Le ultime mosse di Sinwar Analisi di Gianluca Di Feo
Testata: La Repubblica Data: 11 dicembre 2023 Pagina: 15 Autore: Gianluca Di Feo Titolo: «Le ultime mosse di Sinwar il capo di Hamas fuggito a Sud intrappolato nei suoi tunnel»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/12/2023, a pag. 15, con il titolo "Le ultime mosse di Sinwar il capo di Hamas fuggito a Sud intrappolato nei suoi tunnel" l'analisi di Gianluca Di Feo.
Gianluca Di Feo
Le decisioni vengono prese soltanto da Yahya Sinwar a Gaza: non esistono più scelte collegiali con gli altri dirigenti di Hamas in esilio in Qatar, in Libano e in Turchia. La strage scatenata il 7 ottobre e l’offensiva israeliana contro la Striscia hanno avuto l’effetto di rendere ancora più assoluto il potere del leader jihadista, che durante le trattative per la liberazione degli ostaggi ha dimostrato di avere il controllo totale della formazione terroristica. Una condizione che però rende ancora più importante la sua cattura o eliminazione: è l’unico colpo che può realmente smantellare l’organizzazione palestinese. L’intensificazione degli attacchi, condotti contemporaneamente contro i capisaldi di Hamas a Nord e Sud, dove sono concentrati a Khan Yunis, la città natale di Sinwar, sembra avere restituito ai generali israeliani la convinzione di essere molto vicini a neutralizzare la mente del Sabato Nero che è costato la vita a 1400 ebrei. Il capo fuggitivo non lascia scie elettroniche: non usa telefonini o computer che potrebbero tradire la sua posizione. Ma il numero dei miliziani catturati continua ad aumentare e tanti forniscono informazioni su di lui. Testimonianze che parlano del trasferimento da Gaza City a Khan Yunis compiuto poco prima della tregua, nascondendosi nei cortei umanitari concessi alla popolazione palestinese. Lo descrivono come sempre più barricato nei bunker sotterranei, senza tentare altri spostamenti, né cercare di rendersi conto della situazione in superficie: incurante della distruzione provocata dai combattimenti e dai bombardamenti. Un Califfo pronto a sacrificare tutto il suo popolo pur di raggiungere i suoi obiettivi.
Da due mesi gli analisti di Mossad e Shin Bet cercano proprio di decifrare quali sono i risultati che voleva ottenere con l’eccidio del 7 ottobre, in modo da riuscire ad anticipare le sue mosse. Il punto di partenza è la sua biografia: Sinwar ha passato un decennio nelle carceri israeliane, dedicandosi soprattutto a studiare la mentalità dei suoi avversari. Questo gli ha permesso di infliggere un colpo senza precedenti allo Stato ebraico ma gli ha fatto anche commettere due errori di valutazione. Anzitutto ha ritenuto che l’onda emotiva per i massacri nei kibbutz avrebbe spinto le piazze musulmane alla rivolta, trascinando altre nazioni arabe nello scontro contro Israele. Questo non è avvenuto e neppure gli alleati storici, come gli Hezbollah libanesi o le formazioni sciite irachene, sono entrati in guerra limitandosi finora a una serie di scaramucce. Sostanzialmente, quindi, Sinwar e le sue brigate si sono ritrovate sole.
Il secondo sbaglio, quello che potrebbe rivelarsi fatale, è stato sottovalutarela reazione israeliana. Il leader di Hamas ha messo in conto un’operazione terrestre, ma si aspettava qualcosa di simile all’attacco del 2014: una campagna limitata nel tempo e nella potenza. Per questo ha preparato le sue schiere a condurre una resistenza non particolarmente accanita in superficie mentre le armi e i guerriglieri migliori sarebbero rimasti sottoterra per un paio di settimane. L’assalto scagliato da Israele, con un volume di fuoco senza precedenti a cui segue la prolungata occupazione del territorio, sta invece trasfor-mando i cunicoli in prigioni, dove la sopravvivenza della rete jihadista si fa ogni giorno più difficile. Mentre molti palestinesi cominciano a voltare le spalle a Sinwar, non solo tra la gente comune stremata per l’assedio. Anche l’ex ministro della comunicazione di Hamas lo ha criticato davanti agli investigatori dello Shin Bet: «Dobbiamo liberarcene ». E Netanyahu si è rivolto direttamente ai miliziani: «È finita, non morite per Sinwar».
Adesso al capo asserragliato nelle catacombe resta un’unica carta da giocare: gli ostaggi. Quando era detenuto, disse allo 007 incaricato di interrogarlo che quello che Israele considerava un elemento di forza - il fatto che la maggioranza dei cittadini servisse nell’esercito - era invece una debolezza da sfruttare. Aveva ragione: fu rilasciato insieme ad altri 1026 in cambio di un singolo soldato. E oggi ha in mano ancora 138 israeliani, soprattutto militari, per cui chiede di liberare i quasi 7000 reclusi palestinesi. Sono un’arma per dividere l’opinione pubblica e logorare il sostegno a Netanyahu: «Senza negoziati - ha dichiarato ieri sera Hamas - non torneranno a casa». Sinwar è sempre stato più abile come psicologo e propagandista che non come condottiero. E oltre ai prigionieri, gli resta un altro strumento per uscire dalla trappola: il martirio del suo popolo, quelle 17 mila vittime civili che pesano su Israele e spingono le cancellerie arabe e occidentali a chiedere l’interruzione dell’offensiva. Un orrore che diventa il suo scudo, dietro cui tentare di aprirsi una strada per la sopravvivenza.
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante