Antisionismo e antisemitismo Analisi di Pierluigi Battista
Testata: Il Foglio Data: 23 ottobre 2023 Pagina: 5 Autore: Pierluigi Battista Titolo: «La colpa di essere ebrei»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 23/10/2023, a pag. 5, con il titolo "La colpa di essere ebrei", l'analisi di Pierluigi Battista.
Pierluigi Battista
Il 9 ottobre del 1982 un bambino italiano di due anni, di nome Stefano Gaj Taché, viene ucciso da una granata e dalle sventagliate di mitra di un commando composto da una decina di terroristi mediorientali. Un bambino italiano. Un bambino italiano ed ebreo. Ma lo status ufficiale nell’elenco delle vittime del terrorismo italiano gli verrà riconosciuto soltanto trent’anni dopo, nel 2012, grazie all’impegno del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Con la sua famiglia Stefano stava uscendo insieme alla folla di fedeli dalla Sinagoga Maggiore di Roma, dove veniva celebrato l’ultimo giorno della festa di Sukkot. Un bambino ebreo: dilaniato nel pieno centro della capitale dalle armi dell’odio politico e antisemita. Un bambino ebreo alla fine di una cerimonia ebraica in un tempio ebraico. Non un aereo israeliano. Non un ufficio commerciale israeliano. Non un consolato israeliano. Un bambino ebreo davanti a un tempio ebraico. La saldatura tra odio per lo stato di Israele e odio per gli ebrei, tra antisionismo e antisemitismo, si mostrava in quel cruento frangente compiuta, assoluta, senza residui. E questo potevamo saperlo. Tutti avrebbero potuto saperlo, se solo avessero voluto vedere. E invece: niente raccapriccio, niente vergogna. Sull’onda delle proteste per l’invasione israeliana del Libano furono colpiti in Europa, a Parigi, ad Anversa, a Vienna, a Roma, cimiteri ebraici, scuole ebraiche, luoghi di culto ebraici. Pochi giorni prima dell’assassinio del piccolo Stefano, sui muri di una piccola sinagoga di via Garfagnana, a Roma, un gruppo dell’estrema sinistra romana aveva affisso uno striscione con su scritto: “Bruceremo i covi sionisti”. Una sinagoga definita “covo sionista”. Sì, ci fu reazione nella stampa italiana, molta indignazione, molta mobilitazione morale. Per l’assassinio di un bambino ebreo? No, per le gesta infami degli ebrei e di Israele che del resto erano la causa di tutto. Non mi va di far nomi, molte delle persone menzionate sono passate a miglior vita, e non si addice al mio carattere il processo postumo. Ma nei migliori e più autorevoli e più democratici giornali italiani si chiedeva a Davide di “discolparsi” (testuale) con un necessario e salvifico mea culpa. Si scrisse, inchiodando gli ebrei a una maledizione biblica, di un “popolo eletto” anche nella crudeltà e dell’intrinseca “violenza” dell’ebraismo del Vecchio Testamento in contrasto con la mitezza del cristianesimo. Si scrisse, basta andare negli archivi, di un popolo ebraico che riscopriva nella Bibbia la sua identità mai sepolta, malgrado le indicibili sofferenze patite, di “razza dominatrice” (“razza”, avete letto bene). Si scrisse di un “Dio vendicativo degli eserciti” che aveva preso il sopravvento su quello misericordioso. Successe che una rivista colta e raffinata aveva deciso di esibire in copertina un disegno che raffigurava, inestricabilmente intrecciate, la croce uncinata e la stella di David: gli ebrei di oggi come i nazisti di ieri, le vittime di ieri come i carnefici di oggi, una cialtronata culturale, più ancora che un sordido luogo comune, che nel tempo, fino ai nostri giorni, ha trovato numerosi e sventurati adepti. Successe inoltre una cosa ancora più brutta. Successe in quei giorni che durante un corteo sindacale, al grido di “Ebrei ai forni! Morte a Israele!”, fu deposta una bara davanti alla Sinagoga di Roma, vicinissimo alle lapidi degli ebrei deportati e sterminati nel rastrellamento del 16 ottobre del 1943 (quello di cui si commemora con aria contrita l’ottantesimo anniversario). Luciano Lama, un uomo retto e un ammirevole dirigente sindacale, ne rabbrividì, sconvolto. Ma inconsapevolmente la sua lettera di rammarico al rabbino Toaff aggravò l’incidente, zeppa com’era di lapsus rivelatori: “Neppure la guerra crudele scatenata dalle armate israeliane contro un popolo che rivendica il suo diritto, sacrosanto come il vostro, a una patria…”. Come sarebbe: il “vostro”? Ma gli ebrei italiani non avevano già una “patria”? Non erano già ebrei italiani, come il piccolo Stefano e il rabbino Toaff? Bisognava trattarli con il “voi” anziché con il “noi”, il “vostro” anziché con il nostro? “Guerra crudele”. Che poi la guerra è sempre crudele. La guerra che coinvolge i civili, poi, è ancora più crudele. Ma chissà perché la guerra più crudele di tutte è sempre quella di Israele. Sempre. Quando gli aerei e gli elicotteri militari della Siria del macellaio Assad e della Russia di Putin uccidevano un numero elevatissimo di civili a Ghouta Est, ad Aleppo, ad Homs, a Darà, quanti bambini saranno stati sepolti sotto le bombe e quante strutture sanitarie sono state devastate, se si considera che soltanto nel 2015 ne erano state distrutte 150? Abbiamo detto qualcosa, le piazze si sono mosse, l’indignazione globale si è accesa come un incendio etico? No, in questo caso la “guerra crudele” non era di Israele (e nemmeno amerikana) e poi ci faceva comodo che insieme alle centinaia di migliaia di civili siriani massacrati si usassero metodi spicci contro l’Isis.
