domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
09.07.2023 La Russia è un Paese in declino
Commento di Nathalie Tocci

Testata: La Stampa
Data: 09 luglio 2023
Pagina: 15
Autore: Nathalie Tocci
Titolo: «La Russia in declino»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/07/2023, a pag.15, con il titolo "La Russia in declino", il commento di Nathalie Tocci.

Nathalie Tocci – Belgrade Security Forum
Nathalie Tocci

Russia's Demographic Crisis is Getting Worse - YouTube

In 500 giorni di guerra in Ucraina è cambiata radicalmente la lente con cui osserviamo l'Europa orientale. Cosa ci hanno insegnato 500 giorni di invasione russa e quali lezioni possiamo trarne per i prossimi (eventuali) 500? Cinquecento giorni fa sapevamo poco o niente dell'Ucraina. Non solo l'opinione pubblica italiana conosceva poco il Paese, così come il resto dell'Europa orientale, ma anche le nostre istituzioni, pubbliche e private, incluse quelle che si occupano di politica internazionale, guardavano l'Ucraina attraverso la lente di narrazioni, convinzioni e pregiudizi russi. L'Ucraina ne veniva fuori come uno Stato farlocco, gli ucraini erano russi di serie B, cittadini di un Paese corrotto, a sovranità limitata e privo di identità nazionale: in poche parole, quasi uno Stato fallito. Non a caso quando iniziò l'invasione russa, e al netto della (sovra)stima del potere bellico di Mosca, nessuno avrebbe scommesso un euro sulla capacità di Kyiv di resistere. Ora, invece, sappiamo che l'Ucraina ha un'identità nazionale forte, una marcata resilienza civica, e uno Stato capace di reggere, nonostante il tracollo economico e demografico, la distruzione delle infrastrutture e le decine, anzi centinaia, di migliaia di morti. Certo, l'Ucraina resiste grazie alle armi occidentali, ma il sostegno militare è una condizione necessaria, non sufficiente, della resistenza. Basti pensare ai miliardi spesi in Afghanistan in vent'anni, andati in fumo con la ritirata degli Stati Uniti e della Nato. Il sostegno militare conta quanto contano la volontà, il morale, la coesione e l'identità. Insomma, la prima lezione è che l'Ucraina c'è. L'ammutinamento (o il tentato golpe) di Evgenij Prigozhin ha messo in luce il fatto che se parliamo di Stati falliti, semmai, è della Russia che dovremmo occuparci. La vicenda del capo della milizia Wagner e della sua marcia in direzione Mosca non ha fatto emergere una crepa; l'ha resa evidente. Il regime di Vladimir Putin è fondato sulla paura, sulle divisioni e sul costante rimandare decisioni finché i nodi di una crisi non vengono al pettine. Quando la crisi esplode e la sopravvivenza stessa di Putin è in bilico, abbiamo inoltre imparato che il capo del Cremlino non si comporta come un animale ferito con il dito sul pulsante nucleare: Putin abbozza e... negozia. È una lezione importante da ricordare. Tutto questo porta alla seconda lezione degli ultimi 500 giorni. Cinquecento giorni fa non avevamo una politica nei confronti dell'Ucraina (non avendola mai presa sul serio), mentre ne avevamo una rispetto alla Russia, fatta di sanzioni e ingaggio selettivo. Sanzionavamo (debolmente) dopo l'annessione della Crimea e l'inizio della guerra russa nel Donbas nel 2014, ma continuavamo anche a cercare vie di cooperazione con Mosca. Non è stata una politica efficace (lo riconosco, avendo contribuito a svilupparla), ma era una politica con una sua razionalità. Alla radice c'era la convinzione, rimasta intatta sin dall'avvio del processo di Helsinki negli anni '70 - pensato per contenere le tensioni della Guerra Fredda -, che un'architettura di sicurezza europea possa essere costruita solo con la Russia. Ora abbiamo una politica nei confronti dell'Ucraina: sostegno militare, economico e umanitario, e, in prospettiva, adesione all'Unione europea e, eventualmente, alla Nato. Non abbiamo invece una politica nei confronti della Russia, e non la abbiamo perché, pur sapendo che non ci sarà un accordo di pace con Putin, da una parte non intravediamo quale Russia emergerà dopo di lui, e dall'altra non siamo in grado di influire sulle dinamiche interne al Paese. E quindi, fermo restando il sogno di ricostruire un giorno un'architettura di sicurezza con Mosca, dobbiamo fare i conti con la realtà che la sicurezza europea può solo essere costruita contro la - o, meglio, per proteggerci dalla - Russia. Se queste sono le lezioni degli ultimi 500 giorni, cosa possiamo dire dei prossimi 500? Anzitutto, finché continuerà l'aggressione russa, persisterà la resistenza ucraina. Chi pensa (o spera) che gli ucraini si stancheranno e getteranno la spugna, sbaglia. Non sappiamo se, quanto e quando avrà successo la controffensiva di Kyiv, ma la resistenza mirata a liberare territorio e popolazioni occupati continuerà. La seconda previsione, oggettivamente meno certa, è che non si stancherà neanche l'Occidente. Superata la crisi energetica e prese le decisioni più cruciali sulle sanzioni e sugli aiuti militari, l'impegno richiesto sarà minore rispetto a quello che è stato nei primi 500 giorni. Il costo di abbandonare l'Ucraina è infinitamente più alto di quello di continuare a sostenerla, e questo vale a prescindere dagli esiti delle elezioni su entrambe le sponde dell'Atlantico. Terza previsione, più azzardata: quella a cui abbiamo assistito un paio di settimane fa è stata la prima, ma non l'ultima, crisi in Russia. Non sappiamo quando scoppierà la prossima, né se sarà quella a rappresentare la goccia che farà traboccare il vaso. Ma sappiamo che il regime di Putin è in decadimento, anche se questo non significa necessariamente un collasso imminente. Infine, un auspicio: in 500 giorni abbiamo capito che le lenti imperiali russe con cui osservavamo l'Europa orientale erano lenti oscure, distorte. Nei prossimi 500 giorni sarebbe bello se ci togliessimo anche le nostre di lenti coloniali, rendendoci conto che quando parliamo di negoziati, di pace, di costi economici e di rischi nucleari, non facciamo altro che mettere avanti i nostri interessi, le nostre paure e i nostri sogni, calpestando, senza accorgercene neanche, coloro di cui abbiamo, perlomeno teoricamente, scoperto l'esistenza.

Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/065681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT