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La Stampa Rassegna Stampa
05.03.2023 Putin peggio dei nazisti
Commento di Monica Perosino

Testata: La Stampa
Data: 05 marzo 2023
Pagina: 19
Autore: Monica Perosino
Titolo: «La resistenza delle babushke»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/03/2023, a pag.19 con il titolo "La resistenza delle babushke" la cronaca di Monica Perosino.

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Monica Perosino

Putin is Hitler': why we use analogies to talk about the Ukraine war, and  how they can lead to peace

Il cervello impiega qualche secondo per elaborare le immagini di un mondo che non esiste più. Bohorodychne, piccolo paese di contadini circondato da campi e colline sporcate di neve, è quanto più vicino possa esserci alla definizione di apocalisse. Non una casa, un muro, una strada, un ponte è rimasto intatto. Gli alberi sono stati decapitati dai proiettili, i tetti sfondati dai mortai, le finestre divelte, i pali della luce giacciono a terra. La cupola dorata della chiesa è precipitata e ora brilla sinistra sul sagrato. Sulle lamiere ritorte delle automobili distrutte capeggiano enormi Z. Per strada non c'è nessuno. Ma qualcuno, in quello che era un paese di contadini dell'oblast di Donetsk, deve esserci ancora, visto che di fronte a quello che era un negozio di alimentari si scorgono mucchietti di croccantini per cani. È opera di Baba Nina, 91 anni, l'ultima abitante rimasta a Bohorodychne. A parte lei è il figlio sessantenne tutti gli abitanti del paese fantasma sono fuggiti o sono morti. I suoi vicini di casa sono stati uccisi a sangue freddo quando si sono rifiutati di lasciare agli occupanti russi la loro casa, quelli che abitavano in fondo alla strada sono stati schiacciati da un tank quando, in auto, cercavano di fuggire. Nina parla poco, piange molto. Il fronte di questa guerra trasformata presto in guerra di logoramento e terrore si estende per 1.300 chilometri, dalle steppe erbose del Nord-Est fino al Mar Nero. Su questa infinita linea di contatto che da settembre non si muove che di pochi metri e poche battaglie feroci, vivono centinaia di civili imprigionati dalla paura, dalla povertà, e dal fatto che, semplicemente, non sanno dove andare. A essere rimaste sono soprattutto le babushke, le donne anziane dei villaggi e delle città schiacciati dai combattimenti: «Abbiamo paura da un anno. Sono dei terroristi. Perché, perché, perché tutto questo?», dice Ludmila, 72 anni, seduta su una panchina nel freddo pungente di Lyman. «Perché?» è la domanda che risuona più spesso tra le donne che resistono nell'estenuante attesa dell'unica cosa che importa davvero, «la pace», dice quasi urlando Ludmila, all'unisono con l'amica Galina, 86 anni, seduta accanto a lei. Erano su questa stessa panchina quando sono arrivati i russi, e sono state trovate così dall'esercito ucraino quando hanno liberato il paese. «Questa è la nostra panchina, questa è la nostra casa, questa è la nostra vita - dice Galina -. I russi facciano quello che vogliono, io non mi muovo da qui». «Dicono che siamo liberi, ma come si fa a essere liberi con questo», aggiunge Ludmila, mentre con un dito indica il cielo che non ha smesso di rimbombare per i colpi. Galina, abbassa la voce e svela un segreto: «Anche ora, di notte, andiamo a dormire in cantina, abbiamo paura delle bombe». Ogni famiglia ha un caduto. Molte babushke sono rimaste sole, spesso perché non c'è stato verso di convincerle a lasciare le loro case. Più a Sud, nell'ultimo villaggio prima di Kreminna, dove infuria una battaglia durissima, Baba Tamara, detta Tama, 78 anni, caccia i corvi che si agitano accanto a un cumulo di terra: «Vedete, sono grassi», dice con l'espressione