Riprendiamo da BET Magazine-Mosaico, febbraio 2023, a pag. 11, con il titolo "Israele-Diaspora, un legame indissolubile, nonostante le differenze" l'analisi di Ilaria Myr.
Ilaria Myr
“One people, one destiny”, un popolo un destino: era questo il titolo della quinta edizione del Jewish Media Summit, organizzato dall’ufficio stampa del governo israeliano (GPO) per i giornalisti dei media ebraici di tutto il mondo, che si è tenuto dal 19 al 22 dicembre a Gerusalemme, a cui ho avuto il piacere di partecipare per Bet Magazine-Mosaico. Un’occasione preziosa e unica per incontrare colleghi da tutto il mondo – più di 100 persone provenienti da 25 Paesi -, con cui scambiare opinioni, esperienze e informazioni sulle proprie comunità. Ma anche un’opportunità irripetibile per conoscere da dentro molti aspetti della società israeliana difficili da intercettare ‘da fuori’, come, ad esempio, visitare una base militare nel sud con un generale dell’esercito, e andare in un kibbutz al confine con Gaza. Soprattutto, un momento importante per riflettere sui rapporti fra Diaspora ed Eretz Israel, rapporti non sempre facili e scontati. «Gli israeliani non sanno cosa vuol dire essere Diaspora e non conoscono il contributo che la Diaspora ha dato e continua a dare allo Stato di Israele. Abbiamo un comune denominatore, che è l’identità ebraica, non dobbiamo dimenticarlo», ha detto l’allora Ministro della Diaspora Nachman Shay alla serata di Gala di apertura tenutasi al David Citadel Hotel. All’evento di apertura è intervenuto anche l’ex Ministro degli esteri Benny Gantz, che ha sottolineato come «la Storia ci ha dimostrato che affrontiamo ogni minaccia solo se saremo uniti….». Sullo sfondo, un elemento centrale e fortemente divisivo fra gli stessi giornalisti presenti al Summit: ovvero il risultato delle ultime elezioni che hanno portato al potere la coalizione del Likud di Netanyahu con i gruppi del sionismo religioso e di estrema destra, dando vita al governo più a destra della storia di Israele. Nonostante le nomine fossero, in quei giorni, ancora in fase di definizione, le dichiarazioni di intenti dei partiti eletti avevano già diviso l’opinione pubblica israeliana, così come quella ebraica fuori da Israele: e fra i giornalisti accorsi al Summit questo era ben evidente. Fra gli argomenti più ‘caldi’ e discussi in questi tre giorni: lo stravolgimento del potere giudiziario, che diventa dipendente da quello legislativo, l’eliminazione delle materie non religiose dalle scuole ortodosse e la volontà di modificare l’insegnamento delle materie ebraiche anche nelle scuole laiche, nonché la revisione della legge del ritorno in chiave più restrittiva, che rimette in discussione la grande questione di chi può essere considerato ebreo (fino a oggi ha diritto alla legge del ritorno chi ha almeno un nonno ebreo). Impossibile rendere conto di tutte le attività e gli incontri a cui ho partecipato nelle tre intensissime e interessanti giornate: qui vi proponiamo una sintesi di quelli che più mi hanno coinvolto.
Dentro la politica interna ed estera
La prima mattina di attività del Jewish Media Summit 2022, ospitata all’interno del Ministero degli esteri, è stata dedicata a conoscere più da vicino lo scenario politico e alcune delle questioni ‘calde’ che interessano Israele. Divisi in gruppi, noi giornalisti abbiamo potuto confrontarci con esperti su diversi temi: i rapporti con la Diaspora, l’antisemitismo fuori da Israele e il pericolo di un accordo per il nucleare con l’Iran. In seduta plenaria, abbiamo poi ascoltato gli interessanti interventi di alcuni rappresentanti dello Stato di Israele coinvolti direttamente negli Accordi di Abramo, che hanno portato all’apertura delle relazioni con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, e nello sviluppo delle relazioni con questi Stati. Lior Haiat, portavoce del Ministero degli Esteri, ha raccontato l’emozione di essere stato il primo diplomatico israeliano a entrare ad Abu Dhabi, mentre Ido Moed, del Ministero degli esteri, ha ricordato la commozione del cantare l’Hatikva, l’inno nazionale, negli Emirati Arabi Uniti. Shifra Weiss, portavoce all’ambasciata israeliana ad Abu Dhabi, ha testimoniato la sensazione di “essere finalmente accettati negli Emirati” (impensabile solo fino a qualche anno fa), mentre Uri Rothman, della divisione Medio Oriente e processo di pace del Ministero degli Affari Esteri, ha spiegato come gli Accordi di Abramo, rendendo possibile il passaggio delle merci da Dubai, abbiano enormemente facilitato per Israele le attività di importazione ed esportazione da e per l’Estremo Oriente. Inoltre, sono stati ricordati gli ottimi rapporti con il Marocco, che proprio negli ultimi anni si stanno rafforzando.
Knesset, cuore decisionale di Israele
Nel pomeriggio abbiamo visitato la Knesset, la sede del parlamento israeliano. Interessante è stato capire come sono disposti i 120 seggi al suo interno – a forma di menorà – e come interagiscono fra loro i deputati. Bellissimo anche vedere le opere realizzate all’interno dell’edificio da Marc Chagall: mosaici e splendidi arazzi creati ad hoc dall’artista. Illuminante è stato poi l’incontro con quattro rappresentanti di forze politiche diverse – Yuli Edelstein (Likud, partito al governo), Sharren Heskel (Mahane Mamlachti, opposizione), Gilad Kariv (Avodà, opposizione) e Yitzak Pindrus (Agudat Israel, governo) – con opinioni e visioni ovviamente differenti. Su un’eventuale modifica delle Legge del ritorno, ad esempio, Edelstein del Likud si è detto preoccupato che avvenga e che molti nuovi membri della coalizione al governo – guidato dal suo stesso partito – non capiscano a pieno l’importanza dei rapporti con gli ebrei nella Diaspora. Mentre per Heskel una trasformazione di questa legge che riguarda direttamente gli ebrei della diaspora non può essere presa in maniera unilaterale, ma discussa e concordata con il mondo ebraico fuori da Israele. Sulla questione della Corte Suprema e del potere legislativo si è espresso Yitzhak Pindrus di Agudat Israel (che non ha voluto entrare nella sala fino a quando non fosse uscito il deputato di Avodà Gilad Kariv), sollecitato anche da alcuni dei giornalisti, perplessi dalle intenzioni del nuovo governo e preoccupati per il carattere democratico di Israele. «La relazione fra la religione e lo Stato è sempre stata basata su accordi tra le parti – ha spiegato -, bloccati però dalla Corte Suprema in quanto non sono atti legislativi. Questo funzionamento anomalo del sistema israeliano fa sì che i valori religiosi e tradizionali non vengano considerati nelle decisioni politiche».
