La mattina del 7 di ottobre il sole era bellissimo sulla sabbia gialla, sull’erba dei kibbutz, le poltrone a dondolo sotto la loggia, le sculture sbilenche, le biciclette da bambini, le auto elettriche per i nonni, le conchiglie infilate su spaghi che dondolano al vento tintinnando di fronte alle case. Il mare non è lontano. Tutti dormono, sono le sei di mattina di Shabbat. Poco lontano, una folla di migliaia di giovani balla nella musica battente del rave, a una festa chiamata “Nova”, ci si stordisce di gioventù e di pace fino a crollare di sonno.
Nei kibbutz del Sud, nelle famiglie d’Israele, si preparava una giornata di festa, senza sapere che la realtà ruggiva sui pick-up bianchi e tagliava le reti e le mura per entrare. Gli abitanti di Be’eri o di Kfar Aza avevano voluto rappresentare al Sud un disegno della patria del popolo ebraico fra i più sognanti, alla maniera del primo XXI secolo, un po’ socialista, molto amorosa, ecologica, pacifica, anche tecnologica, persino disegnando con gli abitanti di Gaza, vicini di casa al di là dello spazio giallo, un dialogo quotidiano, con regali ai bambini, biscotti, cure mediche condivise.
Alle 6:30 dorme la miriade di bambini, circa tre per famiglia, principi e principesse padroni di tutto, verso un nuovo risveglio regale di baci e biscotti; i nonni hanno lasciato la tavola del venerdì sera mezza apparecchiata, con le tracce delle grandi famiglie che hanno mangiato i cibi del passato polacco o marocchino; dormiranno ancora un po’ anche i ragazzi post-esercito coi capelli lunghi, la chitarra appoggiata nell’angolo, il telefonino che già ronza di molti TikTok che cercano invano di avvertire: “Svegliatevi, succede qualcosa”. Ma è già troppo tardi. Nelle case i molti libri, i molti fiori, i molti ideali di pace saranno
bruciati con le granate termobar speciali, grossi fusi neri, quelli inesplosi li abbiamo visti lasciati a decine dopo la strage che sviluppano 2000 gradi e carbonizzano qualsiasi cosa, rendendo irriconoscibili le vittime e privi di identità case, oggetti e persone. Così è stato. Ho visto le vittime carbonizzate in fotografia, sembrano quelle di Pompei.
Mentre cominciano a piovere i missili ovunque, molto oltre la solita routine delle città del Sud, sempre come bombardate da Hamas, mi telefona la mia amica Ruthie, stupita: “Sai per caso come mai ci sparano tanto e dappertutto?”. Non lo so, nessuno lo sa, nessuno se l’aspettava, Israele – come nel 1973, quando la Guerra del Kippur fece 11.656 vittime – ha creduto che la sua superiorità morale, tecnologica, la sua mitica forza di sopravvivenza contro tutto e tutti cancelli ogni avvertimento, ogni pronostico: e invece tutto sarà in breve cenere e sangue.
Negli anni Venti e Trenta, in Europa, Gershom Scholem, Franz Rosenzweig, Walter Benjamin e tanti altri dormivano sulla raffinatezza dei pensieri tedeschi più sofisticati, col sentore che qualcosa si stesse preparando. Si permettevano, su questo, contrasti e tristezza. Ma non sapevano, proprio a causa della loro sofisticata superiorità, della loro speranza nella vita unita a prosopopea, che lavorava nell’ombra un mostro che pianificava come uccidere tutti gli Ebrei, a uno a uno, e seppellirli sotto le rovine d’Europa.
Così Be’eri riposa fino alle 6:30 fra i sogni israeliani più ambiziosi; è uno dei kibbutz di confine noti per il suo pacifismo, vuole curare il mondo, cerca laicamente il “tikkun olam”, la riparazione del mondo con cui l’uomo aiuta Dio a perfezionare la creazione. Ma poi la verità si è tinta di un solo colore, quello del sangue degli Ebrei, e il pogrom è arrivato sui pick-up. Batia Olik, che aveva fatto con cinque fotografi di Gaza in incognito una mostra di grande successo, ne ha visti eclissarsi quattro mentre si preparava l’eccidio, e il quinto, durante la strage, ha cominciato a chiamarla sul telefonino per chiederle, da dentro il confine dove evidentemente si era introdotto con i mostri, dove fosse, se intorno a lei c’erano soldati, se era con tutta la famiglia. “Solo allora, mentre ci cercavano per ammazzarci nel nostro nascondiglio, ho capito che era un terrorista”.
Per credere che quello che è accaduto è realtà, ho dovuto guardare diverse volte il footage raccolto dagli uomini stessi di Hamas con le loro telecamere, ho dovuto ascoltare e riascoltare cento storie di orrore, visitare le rovine, incontrare i sopravvissuti… e ancora è difficile credere ai propri occhi e alle proprie orecchie. All’ombra delle gallerie sotto le case di Gaza, o su e giù per la “no man land” fra Gaza e Israele, gli uomini di Hamas avevano ricevuto per mesi un allenamento preciso e istruzioni dettagliate. La loro preparazione, come quella siriana e egiziana per la Guerra a sorpresa del ‘73, non era ignota: si erano tenute riunioni, erano stati distribuiti foglietti con istruzioni e piante.
Gli ordini erano: “Mentre da qui partono i missili e tutti si rifugiano in casa, irrompete, uccidete, violentate, fatte a pezzi, bruciate, tagliate le teste e gli arti”. Di chi? Di tutti. Compresi neonati, mamme, bambini, vecchi, ragazze e ragazzi. E una parte, sempre con la più svariata campionatura di Ebrei perché il gioco del ricatto sia perfetto, portatela in ceppi dentro Gaza.