disgustata. Poi racconta di averli visti mangiare i corpi dei soldati caduti, e che non potrà mai più dimenticare: «La vita nel Donbass è dura, lo è sempre stata, ma non credevo che qui avrei visto la fine dell'umanità». Anche Tama non ha abbandonato la sua casa, né intende farlo ora che i combattimenti si avvicinano ora dopo ora: «Dove dovrei andare, a Ovest? In Polonia? E poi? Non ho neanche i soldi per il viaggio, e se anche ne avessi, la mia vita è qui, è questa e c'è una cosa che so per certo, che voglio morire nella mia casa, anche se non ha più il tetto». Nell'area della linea zero le babushke si sono organizzate: chi ha cipolle le scambia con le mele, chi ha la forza per fare legna la regala in cambio di uova. Quando arrivano gli aiuti umanitari vengono spartiti in modo più o meno equo. Baba Alexandra, 86 anni, ha convinto la figlia a lasciarla a casa sua, mentre quel che resta della famiglia si è rifugiata dai parenti cento chilometri più a Ovest. Tutte le case accanto alla sua sono state rase al suolo. Guarda oltre la finestra, che non ha più vetri, ma teli di nylon. Sorride, perché dice che tanto non ci vedrebbe neanche con un cristallo: «Sono vecchissima, ormai mio marito buonanima mi sta chiamando dal cimitero. Forse quando tornerete non ci sarò più, ma intendo vivere fino alla vittoria». Baba Alexandra si perde a raccontare del marito morto cinque anni prima, «sessant'anni di litigate tremende», poi chiama un cagnetto storto al suo fianco: «Questi rushisti sono peggio dei nazisti, e io i nazisti li ho visti bene, me lo ricordo come fosse oggi, e in confronto a questi erano degli agnellini». Quando il suo villaggio è stato occupato le donne si sono date da fare per seppellire i morti nei cortili delle case: «Almeno, abbiamo pensato, se qualcuno li cerca sa dove trovarli». Ora, uno dopo l'altro, vengono esumati e trasferiti al cimitero: «Sa, con la vecchiaia capirete cosa significhi la parola casa, che non è solo quattro mura di mattoni e un tetto. E capirete perché siamo così ostinate a non lasciarla». Alexandra ammette di avere paura, di piangere molto, di dormire poco, «con tutto questo frastuono». La casa del nipote, della figlia, degli zii e della sua amica di cui «al momento non ricordo il nome», è esplosa sotto i suoi occhi. Molti sono rimasti sotto le macerie. «La vita è anche questa». Anche sul fronte che si estende verso Khurakhove, sono ancora le babushke a resistere imperterrite. Per chi ha sempre vissuto nel Donbass, andare a Occidente significa affrontare un mondo percepito come ostile. Sono ancora decine di migliaia i civili bloccati sulla linea del fronte. Spesso chi rimane ha problemi di salute, di disabilità o economici: «Si fa presto a dire scappa, ma ammesso che si abbiano i soldi per il viaggio, una volta arrivati saremmo costretti presto a tornare indietro perché non si vive d'aria. Tanto vale rimanere», dice una donna che sta portando a fatica due ceste piene di ortaggi. Una bomba le ha portato via la mano destra e la figlia disabile. Nell'aia dove un tempo teneva polli e galline ha allestito un fuoco su cui sbuffa un pentolone di alluminio: «È minestra calda per i nostri difensori – dice sollevando il coperchio -. Mangiano quelle porcherie liofilizzate, ma hanno bisogno anche di questo». Tatiana, 78 anni, dice che nel caso «arrivassero» ha preparato delle sorprese per gli invasori nella sua cantina. Non vuole dire quali siano queste «sorprese», perché ha paura che i russi le bombardino la casa prima. «Mi hanno portato via quello che avevo di più caro – dice, guardando una finestra chiusa alle sue spalle, la camera della figlia -. Ora non porteranno via anche me da qui».

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