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Libero Rassegna Stampa
05.11.2023 Israele, l’Islam e noi
Analisi di Daniele Capezzone

Testata: Libero
Data: 05 novembre 2023
Pagina: 1
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: «Israele, l’Islam e noi»
Riprendiamo da LIBERO di oggi 05/11/2023, a pag.1, con il titolo "Israele, l’Islam e noi", l'analisi di Daniele Capezzone.

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

Australia To List Hamas As Terror Group - I24NEWS

Continuano a circolare sondaggi che attestano una notevolissima preoccupazione degli italiani per la guerra in Medio Oriente: e questo è perfettamente logico e comprensibile. Quello che invece si capisce poco (e si può giustificare ancora meno) è una certa difficoltà, testimoniata da quelle stesse rilevazioni, nel distinguere tra Israele e Hamas, come se si potesse far confusione tra l’unica democrazia di quell’area e un gruppo di tagliagole. Il problema si pone soprattutto a sinistra. È francamente surreale che Repubblica continui a sfornare pagine su un antisemitismo di destra ormai pressoché inesistente, laddove invece l’elefante nella stanza è rappresentato da un antisemitismo di sinistra che dilaga tra gli intellettuali progressisti, nelle piazze progressiste, nei salotti progressisti. Lo abbiamo già scritto: da quelle parti, non c’è il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, e di riconoscere che c’è un problema tutto interno all’album di famiglia della sinistra italiana. Ma lasciamo da parte per un momento l’infezione antisemita, e concentriamoci invece sul sentimento maggioritario – quello comprensibile, come dicevo all’inizio – e cioè la paura di un conflitto. Inutile girarci intorno: dopo quasi tre anni funestati dal Covid e dopo un anno e mezzo di guerra tra Russia e Ucraina, è umanissimo che molti vivano con preoccupazione l’insorgere di un nuovo conflitto. C’è un desiderio di normalità, di vita minimamente più serena, che abita nella testa e nel cuore di ciascuno di noi. Eppure (sarà una consapevolezza minoritaria, ma occorre manifestarla) è il caso di renderci conto che esistono appuntamenti con la storia non rinviabili, nodi il cui scioglimento non può essere più di tanto allontanato nel tempo. Dall’11 settembre in poi (stiamo parlando di 22 anni fa), l’Islam fondamentalista ci ha dichiarato una guerra che è tuttora aperta. Solo alcuni illusi pensavano che la questione fosse archiviata: vale per il Medio Oriente, e vale per le cellule radicalizzate pronte a colpire nel cuore del nostro Occidente. 

ALTRI FRONTI E - jihad islamica a parte uno sguardo alla carta geografica offre in molti quadranti altri e consistenti motivi per una riflessione cupa: l’aggressività cinese, l’Africa in subbuglio, la contesa per le materie prime che è inevitabilmente destinata a farsi più aspra nei prossimi anni. «Estote parati», «siate pronti», è un celebre monito evangelico. Abbiamo il dovere di essere intellettualmente ed emotivamente pronti a vivere in un mondo che non sarà un posto né facile né confortevole. Chi ha aspirazioni ireniche o irenistiche è destinato – temo – a fare i conti con una dura realtà che non possiamo continuare a negare, o rifiutare di riconoscere per quello che è. E allora affidiamoci ai giganti come riferimenti sicuri. Tutti ricordano i leggendari discorsi di Winston Churchill, a partire dalla seconda metà del 1940, che incoraggiarono i britannici, li galvanizzarono nella battaglia contro i nazisti, capovolgendo il clima e - in prospettiva - anche l’esito della Seconda guerra mondiale. Ma pochi rammentano cos’era accaduto prima (fine maggio del 1940), e cioè la riunione, durata tre giorni, del Gabinetto di guerra del Regno Unito. 

IL DILEMMA Una discussione drammatica: restare in una guerra che appariva già irrimediabilmente persa per il Regno Unito? Oppure tentare un accordo, un appeasement, sia pure umiliante, per salvare il salvabile? Dentro il War Cabinet, Churchill era accerchiato. Era primo ministro da appena tre settimane, peraltro dopo una vicenda parlamentare contestatissima; lo sostenevano, a quel tavolo, liberali e laburisti, mentre scontava tutta la freddezza dei conservatori (che aveva lasciato anni prima a favore dei liberali, salvo poi ritornare nel partito, ma subendo accuse sanguinose: avventuriero politico, voltagabbana, opportunista senza princìpi); l’autorevole lord Halifax, ministro degli Esteri, sosteneva una proposta di “mediazione” suggerita dall’Italia; il grosso della società inglese chiedeva l’appeasement con i nazisti; i maggiori giornali volevano un negoziato, e addirittura allontanavano gli editorialisti e i commentatori di opinione diversa; l’ambasciatore americano in Inghilterra, Joe Kennedy (il padre di JFK), spingeva per un accordo con la Germania di Hitler, la cui avanzata pareva inarrestabile. Ecco, contro tutto questo, con un intervento memorabile che si può ricostruire dai verbali del War Cabinet, Churchill (che, da primo ministro, era soltanto un primus inter pares) convinse tutti che non si poteva cedere: occorreva combattere e non negoziare; il Regno Unito sarebbe stato altrimenti ridotto alla condizione di stato-schiavo, con un governo fantoccio filonazista. Churchill sapeva che la sua alternativa a una pace umiliante poteva trasformarsi nel rischio di una strage di innocenti: e infatti in un anno la Gran Bretagna avrebbe contato trentamila morti. Eppure tenne duro. E sappiamo come effettivamente finì la guerra, alcuni anni dopo. 

LA LEZIONE DI CHURCHILL Perché ho rievocato questo episodio? Per carità, una personalità eccezionale come quella di Churchill nasce una volta in uno-due secoli: questo è chiaro. Né (Dio ce ne scampi) siamo oggi dentro una Terza Guerra Mondiale. Ma ciò che preoccupa, ora, è che troppo spesso e quasi ovunque, sia le opinioni pubbliche sia molti dei massimi leader occidentali rischiano di non avere il tempo per una riflessione di fondo. E quindi meno che mai - di non avere il coraggio di scelte radicali, difficilissime, impopolari, controcorrente. Lo dico senza alcun desiderio di scherzare o sdrammatizzare, riferendo un’osservazione intelligente e profonda che mi fu fatta da chi mi accompagnò una volta a visitare i luoghi del War Cabinet a Londra. Se oggi un Gabinetto di guerra fosse riunito da qualche parte (figurarsi: per tre giorni consecutivi), ogni mezz’ora ci sarebbe un addetto stampa che busserebbe alla porta dicendo: serve una battuta per i tg, più un tweet da lanciare e un post da pubblicare su Facebook. L’assedio del “presentismo” che preclude il respiro di un pensiero più profondo. Ecco, ci sono invece momenti in cui – anche rischiando sul piano dei sondaggi – occorre tenere ben ferma la barra del timone, avendo scelto una bussola affidabile: quella della libertà, oggi difesa dal nostro Occidente, difesa da Israele, così come da Washington, da Londra, da Roma. Sono democrazie- le nostre - piene di difetti, che ci fanno disperare ogni giorno: ma sono la cosa meno peggiore prodotta dall’umanità, sul piano della vita politica e istituzionale, da qualche secolo. Conviene esserne consapevoli e averne cura. Oggi quei valori sono difesi dall’esercito israeliano che circonda Gaza: è questa la posta in gioco. Non lasciamoci ingannare.

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