Sinwar ha esercitato bene la sua fantasia strategica, ordinando di uccidere e fare a pezzi i figli in braccio alle madri e le madri di fronte ai figli, inventando ogni possibile modo per dettagliare la cannibalica decisione di terrorizzare più dell’ISIS, di sterminare nel modo più crudele possibile; la tecnica per cui ha comandato di mettere i neonati vivi nel forno acceso, di violentare le donne di qualsiasi età, anche le bambine, sia da vive che da morte, e in modo tale da spezzare il bacino e le gambe, di evirare gli uomini e i bambini, di decapitare, di bruciare vive intere famiglie insieme al rogo dei loro oggetti, di tutti i simboli della loro vita, doveva per sempre rappresentare la legittima ira del suo movimento e renderlo il leader assoluto dell’odio contemporaneo. Sinwar ha messo Hamas alla testa di un movimento mondiale di destrutturazione della storia che legittima la rabbia come bandiera di vita, l’unica che ritiene possibile contro la civiltà. È un movimento che ha deciso che il frutto della storia e della religione del nostro tempo, compresa la civiltà ebraico-cristiana ma anche la cultura dei diritti umani, è un vantaggio solo per chi l’ha inventata e uno strumento di oppressione da fare a pezzi per chiunque altro: così la scelta demoniaca di radere al suolo la civiltà può usare qualsiasi mezzo per distruggere i “colonialisti”, gli “imperialisti”, i “razzisti”, i ricchi, i bianchi, e soprattutto, certo, gli Ebrei.
Questo concetto, e così è di fatto accaduto, trova consenso molto lontano da Gaza, prima di tutto nel mondo musulmano che fra gli oppressori mette gli “islamofobi”, e fra gli studenti i movimenti LGTBQ, i movimenti ecologisti che pensano che la terra sia stata rovinata dagli interessi capitalisti e anche dagli Ebrei. Le atrocità di Sinwar non sono ancora state condannate dall’ONU, così come non lo sono state dall’Autonomia Palestinese, e neanche dalle Università dell’IVY League americane. È “il contesto” che conta, e nessuno si aspettava che fosse così marcato da approvare dopo una strage come quella del 7 di ottobre la distruzione della civiltà contemporanea in nome dell’atrocità antisemita.
Il piano, a differenza di quello dei nazisti a suo tempo, era di distruggere gli Ebrei pubblicizzando il più possibile la determinazione a farli soffrire a uno a uno. Quindi, una minaccia di sterminio generale, un ordine di sgomberare, sparire, diventare fumo, una promessa che infatti poi è stata ripetuta a parole: “L’abbiamo fatto e lo rifaremo ancora e ancora”. (…) Ciò che è accaduto il 7 di ottobre sfida la questione stessa di che cosa sia un essere umano, e forse proprio per questo un evento di chiarezza accecante viene poi addirittura rovesciato fino a colpevolizzare le vittime; si disegna il destino masochistico cui si consegna volontariamente la nostra civiltà rinunciando a condannare, a capire, a combattere con Israele.
Quando ero piccola, mia nonna mi giurava che ciò che aveva passato la mia famiglia con le leggi razziali e la Shoah non sarebbe mai più accaduto. Mi prometteva una vita dolce, il suo cibo accurato e gentile sulla tavola, la luce azzurrina di Firenze la mattina presto, la cupola verde della sinagoga fatta per giocare su e giù per le scale. Ebrei liberi, eguali. Mio padre mi rafforzava con la sua sfacciata, dura scapigliatura di soldato d’Israele: così era venuto a combattere a Firenze con la Brigata Ebraica in tempo di guerra. Mia madre era la garanzia vivente della vita nuova, la bella partigiana e giornalista. “Never again” era nelle cose, era la mia vita quotidiana. Era dentro di me. Già sapevo che gli Ebrei avevano una Terra, e che viverne lontani era solo questione di tempo. Adesso, un soldato appena uscito da dentro Gaza mi ha detto: “Certo è difficile, rischiamo la vita, ma mio nonno è sopravvissuto ad Auschwitz, mio padre ha combattuto nella guerra del Kippur, adesso tocca a me. Never again sono io”. Ma con la nonna ballavamo la hora nel corridoio davanti all’arazzo della Regina Esther che salva gli Ebrei con la sua bellezza, la festa della vittoria sul nazismo era quella della nascita dello Stato d’Israele. Per noi, era chiaro che un patto con Dio, ovvero con la nostra passione per la vita, ci aveva salvato dalla Shoah, e che adesso, oltre l’Europa che ci aveva tradito, la nostra base nazionale era costituita dalla nostra invincibile identità, il Popolo del Libro e della Terra di Israele.
La mia casa di via Marconi 16 era il nostro nido in un curioso sentimento di temporaneità, i coinquilini borghesi e certo antisemiti forse si chiedevano come mai i nonni fossero tornati a viverci, gli occhi delle compagne di scuola chiedevano come mai ero là, e io ero fiera di guardarle in faccia, sfidandole; temporanea era stata la sofferenza, anche se parte della mia famiglia era stata massacrata nei campi di sterminio. Eppure ero felice, già da bambina sentivo che la nostra vita era un segnale in sé di trascendenza della civiltà, che per gli Ebrei vivere è una missione. Gli Ebrei vivono, hanno vissuto sempre, ovunque sia possibile, e sempre hanno portato con sé la civiltà, la resistenza contro il buio dell’aggressione e della prepotenza antidemocratica, da quando il concetto di democrazia è esistito. Israele è la somma di questo destino. Il contrario filosofico e politico del woke, la difesa della vita di tutti coloro che credono nella civiltà e nel rispetto umano. Nei diritti umani.
Questo ho fatto. Vivere in Italia con orgoglio e tornare poi a casa a Gerusalemme, ma mentre cercavo di descrivere nei miei libri come l’antisemitismo si stesse trasformando in “israelofobia”, confidavo nell’idea che la memoria l’avrebbe contenuto. Non è così. L’Europa che ha annaspato verso la sistemazione della Shoah negli anfratti del “Never again”, compiacendosi di un pentimento mai completato, non ce l’ha fatta di fronte alla verità di Israele, un Paese negato dagli stati arabi, e con un successo miracoloso. Due caratteristiche imperdonabili. Oggi, ci siamo di nuovo. Il castello che doveva sconfiggere l’antisemitismo avrebbe avuto a disposizione istituzioni formidabili come l’ONU e l’Unione europea: tutte si sono pregiate di disegnare la loro imbattibile fedeltà alla memoria ebraica e al suo rappresentante collettivo, Israele, fino a sfasciarsi gorgogliando sulla ripresa della strada ben conosciuta dell’antisemitismo.
