'Il terzo tempio', il libro postumo di A.B. Yehoshua Recensione di Elena Loewenthal
Testata: La Stampa Data: 13 giugno 2023 Pagina: 49 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «Un tempio per la pace»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/06/2023, a pag.49, con il titolo "Un tempio per la pace" il commento di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
C'è tutto l'indimenticabile romanziere, l'uomo di cuore capace di ascoltare come pochi altri al mondo, c'è tutto quello straordinario melting pot umano che aveva in sé e sapeva raccontare a non finire, in quest'ultima, breve opera di A. B. Yehoshua. C'è tutto lui, nell'arte e nella vita, nello stupore che ci desta, nel modo in cui ci mette tutti sempre davanti allo specchio, raccontando. E che tristezza, averlo perso per sempre. Il Terzo Tempio è in apparenza una pièce teatrale, tradotta in italiano da Sarah Parenzo per Einaudi. Ma incastonare questo libro in un genere letterario è tremendamente riduttivo: "Novella in forma di dialogo", recita il sottotitolo. È vero che la forma del testo è quella giusta per un palcoscenico quasi sgombro, pochi personaggi – uno dei quali sempre presente sulla scena. E sempre lo stesso interno rabbinico come scenografia: niente effetti speciali, niente colpi di scena, niente sfondi cangianti. Eppure questo libro racchiude, o meglio apre una quantità di storie, scene, parole, orizzonti, possibilità. È il teatro della vita, più vero che mai. C'è una donna in una stanza, fuori scena, che aspetta da ore di essere ricevuta dal rabbino. O meglio, nella sede del tribunale rabbinico. Altrove, anzi sulla scena, ci sono il rabbino Nissim e il suo segretario Yechiel: nessuno dei due è un gaòn, come si direbbe in ebraico, un luminare, una mente eccelsa.
Abraham B. Yehoshua in piazza Carignano a Torino
C'è confidenza fra loro, malgrado il manierato rispetto delle gerarchie. Il rabbino viene a sapere, ad esempio, che il suo segretario esercita la funzione di circoncisore. Ma di seconda, per non dire terza fascia, e nei ritagli di tempo dal lavoro. Cosa non si fa per mandare avanti la baracca. Tutti e due, del resto, si barcamenano nella vita, in attesa che capiti qualcosa di travolgente, cruciale. Che cosa, non è ben chiaro. Anche Esther, la donna fuori scena fino a un certo punto, aspetta. Ma la sua è un'attesa tutta diversa, che sia di essere ricevuta – a fine giornata! – dal rabbino o l'attesa del Messia in persona. Anzi, del suo personale messia. L'attesa di Esther non ha altro scopo se non quello di raccontare la propria storia. È perentoria e insicura al tempo stesso, nel momento in cui entra in scena. Ha un fascino tutto particolare, che incute un certo timore reverenziale ma non meno curiosità. Dice, ripete, che dopo questa volta il rabbino non la vedrà mai più, né la sua storia più si racconterà. Tiene sulle spine il lettore, ben consapevole che quel che lei ha da raccontare sarà tutto diverso da quel che ci si aspetta. Tutto si dipana così per gradi, come un sipario che si alza lentamente, a ritmo discontinuo, con arte sapiente. C'è molto Il Signor Mani, in quest'ultimo libro di Yehoshua: quel suo romanzo ardito, quattrocento e più pagine sul filo del più spinto virtuosismo narrativo. Una serie di dialoghi in cui c'è sempre una voce sola mentre l'altra è oltre, in un prima o in un dopo o in una lontananza irraggiungibili. Qui, come in quel romanzo storico e psicologico che scava nel profondo dell'umano, Yehoshua sospende la narrazione in bilico fra il detto e il non detto, generando una serie di realtà parallele in cui il lettore ha tutta la libertà di muoversi, immaginare, credere. Il Terzo Tempio è in questo senso una sorta di distillato della narrativa di Yehoshua: dalla disadorna stanza del rabbino, dall'elenco della spesa presso il fruttivendolo di fiducia che la moglie gli detta al telefono, alle quasi picaresche avventure del segretario nei sobborghi di Tel Aviv a circoncidere povera gente, si passa senza soluzione di continuità al mondo più grande che c'è, a Parigi dove ci sono ancora ebrei "veri", memori della diaspora e dell'attesa, arrivando fino a quella fine del mondo che è l'inizio – la resurrezione e il ritorno di tutti gli esuli a Gerusalemme. Il Terzo Tempio è l'ossessione di Esther, ciò che la muove insieme alla certezza di aver subìto un torto tremendo e insanabile; ma questo Terzo Tempio è ben più di un edificio da ricostruire per tenere fede alla storia e che dovrebbe risorgere sulle rovine del Primo e del Secondo, con il Muro del Pianto alla radice. È un'idea, un'utopia, una meta sorprendente. Come sempre, Yehoshua si diverte a connettere in un modo inedito le contraddizioni del mondo: laici e religiosi, solennità e misura del comico, cielo e terra. Tutto si intreccia in un modo indissolubile: è il registro della vita. Le incongruenze della realtà diventano anche qui, in questa breve opera, la cartina di tornasole dell'animo umano. Anche qui, come in tutti i grandi romanzi di questo autore, c'è il mistero delle relazioni umane, di ciò che lega loro malgrado gli individui. Il mistero delle relazioni amorose e ancor di più di quell'insieme inestricabile di pulsioni che tiene insieme un matrimonio. Anche qui, come da L'amante in poi, l'insaziabile e provvidenziale curiosità dello scrittore si cimenta con l'enigma dei sentimenti. Perché Esther si è innamorata di David? Solo perché ha la pelle di un colore olivastro così "ebraico"? E perché il rabbino Modiano la costringe a una seconda, inutile anzi tossica conversione? Tutto non è mai così semplice e comprensibile come a volte può sembrare. E davvero il rabbino Nissim aspira a salire di grado e di piano in ufficio? Forse sì, forse no. C'è, certamente, un messaggio civile e politico in questo libro: il pregiudizio che la nostra felicità sia la variabile di una disgrazia altrui. C'è, certamente, il senso di un'utopia di concordia che a ben guardare sembra quasi raggiungibile, persino a portata di mano. Ma c'è soprattutto il grande narratore capace di tenerti incollata alla pagina a provare a fare i conti con una realtà tanto più imperscrutabile di come sembra e per questo magnetica. C'è una sapienza unica nel costruire personaggi che dicono e tacciono sempre il giusto, che si svelano e nascondono in un continuo rimpiattino emotivo, l'uno con l'altro, con se stessi, mentre chi legge sta con gli occhi fissi sulla pagina in cerca di qualcosa che prima non esisteva e che a un certo punto della storia viene fuori come un'invenzione, come una certezza. Perché è proprio questo che fanno, gli scrittori davvero grandi: creare mondi.
Per inviare la propria opinione allaStampa, telefonare 011/ 65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante