamentari (l’unica cosa che conta), ha sostenuto sempre l’Ucraina. Forza Italia, che sta celebrando il suo primo congresso dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, è atlantista e europeista, Antonio Tajani ha come punto di riferimento la linea del Partito popolare europeo.
Meloni ha guidato la dialettica interna tra i partiti della maggioranza e le decisioni del Consiglio dei Ministri sull’Ucraina con mano ferma, costruendo la credibilità dell’Italia nei vertici del G7, del G20 e della Nato. Lo stesso non può dirsi del Partito democratico e del Movimento Cinque Stelle, dove abbondano gli ammiratori del presidente brasiliano anti-semita Lula e dei fasti venezuelani di Maduro. Dem e pentastellati utilizzano una retorica che sfocia nell’avventurismo pacifista, senza mai pensare ai missili della Russia puntati sull’Europa, il nostro spazio vitale.
LA RESPONSABILITÀ
La storia della Russia, dagli Zar ai segretari del Pcus, è una sfilata di satrapi. Navalny è morto non perché ha preso il raffreddore durante una passeggiata, ma perché era un dissidente rinchiuso in un carcere nel Circolo Polare Artico. Era in prigione, dunque sotto la diretta responsabilità di Putin che avrebbe dovuto proteggerlo.
Ecco perché l’uomo del Cremlino è responsabile, non ha alcuna importanza che abbia ordinato o meno di uccidere Navalny, la chiave della storia è una questione politica, era dovere di Putin proteggere il dissidente.
Se non lo ha fatto, c’è una ragione: aveva programmato la fine di Navalny, al punto tale che un soggetto così prezioso era un prigioniero incustodito, esposto alla morte. La Russia contemporanea è un regno spietato, lontano perfino da quella di Leonid Brezhnev che nel 1980 decise di mandare in esilio a Gorky il premio Nobel per la pace Andrey Sakharov e la moglie Yelena Bonner. La repressione dell’Urss era durissima, l’Unione Sovietica era un esperimento storico fallito, i discorsi e l’attivismo di Sakharov per il Cremlino erano un problema, ma nessuno poteva immaginare di assassinarlo, sarebbe stata una rovina, il martirio di Sakharov e altri avrebbe accelerato l’implosione del regime, che dopo Brezhnev arrivò con le leadership declinanti del Pcus di Jurij Andropov e Konstantin Cernenko, fino al decollo e al crash di Michail Gorbaciov. Dopo il crollo del Muro di Berlino, le dimissioni di Wojciech Jaruzelski in Polonia, l’illusione della Perestrojka e della Glasnost, la Russia piombò nel caos e Boris Eltsin rimise ordine in un Paese in rovina. Fu il “corvo bianco” a scegliere Vladimir Putin, l’uomo del Kgb, e la rifondazione della Russia partì dalle memorie del sottosuolo (i giacimenti di gas e petrolio) e da guerra e pace (con cacciabombardieri Sukoj, i cannoni e le esecuzioni con la Makarov). Putin è andato oltre, la killing list della storia del suo dominio è lunga e variegata nell’esecuzione. Si va dal colpo di pistola allo strangolamento, dal the radioattivo al balzo dalla finestra. Questa è la trama che nessuno può ignorare.
La guerra non è un evento qualsiasi, plasma l’opinione pubblica, ne modifica l’esperienza in maniera profonda e tutti i leader si preoccupano di non perdere consensi, compresi quelli di chi - a destra e a sinistra - per mille ragioni (sbagliate) non sostiene l’Ucraina e pensa che in fondo Putin sia un magnanimo dittatore. Lo stesso film è partito su Israele e la guerra a Gaza, la strage del 7 ottobre è dimenticata, i criminali sono gli ebrei. Schlein e Conte sono alchimisti nella moltitudine variopinta che invoca una pace senza fondamento, la diplomazia senza parti che hanno la volontà di negoziare, il cessate il fuoco, lo stop alle armi (con esultanza degli assassini). Si illude chi pensa, anche a destra, di provare a catturare il consenso di quella parte di elettorato confusa tra filo-putinisti consapevoli e non, anti-Zelensky, anti-americani a prescindere, post-trumpiani confusi dal Donald in campagna elettorale, filo-palestinesi, anti-israeliani, amici di Hamas e anti-semiti. È una galassia di minoranze inafferrabili, attraversata da tesi cospiratorie che balzano da un evento all’altro con surreale ricorrenza, dove non c’è lezione possibile se non quella dell’esperienza (se fossero in Russia o a Gaza avrebbero compreso di essere dalla parte sbagliata della storia) e dunque il politico che si trova di fronte al problema del consenso cerca la via più breve: assecondarne gli istinti provando a non cascare nel pentolone colmo di paranoia. Missione impossibile che non va bene e non porta bene, quando si cavalcano ondate emotive, alla fine l’onda si ritira e si resta inesorabilmente spiaggiati nel nulla.
POLITICA DEL TUBO
Siamo entrati in un “dopo dopoguerra” in cui le mappe hanno confini deboli e le alleanze sono incerte. I leader europei sapevano benissimo chi era Putin fin dalla guerra in Cecenia (dieci annidi combattimenti e bombardamenti a tappeto, dal 1999 al 2009) eppure hanno continuato a comprare gas e petrolio degli Urali anche dopo l’invasione della Crimea (2014) e progettavano di aprire il rubinetto del nuovo gasdotto Nord Stream 2, fino a quando l’invasione dell’Ucraina non ha messo tutti di fronte alla realtà che nessuno voleva affrontare, perché sarebbe costata parecchio. E così poi è stato, con il risveglio della sonnambula Europa e il decoupling, il disaccoppiamento dalla Russia. La “politica del tubo” non era solo una questione di gas e petrolio, era prima di tutto il miraggio dell’Occidente di contaminare le dittature con il capitalismo e farle implodere.
Due anni. Il 24 febbraio del 2024 non tacciono i cannoni, ma c’è chi non ha paura. La presidenza italiana del G7 parte da Kiev e da Washington. Oggi il premier sarà in Ucraina, il 1° marzo negli Stati Uniti. Sono due tappe di un lungo viaggio, l’ideale da conquistare ogni giorno, si chiama libertà.
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