Gli intellettuali, i campus universitari, l’ONU, anche l’Unione Europea, il 7 ottobre, hanno avuto di fronte un’occasione speciale di verifica: gli Ebrei erano stati uccisi senza pietà, l’antisemitismo urlava dai video e dalle testimonianze dei sopravvissuti. Ma subito è stato proposto da parte di Antonio Guterres segretario delle Nazioni Unite come spiegazione di tutto questo, il ghiotto proscenio dei diritti umani, l’occupazione, i palestinesi che soffrono da 75 anni, due stati per due popoli, “Ci sono delle ragioni per questo. Non avviene nel vuoto”, ha detto Guterres, il segretario dell’ONU, e più avanti il presidente francese ha graziosamente aggiunto, come se Israele non lo sapesse benissimo e non facesse di tutto per evitarlo, che non si uccidono donne e bambini. In realtà Israele è stato l’unico Paese che nel corso di una guerra giusta come questa si è preoccupato di avvertirli e di creare corridoi di salvezza, ma Hamas ne ha bloccato i movimenti per seguitare a usarli come scudi umani. Donne e bambini dovevano rimanere sul terreno a salvaguardare gli uomini di Hamas e gli enormi quantitativi di armi nascoste in case, moschee, ospedali, scuole, armi che l’esercito israeliano ha trovato lì e ovunque. Gaza è questo: una casamatta trivellata di gallerie la cui ratio urbanistica è la copertura di Hamas, incurante di qualsiasi vita umana e, al contrario, desiderosa di sacrificarne per suscitare il consenso delle folle.
Con la strage, è arrivata l’ondata di antisemitismo. Un autentico via libera al genocidio. Noi Ebrei siamo rimasti di nuovo impietriti. Sinceramente, io avevo da poco scritto Jewish lives matter, in cui si disegnava proprio il passaggio dai diritti umani all’antisemitismo, eppure non mi aspettavo le folle eccitate alla ricerca di Ebrei in tutto il mondo. La stessa prosopopea intellettuale che ci ha impedito di prevedere quello che si andava preparando a Gaza ci ha accecato di fronte allo tsunami di odio contro gli Ebrei che si è rovesciato sia su Israele che sulle comunità ebraiche in tutto il mondo e con cui abbiamo a che fare adesso. (…)
Il segno giallo dell’ignominia non l’ha inventata Hitler: fu papa Innocenzo III a imporre una fascia che poi divenne una stella, a sua volta copiata da Abu Yusef Al Mansur, un principe marocchino del XIII secolo. Già mentre i Crociati facevano a pezzi gli Ebrei in Terra Santa, l’Arcivescovo di Canterbury emanava un decreto che impediva agli Ebrei l’accesso al cibo. L’Inquisizione ha bruciato gli Ebrei con i loro figli dentro le case e sulle piazze, tutte le nazioni europee hanno gareggiato in persecuzioni dove le tecniche che ho visto usare da Hamas erano già disegnate. Bruciare vivi gli Ebrei è una replica.
Ai tempi nostri, insieme con la Shoah sistematica, curata, molto ben riuscita, impresa collettiva del popolo più colto d’Europa, si è verificata la disordinata ma massiccia persecuzione sovietica degli Ebrei, e Vasilij Grossman ne fu testimone meraviglioso e disperato, proprio perché non poteva e non voleva crederci. La decimazione, le torture, le prigioni, le fucilazioni, le deportazioni, la censura delle sue parole lo spinsero a capire per forza.
La Shoah è stata la conseguenza della passione ideologica e quasi fisica di Hitler, della sua dedizione estatica all’uccisione degli Ebrei, tale che persino quando ormai tutto era perduto seguitava a usare i treni dalla Grecia, invece che per spostare l’esercito, per portare gli Ebrei a morire nelle camere a gas. La sua scelta era anche segretamente condivisa da una folla in cui, come un bubbone inesploso, la febbre aspettava solo la situazione ottimale per mostrarsi. La Germania era un Paese quasi per intero nazificato, e così è Gaza: le sue organizzazioni militari ed elettive, le scuole, gli ospedali, le strutture di controllo, l’uso della società civile, la repressione di ogni libertà e l’uso della violenza sono alcune delle similitudini di quei mondi in cui il diktat primario è uccidere gli Ebrei. I giornalisti di Gaza sono in parte agenti di Hamas, vengono arruolati a volte dalla Reuter e dalla CNN. Li si è visti nel ruolo di “groupie” dei nazisti sulle motociclette mentre venivano aggrediti i kibbutz.
Tuttavia, Hamas batte i nazisti di Hitler e le SS, la cui propaganda della decisione dello sterminio era meno esplicita; vi si accennava solo in Germania e in Italia, senza esposizione di trofei, senza un tentativo palese di mostrare nel mondo la propria esaltazione. Qui invece una delle novità è l’esplicitazione assoluta e senza veli dell’odio più razzista che c’è, dell’antisemitismo radicale. Non solo si deve mostrare, ma si deve esserne fieri. I nazisti, mentre insegnavano al popolo le ragioni per odiare gli Ebrei, non ostentavano la violenza inaudita che si stava compiendo, non si pavesavano con fotografie di camere a gas, di madri con i bambini in braccio sull’orlo della fossa comune da loro stesse scavata in cui cadranno, abbattuti le une e gli altri dalle armi naziste. I nazisti la sera si ubriacavano, racconta Douglas Murray, perché i comandanti li consolavano con l’alcool per ciò che avevano fatto. Qui invece i giovani terroristi ridevano contenti gli uni con gli altri, in piena forma, a bordo delle moto, marciando coi pick-up, sventrando le donne con la violenza carnale e poi sparando loro in testa.
Anche il comunismo scelse la strada di un antisemitismo in parte travestito. Le deportazioni e le fucilazioni degli Ebrei sotto Stalin non hanno preso una svolta genocida solo perché il dittatore è morto mentre con “la congiura dei medici Ebrei” stava ancora mettendo a punto un progetto per la loro distruzione, ma li vedeva come un pericolo essenziale al suo potere. Tuttavia, i comunisti non hanno mai teorizzato che fosse indispensabile per il mondo deportare o uccidere tutti gli Ebrei. Erano traditori, spie, cosmopoliti, capitalisti e per questo, non in quanto Ebrei, dovevano essere destinati allo sterminio.
Invece per Hamas il fine dello sterminio degli Ebrei è lo sterminio degli Ebrei. Allah ne sarà contento e si avvicinerà il giorno in cui l’Islam dominerà il mondo. Il giubilo del 7 di ottobre è stato formidabile, la gioia dell’esecuzione quanto più efferata possibile, e primitiva quanto l’ordine dello stupro di massa come arma, un’esperienza che ai nostri giorni non era mai stato dato di vedere. L’ordine è stato terrorizzare: un ordine che era anche quello dell’ISIS e di Al Qaeda. Un ordine islamista, che appartiene a un’interpretazione estatica di una religione di cui esistono svariate versioni, e occorre dire con decisione che non tutte sono così. Ma nessuno può spiegare come si possa decidere di tagliare le braccia di una bambina di otto anni e di lasciarla tremare per ore immersa nel suo sangue finché muoia se non spinti da un folle ambizione trascendentale. Nessuno può spiegare come si possa uccidere la madre e il padre di fronte a una bambina di tre anni e poi caricarla su un’auto per rapirla, da sola. Eppure tutto questo è successo. Né si può spiegare come si possa fare una strage di un gruppo di ragazzine sedute tutte insieme in un nascondiglio mentre si tengono le mani l’una con l’altra per farsi coraggio. Eppure anche questo è accaduto. Noi siamo qui a cercare di farne per sempre testimonianza, perché il negazionismo, come quello della Shoah, è la forma più classica di riabilitazione dei mostri e lo sfondo, anche odierno, al più agguerrito antisemitismo.
Eppure l’onda dell’antisemitismo è arrivata inaspettata, sugli Ebrei morti e sui vivi. Non è più vero nemmeno che a molti piacciono gli Ebrei morti e non quelli vivi. Non piacciono, e basta. 1400 morti in modo atroce non sono bastati. Il negazionismo è caduto a pioggia subito sulla strage più comprovata del mondo e Guterres a nome dell’ONU ha detto e insiste che lo sfondo era costituito dalle colpe degli Ebrei, un elenco su cui il mondo si è infinitamente esercitato, e che si è molto arricchito da quando gli Ebrei hanno una nazione, un Paese e un esercito. Perché esiste una necessità che a tutti viene riconosciuta ma non agli Ebrei: sopravvivere.
La storia degli Ebrei e di Israele resta sconosciuta alla grande maggioranza, non riesce a emergere, è un insieme di date e notizie da obliterare e sostituire con miti di crudeltà. Su questo c’è stato un lavoro scientifico e ben costruito dall’URSS fino a Arafat, dagli Ayatollah ai campus americani. Come diceva Lenin? “Le parole devono essere calcolate non per convincere ma per distruggere, non per correggere gli errori dell’avversario, ma per annichilirlo”. E devono essere tali da “provocare odio, disgusto, disprezzo”.
Parole urlate nelle piazze come quella di Bari, il 14 ottobre (settimo giorno dalla strage) quando la studentessa Marina Caldarulo ha detto: “Siamo in piazza perché siamo con il popolo palestinese, vogliamo portare loro tutto il supporto possibile. Se consideriamo Israele uno stato terrorista? Quello che accade in quelle terre va avanti da 75 anni, tutti possono vedere cosa succede e farsi un’opinione”, spiegano benissimo l’antisemitismo dei nostri tempi: ignoranza e pura menzogna. Israele, lo stato degli Ebrei, ha, sì, la colpa di esistere da 75 anni, ma non ha niente a che fare con la storia che l’Unione Sovietica ha tessuto insieme ad Arafat nella coscienza antiamericana e occidentale, definendolo un Paese colonialista, imperialista, capitalista, e oggi, nel postcomunismo, di apartheid. Anche dopo lo sgombero totale di Israele, nel 2005, non è mai mancato il ritornello su Gaza “prigione a cielo aperto”: ma l’occupazione non esiste ormai da 16 anni e, persino a suo tempo, nel ‘67, fu forzatamente applicata a Israele dopo un’occupazione egiziana che durava dal ‘48 e su cui nessuno aveva avuto nulla da ridire. Gaza cadde nelle mani di Israele dopo una guerra di difesa, e certo non per la decisione di prendersi quel maledetto pezzo di terra che Il Cairo a sua volta non ha mai voluto.
Anche gli antisemiti dei campus, se pure sanno qualcosa, sanno solo cose sbagliate. Falsa l’idea che sia da 75 anni, ovvero dalla sua fondazione, che Israele occupa lo “Stato Palestinese”, in realtà mai esistito. Falsa l’idea che gli Ebrei non abbiano niente a che fare, originariamente, con Israele: chiunque abbia letto un po’ di storia sa innanzitutto che Israele è la terra del popolo ebraico, che Gerusalemme è la sua vita, per tradizione storica, poiché questo è il Paese di origine dove gli Ebrei hanno la loro radice, una comprovata geografia Biblica, le loro fondamentali rovine archeologiche che i palestinesi seguitano a picconare, e un grande amore vivo come non mai, Gerusalemme, su cui poggia l’intera morale del mondo monoteista e civilizzato, specie di quello giudaico-cristiano, sempre che non si sia disposti a dimenticare che Gesù fosse un bravo ebreo.
