Cina, tamponi in aeroporto indispensabili Analisi di Federico Rampini
Testata: Corriere della Sera Data: 31 dicembre 2022 Pagina: 1 Autore: Federico Rampini Titolo: «L’opacità cinese, di nuovo»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 31/12/2022, a pag.11-5, con il titolo "L’opacità cinese, di nuovo" l'analisi di Federico Rampini.
Federico Rampini
Abbiamo il diritto di chiedere al regime di Pechino molto più dei tamponi Covid imposti ai suoi viaggiatori in arrivo. Questa pandemia nacque in Cina sul finire del 2019. Colse il resto del mondo impreparato anche perché le autorità della Repubblica Popolare per mesi mentirono, dissimularono, insabbiarono. Non fu tanto un’operazione deliberata e pianificata dall’alto di disinformazione, quanto il riflesso automatico dei regimi autoritari che tendono a censurare le cattive notizie che li riguardano; problema aggravato dalla tendenza delle nomenclature periferiche (Wuhan) a nascondere a loro volta i fatti sgradevoli ai vertici supremi di Pechino. Non è un caso se i Paesi più efficaci nel contenere la pandemia furono quelli vicini alla Repubblica Popolare (Corea del Sud, Taiwan, Giappone, Singapore) e come tali «allenati» a non fidarsi delle versioni ufficiali del loro grande vicino. Quei Paesi avevano ricevuto un doloroso addestramento nel 2003 con l’epidemia della Sars, perciò arrivarono al test del 2020 più vigili di noi. Tra le ingenuità occidentali va pur menzionato che quando Donald Trump decise di bloccare gli arrivi dalla Cina, l’allora candidato Joe Biden lo accusò di «xenofobia», salvo cambiare parere qualche mese dopo. È uno di quei dettagli imbarazzanti che oggi pochi hanno l’onestà di ricordare. Sembra fare il paio con una reazione da Bruxelles che in questi giorni ha definito non necessari i tamponi per i viaggiatori dalla Cina. La stessa nazione che contagiò il mondo a partire dal primo focolaio del 2019-2020, ora rischia il bis con la riapertura repentina delle sue frontiere? La nostra situazione sanitaria per fortuna è migliorata da allora. Dai vaccini preventivi alle terapie per i malati, dalla conoscenza delle autorità sanitarie al livello di preparazione degli ospedali e del personale medico, viviamo in un mondo che ha imparato molto per proteggersi. Aggiungiamo che molti di noi il Covid lo hanno avuto, proprio perché siamo stati più esposti della popolazione cinese; pur senza arrivare alla mitica immunità di gregge, abbiamo sviluppato delle difese naturali che i cinesi non hanno per via dei loro prolungati e rigidi lockdown. Non è cambiato però il problema fondamentale della nostra esposizione alla logica di un regime autoritario: la nomenclatura di Pechino ci informa solo quando vuole, se vuole. Nel 2020 le bugie iniziali di Pechino contribuirono a rendere l’Occidente vulnerabile e a ritardare le nostre reazioni. Oggi la pubblicazione di dati sui contagi e i morti in Cina avviene secondo criteri opachi, imperscrutabili, pilotati dalla propaganda più che dall’imperativo di informare la cittadinanza e il resto del mondo. Siamo in una situazione in parte prevedibile e inevitabile. Prima o poi la Cina avrebbe dovuto uscire dalla morsa dei suoi lockdown con quarantene estreme. L’uscita dall’emergenza è stata solo accelerata dalle proteste popolari, e dal brutale rallentamento dell’economia. Ma in qualsiasi momento fosse avvenuto, l’esperimento di riaprire le frontiere avrebbe presentato nuovi rischi per il resto del mondo. Neanche in Occidente abbiamo avuto una transizione perfetta e a rischio zero. Prima ancora di liberalizzare la vita a casa nostra, già gli esperimenti di lockdown e i vari livelli di precauzioni sanitarie (distanziamenti, mascherine) videro l’Occidente muoversi in ordine sparso nell’ultimo triennio, con risposte molto differenziate. Perfino all’interno degli Stati Uniti, la pandemia a New York o in California non è stata uguale a quella vissuta in Texas e in Florida. I bilanci sull’efficacia precisa di questa o quella misura sono ancora provvisori e la comunità scientifica continuerà a studiarli per decenni. Il nostro bilancio di morti è stato pesante, nessun sistema sanitario occidentale può dirsi promosso a pieni voti. L’anomalia cinese rimane però, laddove al mondo si chiede di accogliere masse di turisti e visitatori, senza avere la minima visibilità su quanto accade dentro le frontiere della Repubblica Popolare. La «coesistenza pacifica» tra sistemi politici così diversi è un campo minato e stiamo per affrontare un nuovo test sui gradi di incompatibilità. L’esperimento di riapertura è complicato dal clima geopolitico in cui avviene. Vladimir Putin ha appena invitato Xi Jinping a Mosca, per cementare quell’amicizia personale, affinità di vedute, e alleanza economica, che rende la Russia molto meno isolata di quanto vorremmo, e molto più sicura di poter proseguire la guerra. Negli ultimi dieci mesi tanti osservatori occidentali hanno voluto cogliere dei segnali di distanziamento di Xi da Putin, spesso esagerando delle differenze di tono che sono sfumature. Mai c’è stata finora una vera divergenza tra Mosca e Pechino, tantomeno una condanna cinese della guerra di aggressione. La futura visita di Xi è stata preceduta da quella del super falco russo Medvedev a Pechino. La Cina finora ha soltanto evitato di varcare la linea rossa delle forniture belliche alla Russia, però le opera di fatto attraverso il suo Stato vassallo che è la Corea del Nord. La gestione del post pandemia non si può separare da questo contesto. Al G20 di Bali il presidente Biden ebbe un incontro bilaterale con il suo omologo cinese con un intento preciso: to agree to disagree , cioè trovare un accordo sul disaccordo. Pur riconoscendo la rivalità sistemica tra le due superpotenze, si tratta di raggiungere un modus vivendi, concordare delle regole che impediscano all’antagonismo di degenerare in conflitto. Fra i terreni dove la cooperazione è obbligatoria ci sono due temi globali, il riscaldamento climatico e le pandemie. Xi al G20 è parso consenziente, in linea di principio. Salvo poi riaprire le frontiere ed eliminare le restrizioni lesinando le informazioni al resto del mondo. Attento solo alla gestione della sua immagine interna, con nessun riguardo verso la comunità internazionale. I governi occidentali reagiscono alla spicciolata. Perfino la precauzione minima che richiede i tamponi ai viaggiatori in arrivo è stata presa in ordine sparso, con la solita cacofonia. C’è di nuovo un ritardo, sia delle istituzioni europee che del coordinamento transatlantico o in seno al G7. Rischiamo di ripetere lo spettacolo del marzo 2020. Mentre dovremmo presentare un fronte unito nel chiedere a Xi informazioni complete, tempestive, precise e affidabili sull’evoluzione della pandemia dentro i suoi confini nazionali.
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