Shoah e triangoli colorati Commento di Elena Loewenthal
Testata: La Stampa Data: 26 gennaio 2023 Pagina: 25 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «Il triangolo rosa nei lager simbolo della nostra vergogna collettiva»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/01/2023, a pag.25, con il titolo 'Il triangolo rosa nei lager simbolo della nostra vergogna collettiva', l'analisi di Elena Loewenthal.
Appuntamento oggi 26 giovedì alle 18,30 al Circolo dei Lettori, con Elena Loewenthal, Luca Beatrice, Angelo Pezzana, Anna Cuculo, Maurizio Gelatti
Elena Loewenthal
«La gente già da anni dice "basta con questi ebrei, è una cosa noiosa, la sappiamo, basta parlarne…": la gente è stanca di sentir parlare di ebrei deportati. Parole di Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, che ha il dono speciale di non sbagliare mai e poi mai neanche una parola, che le parole sa metterle in fila sempre nell'ordine giusto e necessario. Parole dure, fors'anche scioccanti, ma così vere e così doverose. Parole che vanno dritte al punto: malgrado da molti anni, ormai, il Giorno della Memoria sia un'occasione comune per parlare degli ebrei, per celebrarne il ricordo e immaginare con questo rituale collettivo e condiviso una sorta di risarcimento per il dolore e i milioni di vittime, in realtà questa ricorrenza riguarda tutti, meno che il popolo ebraico. Nella storia dello sterminio nazifascista, infatti, gli ebrei sono gli assenti per antonomasia, destinati a sparire dalla faccia della Terra. Sono muto carburante per i forni crematori. Non hanno voce. Quella storia appartiene invece alla Germania, all'Italia, a tutta l'Europa. Non la si può rinnegare né attribuire «solamente» ai milioni di persone sterminate nei campi, nelle fosse comuni, nelle marce della morte: tenere viva la memoria di quell'inenarrabile capitolo del Novecento significa irrimediabilmente farlo proprio. Parlare di sé, e non degli ebrei. Per questo le parole di Liliana Segre, per quanto spiazzanti, sono un richiamo fondamentale. A tutti noi. A questo strano presente in cui si celebra la memoria su tutti i fronti – la quantità di uscite editoriali per il Giorno della Memoria è pari a quella delle strenne natalizie, ogni anno si annunciano scoperte di nuovi documenti e testimonianze inedite, come se dire e raccontare qualcosa di nuovo mettesse il pubblico al riparo da quella noia di cui lei parla – eppure la senatrice deve muoversi sempre con una nutrita scorta che veglia sulla sua incolumità di novantenne ex perseguitata. Appropriarsi di quella memoria, smettere di percepire il Giorno della Memoria come un momento di «semplice» partecipazione, come un distaccato per quanto solenne atto di omaggio alle vittime, significa riconoscere tanto l'inconcepibile assurdità quanto la portata universale della Shoah. Il progetto nazifascista prevedeva infatti la costruzione di una società uniforme. Senza «devianze», senza differenze. Lo sterminio degli ebrei era la prima fase del progetto, parte di un'idea mostruosa di mondo. L'unicità della Shoah è, si perdoni il bisticcio, duplice: da una parte la volontà di sterminare un popolo intero in quanto tale, farlo sparire dalla faccia della Terra. Dall'altra il folle desiderio di costruire un'umanità a immagine della propria follia, tutta uguale a se stessi, annientando ogni «sbavatura». Distruzione e costruzione. Il triangolo rosa, uno dei tanti «marchi» cuciti sulle lacere divise nei campi di concentramento, era assegnato ai detenuti accusati di omosessualità. Migliaia di persone lo hanno portato, nei campi e nelle carceri naziste; molte di loro avevano anche il marchio giallo dell'appartenenza al popolo da cancellare. Il triangolo rosa era concepito come stigma di appartenenza a una comunità considerata spregevole e al tempo stesso come un avvertimento sociale: quell'orientamento sessuale «sbagliato» era pericoloso per contatto, imponeva l'isolamento e una diffidenza che avrebbe dovuto accomunare i carnefici e le altre vittime, quelle che portavano triangoli di colore diverso. Ma la vita, a volte, è più forte della morte e all'indomani della fine di quell'orrore il triangolo rosa divenne il simbolo della lotta per la liberazione omosessuale. L'emarginazione, e talvolta la persecuzione, degli omosessuali non è certo un'esclusiva del nazifascismo; e porta inoltre con sé una vasta gamma di sentimenti e percezioni: diffidenza, paura, odio. Non è difficile intravedere in tutto ciò tratti comuni a quello che è stato per millenni e ovunque il destino del popolo ebraico: minoranza visibile e irriducibile, specchio di tutto ciò che il resto del mondo non voleva riconoscere, né essere. Ma la generalizzazione non serve per capire e nemmeno per incastonare nella nostra memoria collettiva: ogni storia è un destino a sé. L'enormità della tirannia nazifascista e della Shoah sta proprio nell'aver fatto di tutt'erba umana un fascio da bruciare, di cui sbarazzarsi: fede, tratti somatici, orientamento sessuale, patologie fisiche e mentali. Tanto bastava per gettare nel mucchio di chi non era degno di vivere. Ricordare i triangoli rosa e ripensare a quel dramma non significa rifugiarsi in una «nicchia» dell'orrore né viziare il Giorno della Memoria confondendo il centro con il margine. Significa invece porre l'attenzione sulla natura stessa dello sterminio, su quell'aberrante obiettivo di una società «perfettamente» uniforme che fu al centro della storia europea per molti, dannati anni. La Shoah era sotto gli occhi di tutti: inutile negare quest'evidenza, oggi come allora. Essa era, è e resta di tutti. Non è una storia degli ebrei, né degli omosessuali, né di ognuna di quelle altre categorie sociali e umane finite nel mirino del nazifascismo. È, prima ancora, un passato che ci appartiene, a cui apparteniamo. Che cosa vuol dire appartenere a quel passato? Semplicemente riconoscere che il passato ci riguarda, che si può e si deve conoscere non necessariamente per essere migliori, ma prima ancora per sapere chi siamo. Questo è stata l'Europa in quegli anni. E se fossimo stati lì, dentro quella storia, saremmo stati protagonisti, vittime, testimoni, taciti complici come tutti furono allora, in quegli anni. Solo riconoscendo come proprio il passato, senza rinnegarlo o assegnarlo «comodamente» ad altri – ebrei, omosessuali, rom, malati mentali… – si dà un senso alla memoria, si fa in modo che sia, se non una lezione morale, se non un monito a che non accada più (come diceva Primo Levi, il fatto che sia successo moltiplica e non azzera la possibilità che accada di nuovo), un tassello della nostra identità. E si trova l'onestà per ammettere che la memoria non è di per sé edificante né etica. È parte di quello che siamo, nel bene e nel male.
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