Nessun assalto e nemmeno una fiaccolata (soltanto i soliti Radicali) davanti all’ambasciata cinese quando a Pechino hanno proceduto e procedono allo “spostamento” coatto (insomma, la deportazione) di mezzo milione e l’uccisione di alcune migliaia di uiguri (vecchi e bambini), l’etnia turcofona di religione islamica della regione dello Xinjiang: e pensare che dei crudeli campi di concentramento, dove tra l’altro le donne sono costrette alla sterilizzazione per non perpetuare la razza maledetta, esiste persino la documentazione fotografica, ma niente. Le vittime sono islamiche, ma forse i carnefici hanno la stella di David nelle loro insegne? No, e dunque cambiano pagina. A proposito, qualcuno sa che cosa è successo e succede nel Darfur con 400 mila morti accertati e due milioni e mezzo di profughi in fuga dai feroci “janjiawid” (“demoni a cavallo”). No. E comunque non c’è nemmeno in questo caso un’aula universitaria occupata in Italia, e ad Harvard (il luogo della fine dell’Occidente all’orizzonte) è proibito parlare di altre crudeltà che non siano quelle americane ed ebraiche. Pardon, israeliane. Del resto, tutti sanno che cos’è l’orrore assoluto di Sabra e Chatila. Provate invece a chiedere a uno studente della Sapienza o a uno di Harvard che cosa gli trasmette l’espressione Tel-al-Zatar oppure Settembre nero. Furono due massacri di palestinesi. Solo che la colpa non era di Israele, ma rispettivamente della Siria e della Giordania. Per cui, silenzio. Doppio movimento: enfatizzazione e minimizzazione. Trattamento speciale nei confronti dello stato di Israele, riflettori puntati su ogni nefandezza, un “discolpati” continuo e martellante. E questo è il primo movimento. Poi c’è il secondo, opposto al primo: la minimizzazione, il ridimensionamento, il silenzio omertoso, il far finta di niente quando lo schema vittima/carnefice viene ribaltato. Leon Klinghoffer era un signore americano ed ebreo. Stava su una sedia a rotelle. E fu buttato in mare, lui insieme alla sedia a rotelle, quando i dirottatori palestinesi sequestrarono e dirottarono nel 1985 l’Achille Lauro, una nave italiana. Klinghoffer era in crociera, non stava bombardando campi profughi. Però lo ammazzarono, su una nave italiana, perché era ebreo. In quegli anni si diceva che la battaglia palestinese avesse come sua bandiera l’indipendentismo e il nazionalismo laico e che gli ebrei e l’antisemitismo non c’entrassero niente. E invece, avesse potuto, Klinghoffer avrebbe sostenuto il contrario. L’antisemitismo non c’entra mai, ma Daniel Pearl nel 2002, in Pakistan, in un video girato prima della rituale decapitazione (e dopo torture, anch’esse presumibilmente molto crudeli) fu costretto a dire: “My father is a Jew, my mother is a Jew, I am a Jew”. Nel 2006 rapirono a Parigi un giovane ebreo che si chiamava Ilan Halimi. Durante i 24 giorni di prigionia lo torturarono e mandarono alla madre prove raccapriccianti delle sevizie subite dal figlio. Poi lo arsero vivo e come un sacco di immondizia lo gettarono ancora agonizzante lungo la ferrovia. La polizia francese si disse “scettica” sulla pista antisemita. E dato che la polizia si diceva scettica, anche la stampa solitamente attenta manifestò a tal punto il proprio scetticismo da relegare la notizia nelle brevi di cronaca. Gli ebrei non c’entrano. Non alimentiamo le guerre di religione. Piano con le parole. Casomai, è il “degrado metropolitano”, il disagio sociale e via così. Poi venne celebrato il processo e grande fu lo stupore della stampa solitamente attenta quando il capobanda, prima di concludere il suo discorso con il grido “Allah Akbar”, definì gli ebrei (gli ebrei, dunque gli israeliani, e viceversa) “assassini di musulmani su scala