SICUREZZA: AL CONFINE CON GAZA
«Dalla guerra ci si porta tutto dietro, e non si dimentica mai; rimane sulle tue spalle e nella tua anima per il resto della tua vita». Sono parole forti quelle che il generale brigadiere Bentzi Gruber, Vice Comandante della Divisione 252 (20.000 soldati, 95% dei quali riservisti) dell’esercito israeliano ci ha rivolto in occasione della visita alla base militare di Tzeelim, nel sud di Israele, vicino ai confini con Gaza, durante il secondo giorno del Summit, a cui ha partecipato metà del gruppo dei giornalisti (l’altra metà ha visitato il Shimon Peres Center, il museo Anu e la redazione di i24news). Una giornata molto istruttiva e intensa, in cui abbiamo potuto vedere luoghi altrimenti inaccessibili e parlare con personaggi illuminanti. Nella base militare, Gruber ci ha mostrato la zona di addestramento in cui è ricreata una città palestinese modello, che potrebbe essere a Gaza così come in Libano o in altre località, e in cui l’esercito si potrebbe trovare a combattere: tutto è curato nei minimi dettagli: case, minareti, murales inneggianti alla Palestina libera e allo sceicco Yassin, con anche dei tunnel sotterranei che abbiamo potuto attraversare, per toccare davvero con mano qual è il contesto in cui operano le truppe. «I soldati si ritrovano anche dover passare due settimane all’interno di un carro armato senza potere uscire, con una temperatura di 35 gradi – ci ha spiegato mostrandoci i costosi carri armati (100.000 dollari l’uno) che vengono utilizzati nelle operazioni -. I missili? Sulla base militare ne cadono pochissimi, a dimostrazione che l’obiettivo dei terroristi non è colpire target militari ma civili, nelle città di frontiera». Interessante la conferenza sul codice etico dell’esercito, uno dei più rigorosi al mondo. «Quando si è in dubbio non c’è dubbio: non si spara – ci ha detto -. Il soldato non deve impiegare le sue armi e il suo potere per danneggiare i non combattenti o prigionieri di guerra, e farà tutto il possibile per evitare di nuocere alla loro vita, corpo, onore e proprietà». Come ci ha detto Gruber, lo sforzo principale della base militare è difendere gli abitanti israeliani che abitano ai confini con Gaza. Ed è proprio in un kibbutz a 2 km dalla frontiera, il kibbutz Nirim, dove ci siamo poi recati, che abbiamo potuto ascoltare che cosa significhi vivere con l’incubo dei missili che possono distruggerti la casa. «Qui abbiamo dagli zero ai dieci secondi per nasconderci nelle stanze di sicurezza quando piovono i missili», ci ha raccontato Adele Raemer, abitante di Nirim dagli anni Settanta dove all’epoca si è trasferita dagli Usa, quando ancora si poteva andare a Gaza e alcuni israeliani ci vivevano pure. La situazione è precipitata dal 2000, con l’ascesa di Hamas al potere: da allora è iniziato il lancio di missili e di tentativi di infiltrazione nel territorio israeliano attraverso tunnel, che hanno portato in alcuni casi l’esercito a intervenire. «Solo nel 2011 le case sono state dotate di camere di sicurezza dove nascondersi, mentre l’Iron Dome copre la nostra zona solo da tre anni – ci ha spiegato davanti alla barriera metallica del kibbutz, da cui si vedevano, in lontananza, i minareti di una moschea di Gaza -. Nel 2014, durante l’Operazione Scudo Protettivo, sono caduti qui più di 50 missili, e sono morti due membri del kibbutz colpiti da un mortaio. C’era anche un tunnel a 600 metri da qui, e 35 in tutta la zona circostante. Dal 2018, poi, arrivano palloncini e aquiloni incendiari, che hanno bruciato enormi riserve naturali della stessa misura e vastità di Manhattan, per farvi capire». È dunque una vita difficile quella alla frontiera, che Raemer racconta sulla pagina Facebook Life in the Border with Gaza, e per questo rimango sbalordita e affascinata dalla sua profonda fede nella pace e nella necessità di trovare un accordo con gli abitanti di Gaza. «La gente di Gaza non è mio nemico – ci dice, spiegandoci che ha molti amici che ci vivono, che la pensano esattamante come lei -: è Hamas il mio nemico, e anche il loro, che rischiano di essere incarcerati o anche uccisi da Hamas ogni volta che vogliono manifestare la propria opinione. Non abbiamo scelta che fare la pace».
Isaac Herzog: “La democrazia è forte”
Dell’importanza dello spirito democratico di Israele e dell’unità del popolo ebraico ha anche parlato il Presidente israeliano Isaac Herzog durante la terza e ultima giornata dell’evento. «Siamo un popolo, unito da una storia condivisa e da un’eredità e un destino condivisi. Qui in Israele, riconosciamo i nostri fratelli, le nostre sorelle e fratelli in tutto il mondo, come famiglia e partner. Quando necessario, gli ebrei di tutto il mondo si uniscono per difendere e sostenere Israele combattendo i suoi odiatori e detrattori, combattendo il BDS, nei confronti dei governi stranieri, nei media, nei campus universitari e altrove». Nel suo discorso, Herzog ha menzionato l’impegno di Israele di fronte ai «venti del crescente antisemitismo che si diffondono in tutto il mondo: Israele deve anche guidare la lotta globale contro di esso e proteggere, difendere e sostenere le comunità ebraiche e la vita ebraica ovunque nel mondo. Ma dobbiamo essere qualcosa di più della semplice difesa contro queste minacce molto reali». Insomma è importante mantenere un dialogo costante e rispettoso fra Israele e la Diaspora, e il ruolo dei giornalisti in questo è centrale. Soprattutto, le divisioni e le divergenze non devono trasformarsi in fratture che lacerano l’unità del popolo ebraico. A tal proposito, Herzog ha fatto riferimento all’esito delle ultime elezioni in Israele, che ha «sollevato molte domande reali da persone di tutto il mondo e, naturalmente, dalle comunità ebraiche diasporiche. Sento queste preoccupazioni e le capisco. E vorrei rassicurarvi che la democrazia israeliana è vibrante e forte. Le molte voci che ci compongono non indicano la debolezza della nostra democrazia, ma la sua forza. Stato di diritto, libertà di parola, diritti umani e civili: questi sono sempre stati e saranno sempre i pilastri del nostro stato ebraico e democratico». Infine, un appello ai giornalisti: «conto su di voi per dare voce a un’ampia varietà di prospettive su Israele. Abbiamo forti dibattiti nella nostra società, nel nostro parlamento, nella nostra arena pubblica, e questa è esattamente la storia della democrazia israeliana».
Viaggio dentro Shtisel
Israele non è però solo politica, ed è per questo che è stato particolarmente apprezzato da tutti noi l’intervento di Neta Riskin, l’attrice che ha impersonato Ghiti nella famosa serie israeliana Shtisel su una famiglia ortodossa a Gerusalemme. La bella e brava interprete ci ha regalato alcuni aneddoti e retroscena interessanti e curiosi della serie, che ha appassionato a livello internazionale persone di tutte le etnie e religioni (me compresa). «Inzialmente non volevo neanche leggere la sceneggiatura, perchè vengo da un mondo completamente non religioso, e mi dicevo “che c’entro io? Nulla” – ha spiegato -. Ma quando poi l’ho letto, mi sono detta: è lo script più bello che abbia mai letto. È una serie su una famiglia ortodossa, che però con la religione non ha niente a che fare: è invece una fiction sulle persone, sugli esseri umani e le loro vite, aspetti universali». Una volta accettato, l’attrice ha dovuto imparare a diventare Ghiti, una donna completamente diversa da lei, e per fare questo le è stata affidata una coach. «La prima volta mi ha chiesto di camminare da un punto all’altro della stanza – ha continuato – e quando, perplessa, sono tornata, mi ha detto: “Esisti troppo, devi minimizzare te stessa. E l’unica risposta che devi dare a qualsiasi cosa ti chiedano è Baruch hashem (grazie a Dio)». Come è normale che sia, fare una serie su una famiglia ortodossa implicava molte restrizioni – non toccarsi, muoversi in un certo modo – e per farcelo capire l’attrice ha mostrato il pezzo della serie in cui Ghiti partorisce e Lippe, non potendole stare vicino, deve mostrarle il suo amore da un’altra stanza. Ma come mai Shtisel ha avuto così tanto successo, anche internazionale? «Quando abbiamo iniziato era un piccolo show – ha spiegato -. Non avevamo neanche chi ci facesse le pubbliche relazioni! Le persone hanno però iniziato a guardarlo, anche nel mondo ortodosso, e a parlarne fra loro. Perché ha raggiunto tanta popolarità al di fuori di Israele e del mondo ebraico? Forse perché siamo riusciti ad attraversare un ponte invalicabile e a coinvolgere diverse anime. Ma soprattutto perché parla di valori universali da un punto di vista molto specifico, appunto quello haredì». Salutandola, una domanda aleggiava nell’aria: ci sarà una quarta stagione? La risposta è stata evasiva: “non penso”. Ma, come si dice, la speranza è l’ultima a morire.
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