Una logica tanto semplice quanto criminale: niente Israele, fine dei problemi
Analisi di Clifford D. May, da Israele.net
A destra: dietro la maschera dell'antisionismo, ecco l'antisemitismo
Clifford D. May
“La morte risolve tutti i problemi – si narra che abbia detto Stalin – Niente uomini, niente problemi” [in realtà è una citazione apocrifa riportata dal romanziere Anatoly Rybakov ndr]. Oggi un numero significativo di persone influenti sta applicando questa logica al conflitto israelo-palestinese. La formulazione è tanto semplice, quanto efficace e criminale: “Niente Israele, niente più problemi”. I governanti iraniani proclamano apertamente le loro intenzioni genocide. “Non arretreremo di fronte all’annientamento di Israele, nemmeno di un millimetro”, ha promesso il generale Abolfazl Shekarchi, portavoce delle forze armate del regime. Hezbollah e Jihad Islamica Palestinese, i tirapiedi di Teheran, hanno lo stesso obiettivo, così come Hamas, l’organizzazione terroristica che controlla la striscia Gaza (anch’essa generosamente sostenuta dal regime islamista). Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Palestinese che governa in Cisgiordania, è più guardingo. Non invoca direttamente l’uccisione degli ebrei israeliani, ma elargisce ricompense economiche ai terroristi palestinesi che uccidono ebrei israeliani, e vitalizi alle loro famiglie. Fatima Mousa Mohammed, la dottoranda chiamata il mese scorso a tenere il discorso ufficiale alla cerimonia delle lauree in giurisprudenza della City University di New York, ha coperto Israele di calunnie per poi esortare alla “lotta contro il capitalismo, il razzismo, l’imperialismo e il sionismo in tutto il mondo”. Sui social network aveva auspicato che “ogni sionista bruci nella fossa più rovente dell’inferno”. Tanto per essere chiari: prima della costituzione di Israele nel 1948, sionista era chi sosteneva il diritto all’autodeterminazione degli ebrei in una parte della loro patria storica. Dopo il 1948, sionista è chi difende il diritto di Israele a continuare ad esistere. L’anti-sionismo è ormai diffuso nei campus americani. La signora Mohammed lo esprime in modo rozzo. Altri usano un linguaggio più erudito. Ad esempio, quattro affermati professori – Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami – hanno pubblicato un saggio sul numero di maggio/giugno di Foreign Affairs, la prestigiosa rivista del Council on Foreign Relations. La tesi del saggio è stata ben sintetizzata da Elliott Abrams, senior fellow di Studi Mediorientali presso il Council on Foreign Relations di Washington, con queste parole: “Mentre Israele compie 75 anni, Foreign Affairs pubblica un appello per eliminarlo”. Per raggiungere questo obiettivo, i quattro professori vorrebbero che gli Stati Uniti esercitassero forti pressioni su Israele affinché concedesse la cittadinanza a tutti gli arabi palestinesi di Gaza e Cisgiordania. In questo modo gli ebrei diventerebbero una minoranza all’interno di Israele, costretti verosimilmente a vivere sotto il dominio di Hamas o dell’Autorità Palestinese. Cosa ne sarebbe di loro a quel punto? La questione non sembra minimamente interessare gli autori del saggio. Circa il 20% dei cittadini israeliani sono arabi. Un recente sondaggio dell’Israel Democracy Institute ha rilevato che il 77% di loro “si sente parte di Israele e ne condivide i problemi”. Quella percentuale è andata aumentando negli ultimi anni. Israele ha realizzato la piena eguaglianza per tutte le sue minoranze? No. Ma quale paese l’ha mai realizzata? Gli arabi israeliani godono di più diritti e libertà delle minoranze non arabe e non musulmane (ed anche delle maggioranze arabe e musulmane) di ognuno degli oltre 20 stati che si definiscono arabi e degli oltre 50 che si definiscono musulmani. Gli arabi israeliani sono medici, infermieri, avvocati, giudici, agenti di polizia, imprenditori, politici. Alcuni prestano servizio volontario nell’esercito israeliano. Questi dati di fatto dovrebbero bastare per chiarire come mai l’accusa a Israele di essere uno “stato di apartheid” è semplicemente ridicola. Ma bisogna tenere conto di un commento fatto da Mohammed El-Kurd, corrispondente della rivista The Nation nonché una delle “100 persone più influenti al mondo” secondo la rivista Time. Durante l’ultima Settimana degli Scrittori di Adelaide, ha ammesso che lui definisce Israele “apartheid” non perché ritenga che il termine sia esatto, ma perché gli serve per imprimere “uno slittamento culturale nel modo in cui le persone approcciano e parlano della Palestina … Finché è in atto un discorso in cui il cattivo è chiaramente raffigurato, penso che vada bene”. Forse per questo stesso motivo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il Consiglio Onu per i diritti umani condannano Israele più di tutti gli altri paesi messi insieme, mentre i regimi che minacciano gli israeliani di genocidio non vengono né denunciati né sanzionati. Al contrario, la settimana scorsa i membri dell’Onu hanno eletto per acclamazione la Repubblica Islamica d’Iran come vicepresidente della 78esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nonché a una posizione di leadership nella Commissione dell’Assemblea Generale per il disarmo e la sicurezza internazionale. Gran bella vittoria per un regime che persegue un programma illegale di armi nucleari, esporta terrorismo, semina devastazione nei suoi vicini mediorientali e opprime ferocemente la sua stessa popolazione. Sorgono spontanee alcune domande. Perché gli autoproclamati campioni della “causa palestinese” non fanno alcuna pressione su Hamas e Autorità Palestinese affinché garantiscano più diritti e libertà ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania? Perché ignorano il fatto che, se cessassero gli attacchi missilistici e gli attentati terroristi da Gaza e Cisgiordania, cesserebbero anche i contrattacchi da Israele? Perché non criticano mai i capi palestinesi per aver rifiutato le proposte di soluzione a due stati del 1937, 1947, 2000, 2001 e 2008, né ricordano che i capi palestinesi continuano a rifiutare anche solo l’ipotesi che uno stato palestinese (che ovviamente si definirebbe arabo e musulmano) possa coesistere accanto a uno stato che si definisce ebraico, anziché sostituire e cancellare lo stato ebraico? “Non vogliamo il ramoscello d’ulivo – ha dichiarato di recente un portavoce dell’ala militare di Fatah, la fazione più importante all’interno dell’Autorità Palestinese – Vogliamo il fucile per combattere il nemico di Allah e nostro nemico”. Pensate che costui poserebbe il fucile se gli israeliani si ritirassero dalla Cisgiordania (presa alla Giordania dopo che la Giordania aveva attaccato Israele nel 1967)? La maggior parte degli israeliani non lo pensa, giacché nel 2005 si sono ritirati dalla striscia di Gaza (presa all’Egitto in quella stessa guerra difensiva) nella speranza di favorire un processo di pace, e conoscono fin troppo bene i risultati disastrosi di quell’esperimento. Nel XX secolo coloro che cercavano di eliminare gli ebrei si definivano antisemiti. Nel XXI secolo coloro che cercano di eliminare lo stato ebraico si definiscono “paladini della giustizia sociale”, ricercatori e operatori di pace. Ma sono definizioni che non possono più essere prese sul serio.
(Da: Israel HaYom, 7.6.23)