Nel caso invece si sia pronti a spendere cinque minuti per studiare, è facile capire che Israele fa parte del processo di decolonizzazione del Medio Oriente, che in quell’area era occupato dalla Turchia con l’Impero Ottomano, e poi dall’Inghilterra, con un mandato temporaneo, il Mandate for Palestine, che aveva lo specifico compito, certificato da promesse e conferenze internazionali, di porre fine al colonialismo, affidando la sua area e anche di più di quella, oltre il fiume Giordano, a Israele. Gli Ebrei peraltro avevano sempre mantenuto una presenza che nell’Ottocento già dava loro la maggioranza a Gerusalemme e in altre città della Palestina. Lo stesso nome Palestina è una invenzione dei romani che non ha niente a che fare con la parola “palestinesi” nel senso musulmano del termine, ma fu escogitata dopo la cacciata degli Ebrei a opera di Tito, nel 70 d.C., una volta conquistato il Tempio e la capitale stessa, utilizzando la definizione greca del territorio fra l’Egitto e la Siria. Dal 1948, quando il riconoscimento dell’ONU ha sancito il ritorno del popolo ebraico a casa e disegnato una partizione con gli arabi, si assiste a una continua offerta di condivisione da parte israeliana e a una infinita insistenza nel ripetere l’opzione pacifica del sionismo: essa comincia con l’accettazione della partizione fissata dall’ONU, rifiutata dagli arabi, e si è ripetuta da Oslo in poi con l’offerta ai palestinesi di accettare l’esistenza del popolo ebraico come legittimo abitante dello Stato d’Israele in cambio di metà della terra. Offerta ribadita altre tre volte, e sempre rifiutata mentre già di fatto Israele sgomberava da tutti i centri abitati dai Palestinesi, da Betlemme a Hevron a Jenin… ovunque.
L’occupazione della West Bank nel 1967, di terre giordane e comunque tutte disegnate nella storia biblica, è stata dovuta alla guerra su più fronti, l’ennesima sferrata da Egitto, Giordania, Siria per cancellare lo Stato degli Ebrei. La vera storia è quella del rifiuto reiterato di offerte clamorose, che includono anche metà di Gerusalemme e di cui l’esempio più noto è quello opposto a Ehud Barak da Yasser Arafat a Camp David. Nelle piazze, nei campus, per le strade delle capitali europee e delle grandi città americane, la folla che scandisce From the river to the sea Palestine will be free grida uno slogan genocida che glorifica il pogrom del 7 ottobre e ne conferma l’obiettivo. Quella folla sta con Hamas. In Gran Bretagna, dopo la strage di Hamas, solo l’11 per cento dei giovani pensa che Israele abbia ragione e in America il 50 per cento dei giovani fra i 18 e i 25 anni pensa che la Shoah sia un mito. Più del 70 per cento dai ragazzi fino a 24 anni vuole dare tutto a Hamas cancellando Israele. Non sanno quanto questo possa costare in termini di violenza, di legittimazione dell’odio antioccidentale rivolto a loro stessi, del disprezzo della libertà a fronte di ideologie che, quando gridano in piazza l’odio per Israele, distruggono la propria appartenenza al mondo della democrazia e dei diritti umani. Hamas e l’Islam radicale perseguitano le donne, gli omosessuali, la democrazia, insegnano ai bambini a odiare e a uccidere, disprezzano e cancellano, ormai senza pudore, la nostra cultura, la musica, l’arte (non dimenticherò mai come Roma abbia coperto le sue statue in onore, o forse per soggezione, di una visita iraniana), la bellezza.
La recente grande ondata di immigrazione ha portato con sé anche un grande disprezzo del nostro mondo, ed esso suggerisce che la destrutturazione postmoderna dei nostri valori, del nostro modo di vivere, può mettere la società in ginocchio, cambiarla, convertirla. Chi ha immaginato che un bianco sia senza scampo di per sé razzista, e un maschio uno stupratore, può associare a questo l’idea che un ebreo sia un colonialista seviziatore di palestinesi. E questa idea metterà insieme tutte le parti, oppressi contro oppressori. L’antisemitismo ha già distrutto il mondo, può distruggerlo di nuovo.
Un soffice manto socialdemocratico europeo, e l’Unione Europea, sulle tracce dell’ONU, hanno costruito un credo devoto alla falsa versione della società dei diritti che di fatto li violenta e li cancella minacciandoli uno per uno, rendendo accettabili tutte le istanze illiberali del Terzo mondo già sponsorizzato dall’URSS, un potentissimo blocco, una minaccia strategica ed economica per tutto il mondo che nel tempo diviene teoria del “popolo oppresso” di cui si è servito Arafat. Basta pensare alla legittimazione della subalternità femminile e della violenza contro le donne nel mondo islamico, trasferita nelle grandi città europee, intimidite. A Colonia, nel 2016, nessuno osò denunciare la violenza di massa subita dalle ragazze che la notte di capodanno, durante i festeggiamenti in piazza, furono aggredite sessualmente da gruppi di giovani immigrati. Si temeva l’accusa di “islamofobia” più delle violenze sessuali. Non ho mai sentito una condanna dei matrimoni di massa delle bambine di Gaza con degli uomini di età matura, vera pedofilia sotto il sole.
Oggi è interessante notare che gli assassini di Hamas godono in modo particolare del sostegno dei luoghi della cultura, che sono anche quelli in cui più si è delineata e definita la religione dei nostri tempi, quella dei diritti umani. E, tuttavia, questa religione rischia adesso di frantumarsi sulla demenza del doppio standard che non sa vedere la conclamata violazione di quei diritti umani da parte della Russia, della Cina e dell’Iran, diventato, per la vergogna del mondo intero, presidente della Commissione per i diritti umani dell’ONU. Un appello come quello firmato in Italia da 4000 docenti universitari, che dopo la strage del 7 ottobre chiedono di interrompere qualsiasi collaborazione con gli atenei israeliani, brillerà per sempre nella storia dell’ignoranza e dell’ignominia. Il rifiuto delle organizzazioni femministe di riconoscere il dolore senza rimedio degli stupri multipli accompagnate da sfregi, fratture, ferite, omicidi, usati in serie come armi di terrorismo collettivo e dominio, resterà sulla coscienza delle Nazioni Unite per sempre, anche se una debole condanna è stata nel tempo registrata.
La reazione della piazza woke e delle istituzioni culturali come l’accademia e le sue varie associazioni ha dimostrato come sia profondo e radicato, e quindi pericoloso per i giovani e per la civiltà stessa in cui viviamo, l’abbraccio acritico e ignorante col terzomondismo. Lo sfondo culturale del nuovo antisemitismo, condiviso anche da Ebrei, è disegnato su una nuova sofisticata bugia, quella che ha trasformato il popolo ebraico in una massa di “oppressori”, decisi a “dominare”, “occupare”, “sfruttare”: in un popolo “genocida”. Sulla base di questo nulla osta (subdolamente avallato dall’Unione Europea, che ha costruito negli anni su ogni voto antisraeliano una sua inesistente unità di fondo, sbagliando con intenzione l’interpretazione delle risoluzioni del 1967 che prevedono la soluzione su accordi che i palestinesi hanno sempre rifiutato) Hamas ha sterminato il maggior numero di Ebrei in un solo giorno dal tempo della Shoah e ne ha rapiti 240, fra cui neonati e vecchietti.
In una Palestina immaginaria, che non essendo mai esistita può essere immaginata a piacimento – ovvero come quella entità “from the river to the sea” – finalmente, secondo il più perfetto sogno antisemita, vengono cancellati tutti gli Ebrei. 1400 morti corrispondono, rispetto ai numeri di un piccolo Paese come Israele, a 50.000 cittadini negli Stati Uniti, e gli ostaggi, sempre comparati a quei numeri, a circa 5000 persone. Nessuno potrebbe mai pensare che gli Stati Uniti o persino qualche pusillanime stato europeo accetterebbe di essere “umanitario” come Israele, che invece di uccidere bombardando in una giornata tutti gli assassini, ha intrapreso un’operazione che consenta ai civili (quelli che non sono trattenuti per il collo e sotto la minaccia delle armi da Hamas come scudi umani) di sgomberare la zona belligerante. Nessuno, sapendo che sotto una struttura ospedaliera può nascondersi la testa del ragno Yahiya Sinwar, entrerebbe in punta di piedi invece di bombardare la struttura. Israele invece ha cercato di portare medicine, incubatrici, cibo dopo aver favorito i malati, i medici e, in tutti i modi, lo sgombero.
Le odierne accuse antisemite a Israele sono né più né meno che le antiche accuse di deicidio, il blood libel, l’accusa del sangue che ha consentito il lasciapassare ideologico dell’antisemitismo al tempo della Shoah. Non ha nessuna importanza che le persone gay vengano soppresse da Hamas e che a Gaza le bambine vengano date in moglie a infami adulti pedofili, o che l’oppressione delle donne sia fatta di botte, di poligamia, di segregazione. Negli anni, ho visto vignette in cui Sharon mangia bambini palestinesi col petto coperto del loro sangue, e ho sentito un ambasciatore francese chiamare Israele “that sheetty little country”, quel piccolo squallido Paese, quando i terroristi suicidi facevano saltare per aria gli autobus carichi di bambini che andavano a scuola e di vecchi in pantofole. L’ho già guardata tante volte la conseguenza del chiamare, rovesciando la storia vera, gli Ebrei colonizzatori e i palestinesi colonizzati, gli Ebrei aggressori e i palestinesi aggrediti, gli Ebrei guerrafondai e i palestinesi pacifisti… ho visto la negazione di ogni semplice verità storica e non mi è mancato neppure lo spettacolo delle folle occidentali che a ogni crescere della crudeltà verso i pacifici cittadini di Israele e a ogni modesto tentativo di reazione degli Ebrei di nuovo aggrediti dal terrorismo e dai missili, facevano registrare ai giornali la condanna di Israele, perché la Moschea di Al Aqsa era in pericolo! Questa è la chiamata preferita di Hamas, il suo grido di guerra. Eppure, quando Hamas ha bombardato Gerusalemme durante questa ultima guerra, mi è parso che di Al Aqsa gli importasse assai meno di quanto gli valga cercare di colpire le case degli Ebrei.
Onestamente, non avevo mai capito l’hybris, l’ubriacatura felice, il contenuto di negazione di ogni grano di conoscenza e di coscienza che è contenuto nel nocciolo dell’antisemitismo. Vi si trova una negazione generale dell’obiettivo condiviso che ha condotto l’uomo dov’è, o dove crede di essere: a convivere civilmente, a costruire case e scuole, a mettere in piedi relazioni, a badare ai bambini con amore, a leggere e a scrivere. Questo sembrava essere concluso quando mia nonna mi prendeva per le mani nel corridoio della casa di via Marconi e ballava con me la hora, felice e stupefatta che il massacro fosse quasi passato accanto alla sua famiglia.
Adesso, Israele sa di essere molto solo, la sua illusione che la grande famiglia postmoderna occidentale o quella dei Patti d’Abramo, degli arabi sunniti filoccidentali, volessero fare scudo contro l’Iran insieme, non esiste più. L’ostilità e la paura vanno spesso insieme, e dietro Hamas un oscuro schieramento i cui confini arrivano in Turchia, in Siria, in Russia, in Libano, in Yemen, in Cina, ormai suscita una nuova consapevolezza, un allarme che non è destinato a finire neppure con la guerra di Gaza.