planetaria, indottrinatori, manipolatori, nemici da combattere per il bene dell’umanità”. Strano. Strano soprattutto che nessuno di noi volesse guardare la realtà per quel che era. E sempre sulla dismisura e sul “trattamento speciale” riservato a Israele. Dismisura su un popolo, che numericamente costituisce una piccola quantità, su una limitatissima area geografica, nel gran mare tumultuoso del mondo arabo. Una volta ho chiesto a un amico colto e sensibile, “antisionista” impenitente: secondo te sarebbe stato giusto che chi combatteva per l’indipendenza dell’India dall’Impero britannico avesse avuto come meta finale l’annientamento di Londra e la deportazione dei suoi abitanti? Risposta: ma certamente no. E i nazionalisti algerini che volevano liberare la loro patria dai francesi, reclamavano forse lo smantellamento della Tour Eiffel e del Louvre? Ma certamente no. E i baschi, sarebbero stati giusti se avessero avuto nel loro programma non solo l’indipendenza della loro nazione, ma anche la conquista di Madrid manu militari e la via dell’esilio per la popolazione castigliana? Ma certamente no. Ed è giusto che oltre all’indipendenza dello stato palestinese si auspichi a gran voce, sin dal 1947, la sottomissione di Tel Aviv e gli ebrei “ricacciati in mare”, secondo la vulgata nasseriana? Beh, bisogna contestualizzare… Ecco, bisogna contestualizzare. Ma occorre soprattutto contestualizzare questa emiplegia mentale, come la chiamava il grande Jorge Semprún, come se il cervello, quando si tratta di Israele e degli ebrei, rispondesse a due logiche parallele, una vivace, sveglia e reattiva quando se ne pensa male, l’altra opaca, sonnolenta, offuscata, quando se ne pensa bene. So di cosa sto parlando. In quel mare infetto ho nuotato anche io quando ero un adolescente ignorante come quelli che sfilano con la kefiah il giorno dopo la carneficina di ebrei compiuta da Hamas. Nel 1972 un commando palestinese, durante le Olimpiadi di Monaco, irruppe nei dormitori dove erano ospiti gli atleti israeliani, facendone strage. Ero così furiosamente trascinato nel mio impeto dottrinario che quasi ero arrivato a considerare Yasser Arafat un tiepido moderato. Invece bisognava decidere chi fosse il leader più ammirevole, se Nayef Hawatmeh o George Habbash, che capeggiavano due componenti superoltranziste in rotta con la dirigenza “moderata” e compromissoria di Arafat. Ero molto scemo, e mi fa male riconoscere in ciò che ero io millanta anni fa la stessa ossessione idiota sui volti di chi oggi continua a non capire che la battaglia di Israele è per la sua sopravvivenza. E se qualcuno, allora, mi avesse dato dell’antisemita, mi sarei mortalmente offeso. Non sapevo ancora, tuttavia, che gli stereotipi lavorano nel profondo e che quell’accusa non sarebbe stata del tutto ingiustificata. Poi certo, si piange per “Schindler’s List”, si lacrima fino all’esaurimento per “La vita è bella”, ma abbiamo tutti una reazione distratta quando per caso veniamo casualmente a conoscenza che nei paesi arabi ci sono fiction tv ricalcate sugli appassionanti “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Oppure che nella tv di Gaza si trasmette in continuazione la seguente predica: “‘Oh sheikh, ho quattordici anni, ancora quattro anni e poi mi farò saltare tra gli ebrei’. E gli dissi: ‘Oh, ragazzo, che Allah ti faccia meritare il martirio’”. A proposito: Hamas vieta tassativamente la pubblicazione di brani tratti dal Diario di Anna Frank per non diffondere “l’infezione della campagna sionista”. Anna Frank, nascosta in una soffitta di Amsterdam, come i bambini raggiunti dall’indicibile terrore nel cuore di un kibbutz, il 7 ottobre del 2023.
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