La fine della comunità ebraica irachena / parte 1
Analisi di David Elber
Ebrei in Iraq
Con la creazione dello Stato di Israele nel 1948, la vita degli abitanti ebrei dell’Iraq fu resa impossibile dalle autorità arabe. Questo portò alla decisione di scappare da un territorio che li aveva visti crescere e vivere fin dai tempi dell’antica Babilonia.
Nel corso dei secoli la vita ebraica in Mesopotamia, con la conquista araba del VII secolo d. C., si era mantenuta difficile anche se migliore rispetto ai correligionari che vivevano negli Stati cristiani. L’arrivo dell’Islam comportò per gli ebrei – come per tutte le altre popolazioni che non vollero convertirsi – una vita da sudditi discriminati. Divennero fin da subito dhimmi, così come previsto nel Corano per le popolazioni, non musulmane, che vivevano in territorio conquistato dall’Islam (Dar al-Islam).
La condizione di dhimmi, nel mondo islamico, si attuava con molteplici imposizioni più o meno rigide a seconda del grado di tolleranza mostrato dal regnante. Essa andava da semplici discriminazioni in materia di abbigliamento: agli ebrei era imposto un pezzo di stoffa giallo, sull’abito o un cappello, ben visibile per poter essere immediatamente riconoscibili. Alla non validità di testimonianza in tribunale che li vedeva contrapposti a sudditi musulmani. A restrizioni relative alle cavalcature e ai luoghi di culto, ai carichi fiscali ben superiori rispetto ai sudditi musulmani. Fino al pagamento della jizya, cioè di una “tassa per la protezione” riservata ai non musulmani che non intendevano convertirsi e che volevano continuare a risiedere nei luoghi che li aveva visti vivere per generazioni. Così nel corso dei secoli, questo status discriminante comportò un condizionamento talmente radicato che andò ad influenzare il comportamento, la mentalità, l’aspetto esteriore e le attività svolte da queste popolazioni.
La situazione della comunità ebraica irachena si trascinò così per oltre un millennio, vedendo la propria condizione migliorare o peggiorare in base alla maggiore e minore intolleranza dei governanti che si alternavano: dai califfi arabi a quelli turchi che mantennero, ininterrottamente (salvo la breve parentesi mongola nel XIII secolo), il potere in Mesopotamia fino alla sconfitta dell’Impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale. Nel 1920, per decisione della Società delle Nazioni, fu creato il Mandato britannico di Mesopotamia e la condizione delle popolazioni non musulmane migliorò notevolmente sotto molteplici aspetti.
Così molti membri della locale comunità ebraica poterono accedere ad importanti incarichi statali in qualità di alti funzionari amministrativi, nelle ferrovie, nelle poste, e nella banca dello Stato. Anche in ambito privato raggiunsero posizioni di prestigio: non pochi divennero avvocati, notai, giornalisti, imprenditori e grandi commercianti. Ma già a metà degli anni ’30 una grande ondata di filo nazismo – con conseguente risorgere di anti giudaismo – attraversò tutto il mondo arabo. Nello specifico in Iraq (dal 1932 divenuto uno Stato indipendente) si tradusse in una sempre maggiore ostilità verso la comunità ebraica. Le cose andarono peggiorando con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’avversione anti inglese divenne estremamente diffusa e fu alimentata dalla propaganda nazista. In questo clima ormai avvelenato, diverse figure religiose iniziarono ad aizzare gli animi contro gli abitanti ebrei. Uno dei maggiori responsabili di questo crescente odio antiebraico fu il Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini, che scappato dalla Palestina mandataria dopo aver iniziato una rivolta anti inglese nel 1936 e ricercato, trovò rifugio a Bagdad nel 1939. Qui iniziò una violenta propaganda anti inglese e anti ebraica che ebbe molto seguito tra la popolazione irachena. Ad aprile del 1941 fu tra gli organizzatori del golpe che portò un gruppo di ufficiali dell’esercito iracheno a prendere il potere. Il nuovo governo si schierò apertamente dalla parte dell’Asse.
Il 9 maggio, Amin al-Husseini, emise una fatwa per chiamare la jihad contro gli inglesi e gli ebrei in tutto il Medio Oriente. Il rapido intervento militare inglese depose il governo filo nazista in meno di un mese di combattimenti. Ma ormai, per gli ebrei iracheni, la situazione era segnata. Amin al-Husseini riuscì ancora una volta a scappare alla cattura inglese e fuggì in Iran, da lì raggiunse poi l’Italia e la Germania dove continuò il suo appoggio ai due regimi.
In Iraq, l’1-2 giugno di verificò un violentissimo pogrom antiebraico – Farhud in arabo – che ricordava per molti aspetti la “notte dei cristalli” del 1938. Fu un orgia di sangue e devastazioni che colpirono diverse comunità ebraiche in tutto l’Iraq. I soldati inglesi non intervennero per due interi giorni. Alla fine si contarono quasi 200 morti e migliaia di feriti e mutilati. I danni materiali a proprietà e sinagoghe furono incalcolabili. Questo violento atto criminale verso dei civili inermi fu solo l’ultimo atto, come si accennava in precedenza, di una crescente ostilità antiebraica che già si manifestava dalla metà degli anni ’30. E’ infatti da questo momento che funzionari statali ebrei furono allontanati da molti incarichi statali e dalle scuole pubbliche. Anche iscriversi agli studi superiori, per gli ebrei, risultava sempre più difficile. Ormai era sempre più evidente che per gli ebrei iracheni, la situazione stava peggiorando in modo drammatico. Un ulteriore campanello d’allarme, prima del Farhud del giugno 1941, fu il ritrovamento durante i disordini seguiti al colpo di stato del ‘41, da parte di un ufficiale ebreo dell’esercito iracheno, Shaul Sehayit, di un documento top secret dell’esercito che era l’ordine dell’alto comando di predisporre la lista di tutti gli ebrei e dei loro beni presenti nel Paese. Si stavano seguendo le orme di quanto era appena avvenuto in Germania. L’occupazione inglese che durò tutto il periodo della guerra ebbe l’effetto di sospendere momentaneamente le manifestazioni antiebraiche più violente, ma il fuoco covava sotto la cenere. Il nuovo pretesto per sfogare i sentimenti antiebraici fu la questione della spartizione del Mandato per la Palestina nel novembre 1947. Immediatamente dopo che fu diffusa la notizia dell’approvazione in sede ONU della spartizione, scoppiarono disordini e violenze antiebraiche. Questa volta con l’aggiunta di vere e proprie spoliazioni e confische dei beni e delle proprietà detenute dagli ebrei. Le scuse erano le più variegate: si andava da presunte violazioni fiscali, amministrative o semplicemente si “convincevano” i proprietari ebrei a cedere le loro attività o i beni immobili a cifre irrisorie. Alla fine degli anni ’40 la comunità ebraica irachena contava ancora più di 130.000 persone. Nel giro di una paio danni si ridussero a meno di 10.000 per, poi, scomparire totalmente nel corso degli anni ’60.