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L'Espresso Rassegna Stampa
30.11.2022 David Neuhaus, l’ex ebreo convertito diventato odiatore di Israele
Sandro Magister, vaticanista, diffonde le sue menzogne su L’Espresso

Testata: L'Espresso
Data: 30 novembre 2022
Pagina: 25
Autore: Sandro Magister
Titolo: «Una patria comune per ebrei e palestinesi. Il Vaticano abbandona la soluzione dei due Stati»
Riprendiamo dall'ESPRESSO del 29/11/2022, con il titolo 'Una patria comune per ebrei e palestinesi. Il Vaticano abbandona la soluzione dei due Stati' l'analisi di Sandro Magister.

A destra: David Neuhaus

La famiglia nei media – Sandro Magister | Federvita Piemonte
Sandro Magister, ex collaboratore di Repubblica, scrive su L’Espresso (in vendita con Repubblica)

Ancora nel gennaio di quest’anno, parlando di Israele e di Palestina al corpo diplomatico, papa Francesco diceva di voler “vedere questi due popoli arrivare a vivere in due Stati fianco a fianco, in pace e sicurezza”. Ma oggi non lo ripeterebbe più. Perché nei giorni scorsi, per la prima volta dopo molti decenni di costante adesione alla soluzione dei due Stati, la Santa Sede ha detto che è giunta l’ora di “ripensare la ripartizione”. E di puntare piuttosto a “l’uguaglianza di israeliani e palestinesi in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione”, anche in un solo Stato. A segnare la svolta è stata “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma pubblicata con l’autorizzazione previa, riga per riga, del papa e della segreteria di Stato, in un articolo in data 19 novembre col titolo: “Ripensare la ripartizione della Palestina?”. L’autore dell’articolo è un gesuita dal profilo molto singolare, David M. Neuhaus, di famiglia ebrea tedesca emigrata in Sudafrica negli anni Trenta, nato a Johannesburg nel 1962, mandato in Israele da adolescente a studiare e lì affascinato dall’incontro con monache venute dalla Russia, battezzato a 25 anni nella Chiesa cattolica e poi entrato nella Compagnia di Gesù, prima negli Stati Uniti e poi in Egitto, ma sempre rimasto ebreo e israeliano, anzi, dal 2009 al 2017 vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica in Israele, nonché professore al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme. L’articolo di Neuhaus comincia col ricordare quando e come nacque l’idea dei due Stati: “Settantacinque anni fa, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 181, che divideva la Palestina in due Stati: uno ebraico e l’altro arabo-palestinese. Lo Stato israeliano è entrato a far parte dell’ONU nel maggio 1949. Invece, non esiste ancora uno Stato pienamente membro della Palestina, sebbene, a distanza di 65 anni dall’approvazione della Risoluzione 181, il 29 novembre 2012, l’ONU abbia accordato alla Palestina la condizione di ‘Stato osservatore non membro’, ovvero una posizione che essa condivide soltanto con la Santa Sede”. Trent’anni prima, nel 1917, la Santa Sede aveva espresso contrarietà alle parole del ministro degli esteri britannico, Lord Arthur Balfour, a favore di “un focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, pur nel rispetto dei “diritti civili e religiosi delle comunità non ebree” lì presenti. Ma nel 1947 essa approvò l’idea della ripartizione, e ancor più volentieri quella di un controllo delle Nazioni Unite su Gerusalemme e dintorni, come un “corpus separatum” in attesa di una futura sistemazione negoziale. I due Stati, però, non nacquero, e nemmeno lo statuto speciale per Gerusalemme. Gli arabi rifiutarono la ripartizione e fu guerra, vinta da Israele che si aggiudicò il 78 per cento del territorio conteso. All’epoca, la popolazione complessiva era di circa 1.845.000 residenti: 608.000 ebrei e 1.237.000 arabi. Di questi ultimi, circa 700.000 si videro costretti a lasciare il territorio occupato da Israele e chiamarono Nakba, catastrofe, questo loro esodo forzato. Ebbene, Neuhaus collega la Nakba alla Shoah, lo sterminio degli ebrei, ed è proprio sull’onda di questo ragionamento che arriva ad avanzare dubbi sulla soluzione dei due Stati: “Molti insistono sul fatto che la Shoah non sia paragonabile ad altri eventi, e qui non intendiamo fare confronti. […] Tuttavia il piano di ripartizione, progettando una patria per gli ebrei sulla scia della Shoah con la speranza di fare spazio anche a una patria araba palestinese, mise in moto la Nakba. Fu una conseguenza necessaria? Il dibattito accademico, politico e speculativo che vorrebbe rispondere al quesito non cambia la realtà derivante da quegli eventi: l’istituzione di uno Stato definito ebraico ha portato a relegare i palestinesi ai margini della storia. […] La decisione di ripartire la Palestina, ‘due Stati per due popoli’, si basa appunto sulla convinzione post-Shoah che il popolo ebraico abbia bisogno di una patria sicura e che ciò non dovrebbe significare che i palestinesi perdano la loro. Ma la sicurezza ebraica può essere compaginata con la giustizia palestinese? Oggi la soluzione dei due Stati è ancora attuale?”