Ma per chi è in Israele, c’è una grande consolazione che la illumina: nel giorno della strage, da ogni angolo, ragazzi e ragazze quasi del tutto disarmati sono accorsi ad aiutare in numero e con generosità sconcertanti. Un cittadino di Be’eri, uno dei kibbutz rasi al suolo dalla crudeltà di Hamas, era sulla spiaggia di Tel Aviv a prendere il sole, ma arrivò comunque, affannato, sulle strade vicino alla sua casa due ore e mezzo più tardi, quando oramai era vietato attraversarle: erano infestate da terroristi che stavano compiendo le loro stragi. Quell’uomo si mise alla testa di un drappello di eroi che si unirono a caso e si avventurarono nelle vie ormai incenerite di Be’eri, dove, cercando di liberare le persone asserragliate nella sala da pranzo, hanno trovato la morte. Ho parlato con decine di ragazzi che hanno afferrato quello che hanno trovato, un coltello, un bastone a fronte dei mitra degli invasori e sono usciti fuori delle case assediate per difendere madri e bambini dai terroristi; un padre che da una distanza di centinaia di chilometri si è precipitato al kibbutz dove viveva la figlia e l’ha strappata alla morte come un pazzo, riuscendo a farla fuggire dalla finestra posteriore della casa dove era assediata; una madre che, mentre i terroristi sparavano e torturavano, ha seguito ovunque il figlio che nel kibbutz si avventurava cercando di salvare chi poteva, e dietro di lui c’era lei a raccogliere i feriti; e quando il figlio è stato colpito lui stesso, l’ha trasportato a casa ed è uscita di nuovo a salvare altri ragazzi; una donna anziana che in casa ha tenuto a bada, dandogli da mangiare, una banda di terroristi, salvando con la sua calma tutta la famiglia finché sono arrivati gli aiuti; ho intervistato un uomo che, con una gamba ormai staccata dal corpo, ha resistito per una decina di ore facendo da scudo alla sua famiglia fino a che non ha visto morire il figlio e la moglie crivellati di colpi; quasi del tutto dissanguato, ha resistito, determinato a salvare almeno la figlia. Dal giorno stesso dell’aggressione, a centinaia fra poliziotti e soldati sono entrati a Gaza per combattere, e vi hanno dato la vita. In guerra gli episodi di eroismo si sono moltiplicati: nella stessa famiglia dell’ex capo di stato maggiore e ora membro del Gabinetto di guerra Gadi Eisenkot sono stati uccisi in battaglia il figlio Gal di 25 anni e il nipote Mahor Cohen di 19. Gadi ha ringraziato distrutto dal dolore ma testimoniando l’onore di essere stato il padre e lo zio dei due giovani combattenti, e il giorno dopo era già sul campo di nuovo. Il presidente della Repubblica Isaac Herzog aspetta come tutti segni di vita, rari perché è in genere proibito l’uso del telefono, da parte del figlio che è in guerra dentro Gaza. Tutta Israele ha i figli, i nipoti, il marito, il padre, costretti a una guerra di difesa contro i terroristi che hanno tagliato la testa ai neonati. Il 7 di ottobre 300.000 ragazzi e uomini delle riserve sono tutti corsi a salvare il Paese, e da allora combattono fino all’ultimo respiro e fino alla vittoria che sanno indispensabile perché Israele sia salvo.
Israele è un Paese di eroi. Alla festa “Nova” i ragazzi che ballavano hanno cercato di difendersi a vicenda a prezzo della vita, ragazze disperate hanno cercato di proteggere le loro amiche dalla violenza sessuale accompagnata dalla tortura e dall’assassinio, e ne sono cadute esse stesse vittime. A centinaia si sono sacrificati i soldati che, saltando ancora svestiti fuori dalle caserme assediate, hanno lottato contro la furia inaspettata a mani nude, o i poliziotti che senza sapere cosa avrebbero trovato si lanciavano nella battaglia e spesso venivano sopraffatti da numeri impensabili di terroristi. Hanno dato la vita le ragazze che nei luoghi di osservazione hanno visto e avvertito della marea nera che si avventava su Israele, e hanno seguitato a servire al loro posto mentre si rendevano conto che non si voleva accettare la loro verità e le si lasciava sole.
Adesso, se si va a trovare i soldati che dormono nel fango e mangiano scatolette di tonno dal 7 di ottobre, chiamati come riserve, laici e religiosi, ashkenaziti e sefarditi, si scopre, dopo gli scontri politici passati, lo specchio di un’unità e di una dedizione assoluta che in Europa e in USA è sormontata dall’interesse e dalla comodità personale. Israele è l’esperimento non riconosciuto di quello che uno stato democratico (e persino di immigrazione!) può essere quando si è di fronte a una sfida, a un pericolo effettivo; quello che i giovani possono diventare quando si hanno una fede e uno scopo comune, quando si conoscono i doveri oltre ai diritti, e occorre persino accettare l’idea terribile che anche coloro che sono stati cresciuti come principi possono morire in battaglia, e che va messa questa possibilità nel conto, a venti così come a trent’anni.
E, intanto, non è solo l’antisemitismo ma anche l’ignoranza ad aver posto Israele in vetta alla piramide del male mentre combatte per il bene di tutti. La costruzione postmoderna delle idee radicali sul colonialismo, la cornice woke per capire il mondo, la trasformazione dei terroristi e dei violenti in combattenti per la libertà, l’abbraccio accademico all’orientalismo di Edward Said, la cui folle ridefinizione del rapporto fra Occidente e mondo islamico è di fatto un invito alla sottomissione dell’Occidente all’Islam, ancora una volta hanno scelto come nemico supremo gli Ebrei. E non ci si può illudere: si tratta di una minaccia non solo per il sionismo ma contro l’intero progetto occidentale dello Stato di diritto e di società democratica.
Ma Israele non lascerà che si ripresenti traccia dell’appeasement, fra cui tipico quello del premier inglese Neville Chamberlain, il quale lasciò che la passione antisemita di Hitler diventasse Seconda Guerra Mondiale. Da quando esiste Israele, è naturale e seguiterà a esserlo ricordarsi che è bello essere ebreo, si è fortunati per questo, si deve combattere per affermarlo, mai piegarsi all’odio e alla paura. Dopo il 7 di ottobre Israele lo sa ancora, lo senti in tutti gli orgogliosi splendenti discorsi di ricordo dei soldati caduti a Gaza, nelle incredibili parole di gloria che senza piangere i genitori sanno ancora dire: parole semplici, in cui si parla di bambini che ridono sempre, di sportivi meravigliosi, di amore immortale, della pace che la società israeliana desidera sopra ogni cosa. Come dice Tocqueville, nessuna democrazia vuole la guerra, ma quando la deve combattere è una scelta condivisa, sa come fare, e ce la mette tutta.