. A quest’ultima domanda Neuhaus risponde no. Perché “se si osserva la realtà sul campo dopo decenni di invasione israeliana delle terre ulteriormente occupate nella guerra del 1967, con l’incessante costruzione di insediamenti ebraici, di strade israeliane e di altre infrastrutture, la soluzione dei due Stati oggi sembra poco realistica”. Anzi, prosegue Neuhaus, c’è di più e di peggio: “A partire dal 2004, alcuni hanno sostenuto che il concetto appropriato per definire la situazione attuale è quello dell’apartheid. Negli ultimi anni, l’accusa che Israele utilizzi un sistema di apartheid per dominare i palestinesi è stata persino allargata dai territori occupati allo stesso Stato di Israele e al suo controllo sui cittadini arabi palestinesi di Israele”. A sostegno di questa accusa di “apartheid”, Neuhaus cita una dichiarazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, riunito a Karlsruhe, in Germania, nel settembre del 2022, pur non condivisa da alcuni membri dello stesso Consiglio. La conseguenza che Neuhaus deriva da questo stato di cose è che in campo politico e diplomatico “l’attenzione si stia lentamente spostando verso un mutato vocabolario”, la cui parola chiave è “uguaglianza”. Anche la demografia, a suo giudizio, spinge in questa direzione: “oggi in questi luoghi vivono fianco a fianco sette milioni di ebrei israeliani e sette milioni di arabi palestinesi”, due milioni dei quali risiedono in Israele, circa un quarto della popolazione, e “chiedono uguali diritti esprimendo al tempo stesso una crescente delusione nei confronti del processo politico in atto nel Paese”. Quindi “la lotta per l’uguaglianza tra ebrei israeliani e arabi palestinesi fa parte integrante del tentativo di risolvere il conflitto in corso”. Insomma, “poiché l’eventualità della ripartizione – in una realtà in cui Israele ha quasi annesso gran parte dei territori occupati durante la guerra del 1967 – sembra ogni giorno più dubbia, questo potrebbe essere il momento giusto per rafforzare la coscienza della necessità di una lotta per l’uguaglianza di israeliani e palestinesi, in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione”. Già nel 2019, fa notare Neuhaus, i vescovi cattolici di Terra Santa si erano detti scettici sulla soluzione dei due Stati, e invece convinti che l’uguaglianza dei diritti fosse la soluzione giusta: “Nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo viverci insieme anche in futuro? Questa è la nostra visione per Gerusalemme e per tutto il territorio chiamato Israele e Palestina, che è posto tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo”. E anche il sentire maggioritario dei cittadini dei due popoli si è già discostato dalla prospettiva dei due Stati, scrive Neuhaus. “In un sondaggio del settembre 2022 dell’Israel Democracy Institute, solo il 32 per cento degli ebrei israeliani si è detto favorevole a tale soluzione. E secondo un sondaggio condotto nell’ottobre 2022 dal Palestinien Center for Policy and Survey Research, l’appoggiava solo il 37 per cento dei palestinesi presenti in Palestina”. E i cristiani che risiedono nella regione? A loro riguardo, l’ultimo rapporto di “Aiuto alla Chiesa che soffre” tratteggia un quadro statistico a due facce. In Israele e in Palestina insieme, dove gli ebrei sono il 49 per cento e i musulmani il 43,5 per cento, i cristiani sono oggi l’1,5 per cento dell’intera popolazione, in cifre assolute 217.000, dei quali un po’ più della metà greco-cattolici melchiti. Ma mentre in Israele i cristiani sono 182.000, il 2,6 per cento, un punto e mezzo in più dell’anno precedente, in Palestina sono calati a picco, dal 18 per cento del 1948 all’1 per cento di oggi. E questo loro esodo non sembra aver fine.

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