Io, nel guardare senza distogliere lo sguardo quello che era accaduto proprio quel giorno, proprio in quelle 24 ore che iniziarono alle 6:20 di mattina, quando la mia amica Ruthie Blum mi telefonò per dirmi “Ci bombardano all’impazzata”, voglio mettere questa pietra della memoria sulla mia terra d’origine, l’Italia, proprio per concludere con le parole che sento ripetere tanto spesso dagli israeliani, che cercano, uniti, di sconfiggere il mostro che mette in pericolo il mondo: Am Israel Hai. Siate contenti per questo, voi che amate la democrazia, è il vostro scudo di difesa, di cui il mondo intero ha bisogno più di quanto Israele abbia bisogno di un Occidente traditore.
E tuttavia voglio finire con una nota personale: il capitolo dell’attacco agli Ebrei è in pieno svolgimento, e noi ne siamo l’oggetto fisico immediato, oltre agli Ebrei della diaspora. Non leggete questo volume come una collezione di scritti che riguarda il passato. Tutta la macchina di preparazione all’odio e alla guerra che per anni ha costruito a Gaza nei particolari l’attacco del 7 di ottobre è in moto in maniera quasi identica nell’Autonomia Palestinese. Sin dai primi momenti in cui un bambino ambisce a conoscere e ad agire, quello che gli viene insufflato, insegnato, imposto senza un attimo di sosta è l’odio per gli Ebrei e per l’Occidente, l’aspirazione suprema di un ragazzo è divenire uno shahid. Non gli importa di trovare benessere, pace, conoscenza, e tantomeno di costruire uno Stato Palestinese. Men che mai se dovesse essere creato secondo la formula “Due Stati per Due Popoli”. Israele è solo un’entità sionista senza nome né patria, un’accozzaglia di apartheid e di colonialismo. E gli Ebrei sono tutti destinati alla morte, compresi i bambini. Fatah è oggi quasi identica a Hamas, tanto che le percentuali di chi approva e rifarebbe l’impresa dell’orrore sono intorno all’80 per cento certificato: il suo aspetto laico è declinato, ormai “Allah hu Akbar” è il motto di ogni shahid. Anche nelle metropoli occidentali le periferie islamiche indottrinano i loro figli nello stesso segno, il loro obiettivo primo è sempre l’Yehud che il giovane di Hamas a Be’eri si vantava con la madre al telefono di stare sgozzando. Gli esempi di attacchi antisemiti in Europa e in America, attacchi fisici, ormai si contano a migliaia.
Accanto a questo, l’ignoranza nega che la violenza è appannaggio specifico di chi odia l’Occidente, non dell’Occidente stesso: un esempio evidente è proprio nel West Bank, dove le tanto vituperate violenze dei “coloni” ammontano al 10 per cento lo scorso anno, e quelle dei terroristi al 90. Del resto come un vulcano attivo e pronto a scoppiare, ogni giorno qui l’odio ci mostra il suo florilegio di spari, accoltellamenti, agguati con pietre contro le auto. E anche in Europa e in America agisce ovunque.
Quello che è cambiato dal 7 di ottobre è che adesso sappiamo che il terrorismo può trasformarsi in un agguato con un valore strategico mondiale, prima uccidendo masse ignare di cittadini, di poliziotti, di militari, mentre chiama a raccolta potenze mondiali, in primis l’Iran e la Russia, interessate a fiancheggiare, non importa con quale vessillo, chi corrobori le loro conquiste del Medio Oriente e dell’Occidente.
Io, dalla mia finestra, guardo la strada nella notte e temo, per la prima volta nella mia vita, in cui ho visto tanti attacchi terroristici, di vedere spuntare dei pick-up bianchi provenienti da Ramallah, o da Bethlehem. So che adesso le forze dell’ordine sono pronte, ma anche loro lo sanno. Fido immensamente nel valore dei soldati, che vinceranno, ne parlo nelle pagine del libro. Ma penso che la battaglia è lunga, che impegna tutti, che non consente distrazioni o sciocchezze, e tantomeno interpretazioni pacifiste del significato della parola “tregua”, bellissima
quando non vuol dire “tempo in cui chi vuole ucciderti si organizza”. Penso anche che nelle città italiane l’eccitazione dimostrata nelle manifestazioni quando gridano “Hamas uccidi tutti gli Ebrei”, arriverà a bruciare ogni bandiera che non rispecchi le loro ambizioni di dominio, e che se una azione di deterrenza psicologica e pratica non si definirà presto in tutto il mondo, un autentico disastro globale, come quello di 75 anni fa, può cadere su tutte le democrazie.
Dunque, questo libro è un diario perché la memoria sia subito appuntata prima di essere esorcizzata, ma anche un invito a difenderci, a difendervi. Torno chiudendo queste pagine su ciò che appare come il
concetto più difficile da accettare, come si capisce dall’insistenza con cui le istituzioni, i colleghi, gli amici che si incontrano al lavoro e a cena, seguitano a chiedere un “cessate il fuoco” con mozioni, articoli, discorsi. Quando si continua ad augurarsi che presto tacciano le armi, o si augura che la pace torni a regnare in Medio Oriente, non è un buon augurio, né un desiderio che si realizzerà.
L’augurio di pace è solo quello che comprende la pazienza, cioè un lungo e difficile sostegno nella dolorosa ma necessaria guerra contro Hamas. Così fu con Al Qaeda e con l’Isis. Dovrebbe peraltro essere facile capire che, come per raggiungere la pace si dovette combattere, fino a cancellarlo, il potere nazista eliminando Hitler e i suoi ufficiali, così oggi deve accadere per chi ha dimostrato di nuovo che la crudeltà può superare i limiti della più viziosa fantasia.
Auguriamoci dunque una vittoria sul male, una vittoria di ciò che amiamo e in cui crediamo, la democrazia, il buon senso, non un cessate il fuoco prima del tempo, ma quando il male sarà debellato. La pace sarà raggiunta solo con la pazienza e il coraggio dei soldati oggi sul campo di battaglia.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante