La rabbia, l'orgoglio, e il dubbio "Questa guerra è giusta o sbagliata?" Il doloroso dilemma di Oriana Fallaci
Testata: Corriere della Sera Data: 14 marzo 2003 Pagina: 1 Autore: Oriana Fallaci Titolo: «La rabbia, l'orgoglio, e il dubbio»
Riportiamo un articolo di Oriana Fallaci pubblicato sul Corriere della Sera e sul The Wall Street Journal venerdì 14 marzo 2003. Per evitare il dilemma, risparmiarmi la dolorosa domanda «questa-guerra-deve-essere-fatta-o-no», per superare le riserve e le riluttanze e i dubbi che ancora mi straziano, spesso dico a me stessa: «Ah, se gli iracheni si liberassero da soli di Saddam Hussein! Ah, se qualche Ahmed o Abdul lo liquidasse e lo appendesse pei piedi in qualche piazza come nel 1945 gli italiani fecero con Mussolini!». Ma non serve. O serve in un senso e basta.
Nel 1945, infatti, gli italiani si liberarono di Mussolini perché gli Alleati avevano occupato tre quarti dell’Italia. Quindi reso possibile l’insurrezione del Nord. In parole diverse, perché la guerra l’avevano fatta. Una guerra senza la quale Mussolini ce lo saremmo tenuti vita natural durante. (Hitler, lo stesso). Una guerra durante la quale gli Alleati ci avevano bombardato senza pietà ed eravamo morti come le mosche. Loro, idem. A Salerno, ad Anzio, a Cassino. Nell’avanzata verso Firenze, sulla Linea Gotica. La tremenda Linea Gotica che i tedeschi avevano opposto dal Tirreno all’Adriatico.
In meno di due anni, 45.806 morti americani e 17.500 tra inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi, sudafricani, indiani, brasiliani, polacchi. Nonché francesi che avevano scelto De Gaulle e italiani che avevano scelto la Quinta o l’Ottava Armata. (Sai quanti cimiteri di militari alleati ci sono in Italia? Oltre centotrenta. E i più grossi, i più affollati, sono proprio quelli americani. Soltanto a Nettuno, 10.950 tombe. Soltanto a Falciani, presso Firenze, 5.811... Ogni volta che ci passo davanti e vedo quel lago di croci, rabbrividisco di dolore e di gratitudine).
C’era anche un Fronte di Liberazione Nazionale, in Italia. Una Resistenza che gli Alleati rifornivano di armi e di munizioni. Poiché malgrado la tenera età mi occupavo della faccenda, ricordo perfettamente il Dakota che sfidando la contraerea ce le paracadutava in Toscana. Per l’esattezza, sul Monte Giovi dove per farci localizzare accendevamo i fuochi e dove una notte paracadutarono anche un commando che aveva il compito di allestire una radio clandestina detta Radio Cora. Dieci simpaticissimi americani che parlavano ottimo italiano. E che tre mesi dopo furono catturati dalle SS, torturati in modo selvaggio, fucilati insieme alla partigiana Anna Maria Enriquez-Agnoletti. Così il dilemma rimane. Tormentoso, assillante.
Rimane per i motivi che mi accingo ad esporre. E il primo motivo è che, contrariamente ai pacifisti che non berciano mai contro Saddam Hussein o Bin Laden e se la pigliano solo con Bush o con Blair, (ma nel corteo di Roma se la son presa pure con me, a quanto pare augurandomi di scoppiare in mille pezzi col prossimo shuttle), la guerra io la conosco. So bene che cosa significa vivere nel terrore, correre sotto le cannonate o le bombe da mille chili, veder morire la gente ed esplodere le case, crepare di fame, non aver nemmeno l’acqua da bere. E, peggio ancora, sentirsi responsabile per la morte di un altro essere umano. (Anche se quell’essere umano è un nemico, ad esempio un fascista o un soldato tedesco). Lo so perché appartengo, appunto, alla generazione della Seconda Guerra Mondiale. E perché gran parte della mia vita sono stata corrispondente di guerra. Non uno di quelli che stanno in albergo: uno di quelli che al fronte ci vanno davvero.
Ergo, dal Vietnam in poi ho visto orrori che chi conosce la guerra soltanto attraverso la TV o i film dove il sangue è salsa di pomodoro non immagina nemmeno. E la guerra la odio quanto i pacifisti in buona o cattiva fede non la odieranno mai. La odio tanto che ogni mio libro trabocca di quell’odio. La odio tanto che perfino i fucili da caccia mi danno fastidio e lo stupido schioppettare dei cacciatori estivi mi fa salire il sangue al cervello. Però non accetto il fariseo principio anzi slogan di coloro che dicono: «Tutte le guerre sono ingiuste, tutte le guerre sono illegittime». La guerra contro Hitler e Mussolini era una guerra giusta, perbacco. Una guerra legittima. Anzi, doverosa. Le guerre risorgimentali che i miei nonni fecero nell’Ottocento per cacciare lo straniero invasore erano guerre giuste, perbacco. Guerre legittime. Anzi, doverose. E la Guerra d’Indipendenza che i coloni americani fecero contro l’Inghilterra, lo stesso. Le guerre (o le rivoluzioni) che avvengono per ritrovare la dignità, la libertà, idem. Io non credo nelle disinvolte assoluzioni, nelle comode pacificazioni, nel perdono facile. E ancor meno credo nello sfruttamento della parola Pace, nel ricatto della parola Pace. Quando in nome della pace si cede alla prepotenza, alla violenza, alla tirannia, quando in nome della pace ci si rassegna alla paura, si rinuncia alla dignità e alla libertà, la pace non è più pace. E’ suicidio.
Il secondo motivo è che, se giusta come spero e legittima come mi auguro, questa guerra non dovrebbe svolgersi ora. Avrebbe dovuto svolgersi un anno fa. Vale a dire quando le rovine delle Due Torri erano fumanti, e tutto il mondo civile si sentiva americano. Se si fosse svolta allora, oggi i simpatizzanti di Bin Laden e di Saddam Hussein non riempirebbero le piazze col loro pacifismo a senso unico. Le star di Hollywood non si esibirebbero nel ruolo (per loro grottesco) di capi-popolo. E l’ambigua Turchia che sta rimettendo il velo alle donne non rifiuterebbe il passaggio ai Marines diretti al fronte del Nord. Nonostante le cicale europee che insieme ai palestinesi ghignavano «Bene-agli-americani-gli-sta-bene», un anno fa nessuno negava che gli Stati Uniti avessero sofferto una seconda Pearl Harbor e che di conseguenza gli spettasse il diritto di reagire. Meglio: se giusta come spero, legittima come mi auguro, questa è una guerra che avrebbe dovuto svolgersi ancor prima. Cioè quando Clinton era presidente e le piccole Pearl Harbor scoppiavano nel resto del mondo. In Somalia, ad esempio, dove i Marines in missione di pace venivano trucidati e mutilati poi dati in pasto alla folla impazzita. In Kenia, nello Yemen, e via dicendo.
L’11 settembre non è stato che la brutale conferma d’una realtà ormai fossilizzata. L’indiscutibile diagnosi del medico che ti sventola sul naso la radiografia e senza complimenti dice: «Caro signore, cara signora, Lei ha davvero il cancro». Se Clinton avesse speso meno tempo con le ragazze prosperose, se avesse usato in modo più responsabile la Stanza Ovale, forse l’11 settembre non sarebbe avvenuto. È inutile aggiungere che, ancor meno, l’11 settembre sarebbe avvenuto se George Bush Senior avesse eliminato Saddam Hussein con la Guerra del Golfo. Rammenti? Nel 1991 l’esercito iracheno si sgonfiò come un pallone bucato. Si disintegrò così velocemente che perfino io catturai quattro dei suoi soldati. Stavo dietro una duna del deserto saudita, sola sola e indifesa, quando quattro scheletri scalzi e laceri vennero verso di me con le braccia alzate. «Bush!» bisbigliarono in tono supplichevole. «Bush!». Parola che per loro significava: «Ho tanta fame, tanta sete. Fammi prigioniero, per carità». Io li presi, li consegnai al tenente in carica, e invece di congratularsi questo brontolò: «Uffa! ne abbiamo già cinquantamila. Glielo dà lei da mangiare e da bere?». Eppure gli americani non raggiunsero Bagdad. George Bush Senior non lo rimosse, Saddam. («Il-mandato-delle-Nazioni-Unite-era-liberare-il-Kuwait-e-ba sta). E, per ringraziarlo, Saddam tentò di farlo assassinare. Infatti a volte mi chiedo se questa guerra tardiva non sia anche una rappresaglia pazientemente attesa. Una promessa filiale, una vendetta da tragedia shakespeariana anzi greca. Il terzo motivo è il modo sbagliato in cui l’ipotetica promessa al babbo s’è realizzata. Chi oserebbe confutarlo? Dall’11 settembre agli inizi dello scorso autunno tutta l’enfasi si concentrò su Bin Laden, su Al Qaida, sull’Afghanistan. Saddam Hussein e l’Iraq furono praticamente ignorati. E solo quando diventò chiaro che Bin Laden godeva un’eccellente salute perché l’impegno di prenderlo vivo o morto era fallito, Bush e Powell si ricordarono del suo rivale. Ci dissero che Saddam Hussein era cattivo, che tagliava la lingua e gli orecchi agli avversari, che uccideva i loro bambini dinanzi ai loro occhi. (Vero). Che decapitava le prostitute poi esibiva in piazza le loro teste. (Vero). Che le sue prigioni straripavano di detenuti politici chiusi in celle piccole come bare, che gli esperimenti chimici e biologici li eseguiva con particolare diletto su tali vittime. (Vero). Che aveva legami con Al Qaida e finanziava il terrorismo, premiava le famiglie dei kamikaze palestinesi con 25.000 dollari a famiglia. (Vero). Infine, che non aveva mai rinunciato al suo arsenale di armi letali sicché le Nazioni Unite dovevano rimandare gli ispettori in Iraq.
D’accordo, ma siamo seri: se negli anni Trenta l’inefficiente Lega delle Nazioni avesse mandato i suoi ispettori in Germania, credi che Hitler gli avrebbe mostrato Peenemünde dove Von Braun fabbricava i V1 e i V2 per polverizzare Londra? Credi che gli avrebbe mostrato i campi di Dachau e Mauthausen, di Auschwitz e di Buchenwald? Malgrado ciò, la commedia degli ispettori venne riesumata e con tale intensità che il ruolo di primadonna è passato da Bin Laden a Saddam Hussein. E nemmeno l’arresto di Khalid Muhammed, l’architetto dell’11 settembre, ha sollevato un congruo giubilo. La notizia che Bin Laden sia stato localizzato nel Pakistan Settentrionale e rischi di fare la medesima fine, lo stesso. Una commedia inzuppata di miserie, oltretutto. Di vili doppi giochi anzi complicità da parte degli ispettori. Di strategie sconsiderate da parte di Bush che tenendo il piede in due staffe chiedeva al Consiglio di Sicurezza il permesso di muover guerra e contemporaneamente inviava le truppe ai confini con l’Iraq. In meno di due mesi, un quarto di milione di truppe. Con quelle inglesi e australiane, oltre trecentomila. E questo senza capire che i nemici dell’America (ma dovrei dire dell’Occidente) non stanno solo a Bagdad.
Stanno anche in Europa, signor Bush. Stanno a Parigi dove il mellifluo Chirac se ne frega della pace ma sogna di soddisfare la sua vanità col Prix Nobel de la Paix. Dove nessuno ha voglia di rimuovere Saddam perché Saddam è il petrolio che le compagnie petrolifere francesi pompano dal suo Iraq. E dove, dimenticando il piccolo neo chiamato Pétain, la Francia insegue la napoleonica pretesa di dominare l’Unione Europea. Assumerne l’egemonia. Stanno a Berlino dove il partito del mediocre Schröder ha vinto le elezioni paragonandoLa al loro Hitler. Dove le bandiere americane vengono insozzate con la svastica simbolo della Germania nazista. E dove, nel miraggio di sostener nuovamente la parte dei padroni, i tedeschi vanno a braccetto coi francesi. Stanno a Roma dove i comunisti sono usciti dalla porta per rientrare dalla finestra come gli uccelli dell’omonimo film di Hitchcock. Dove i preti cattolici sono più bolscevichi di loro. E dove affliggendo il prossimo col suo ecumenismo, il suo terzomondismo, il suo fondamentalismo, Karol Wojtyla riceve Aziz come se fosse una colomba col ramoscello d’olivo in bocca o un martire in procinto d’esser divorato dai leoni del Colosseo. (Poi lo manda ad Assisi dove i frati lo scortano fino alla tomba di San Francesco, povero San Francesco). Negli altri paesi europei, idem o giù di lì. Non L’hanno ancora informata i Suoi ambasciatori? In Europa i nemici degli Stati Uniti stanno dappertutto, signor Bush. Ciò che Lei chiama garbatamente «differenze-d’opinione» è odio puro. Un odio simile a quello che l’Unione Sovietica esibiva fino alla Caduta del Muro. Il loro pacifismo è sinonimo di antiamericanismo e, accompagnato da una cupa rinascita di antisemitismo, trionfa quanto in Islam.
Sa perché? Perché l’Europa non è più l’Europa. È diventata una provincia dell’Islam come la Spagna e il Portogallo al tempo dei Mori. Ospita sedici milioni di immigrati musulmani, cioè il triplo di quelli che stanno in America. (E l’America è tre volte più grande dell’Europa). Rigurgita di mullah, di ayatollah, di imam, di moschee, di turbanti, di barbe, di burqa, di chador, e guai a protestare. Nasconde migliaia di terroristi che i nostri governi non riescono né a controllare né ad identificare. Ergo la gente ha paura e sventolando la bandiera del pacifismo, pacifismo-uguale-antiamericanismo, si sente protetta. Quasi ciò non bastasse, l’Europa li ha dimenticati i 221.484 americani morti per lei nella Seconda guerra mondiale... Dei loro cimiteri in Normandia, nelle Ardenne, nei Vosgi, nella vallata del Reno, in Belgio, in Olanda, in Lussemburgo, in Lorena, in Danimarca, in Italia, non gliene importa un bel nulla. Anziché gratitudine l’Europa prova invidia, gelosia, livore e nessuna nazione europea appoggerà questa guerra, signor Bush. Nemmeno quelle veramente alleate come la Spagna o rette da tipi che come Berlusconi La chiamano «il mio amico George».
In Europa lei ha un amico e basta, un alleato e basta: Tony Blair. Però anche Blair regge un Paese invaso dai Mori e verso gli Stati Uniti pieno di invidia, gelosia, livore. Persino il suo partito lo rimbecca, lo osteggia. E a proposito: devo chiederLe scusa, signor Blair. Devo in quanto nel mio libro «La rabbia e l’orgoglio» sono stata ingiusta con lei. Sviata dal suo eccesso di cortesia nei riguardi della cultura islamica ho scritto che era una cicala tra le cicale, che il Suo coraggio non sarebbe durato a lungo, che appena non fosse più servito alla Sua carriera politica lo avrebbe messo da parte. Invece quella carriera politica la sta sacrificando alle proprie convinzioni. Con coerenza impeccabile. Davvero mi scuso e ritiro anche la brutta frase che aggravava l’ingiustizia: «Se la nostra cultura ha lo stesso valore d’una cultura che costringe a portare il burqa, perché passa le vacanze nella mia Toscana e non in Arabia Saudita o in Afghanistan?». E Le dico: «Ci venga quando vuole. La mia Toscana è la Sua Toscana, e la mia casa è la Sua casa. My home is your home». Il motivo finale del mio dilemma sta nei termini con cui Bush e Blair e i loro consiglieri definiscono questa guerra. «Una guerra di liberazione, una guerra umanitaria per portare la libertà e la democrazia in Iraq». Eh no, cari signori, no. L’umanitarismo non ha niente a che fare con le guerre. Tutte le guerre, anche quelle giuste, anche quelle legittime, sono morte e sfacelo e atrocità e lacrime. E questa non è una guerra di liberazione. (Non è neanche una guerra di petrolio, sia chiaro, come molti sostengono. Contrariamente ai francesi, gli americani non hanno bisogno del petrolio iracheno). È una guerra politica. Una guerra fatta a sangue freddo per rispondere alla Guerra Santa che i nemici dell’Occidente hanno dichiarato l’11 settembre. È una guerra profilattica. Un vaccino come il vaccino contro la poliomelite e il vaiolo, un intervento chirurgico che s’abbatte su Saddam Hussein perché tra i vari focolai di cancro Saddam Hussein appare il più ovvio. Il più evidente, il più pericoloso.
Inoltre Saddam costituisce l’ostacolo, (pensano Bush e Blair e i loro consiglieri), che una volta rimosso gli permetterà di ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Insomma far quello che gli inglesi e i francesi fecero dopo il crollo dell’impero ottomano. Ridisegnarla e diffondere una Pax Romana, pardon, una Pax Americana dove regni la Libertà e la Democrazia. Dove nessuno dia più fastidio con gli attentati e le stragi. Dove tutti possano prosperare, vivere felici e contenti. Sciocchezze. La libertà non può essere data in regalo come un pezzo di cioccolata, e la democrazia non può essere imposta con gli eserciti. Come diceva mio padre quando invitava gli antifascisti ad entrare nella Resistenza, e come dico io quando parlo con coloro che credono onestamente nella Pax Americana, la libertà bisogna conquistarcela da soli. La democrazia nasce dalla civiltà, e in entrambi i casi bisogna sapere di cosa si tratta. La Seconda guerra mondiale fu una guerra di liberazione non perché regalò all’Europa i due pezzi di cioccolata cioè due novità chiamate Libertà e Democrazia, ma perché le ristabilì. E le ristabilì perché gli europei le avevano perdute con Hitler e Mussolini. Perché le conoscevano bene, sapevano di che si tratta.
I giapponesi no. Ne convengo. Per i giapponesi i due pezzi di cioccolata furono un regalo che li rimborsava, oltretutto, di Hiroshima e Nagasaki. Però il Giappone aveva già iniziato la sua marcia verso il progresso, e non apparteneva al mondo che ne «La Rabbia e l’Orgoglio» chiamo La Montagna. Una montagna che da 1.400 anni non si muove, non cambia, non emerge dagli abissi della sua cecità. Insomma, l’Islam. I moderni concetti di libertà e di democrazia sono del tutto estranei al tessuto ideologico dell’Islam, del tutto opposti al dispotismo e alla tirannia dei suoi Stati teocratici. In quel tessuto ideologico è Dio che comanda, è Dio che decide il destino degli uomini, e di quel Dio gli uomini non sono figli bensì sudditi, schiavi. Insciallah-Come Dio Vuole-Insciallah. Ergo nel Corano non v’è posto per il libero arbitrio, per la scelta, cioè per la libertà. Non v’è posto per un regime che almeno giuridicamente è basato sull’uguaglianza, sul voto, sul suffragio universale, cioè per la democrazia. Infatti quei due moderni concetti i musulmani non li capiscono. Li rifiutano e invadendoci, conquistandoci, vogliono cancellarli anche dalla nostra vita.
Sorretti dal loro caparbio ottimismo, lo stesso ottimismo con cui a Fort Alamo combatterono con tanto eroismo e finirono tutti massacrati dal generale Santa Ana, gli americani sono certi che a Bagdad verranno accolti come a Roma e a Firenze e a Parigi. «Ci applaudiranno, ci getteranno fiori» mi ha detto tutto contento una testa d’uovo di Washington. Forse. A Bagdad può succedere di tutto. Ma dopo? Che succederà dopo? Oltre due terzi degli iracheni che nelle ultime «elezioni» hanno dato il cento per cento dei voti a Saddam sono sciiti che da sempre vagheggiano di stabilire la Repubblica islamica dell’Iraq. E negli anni Ottanta anche i sovietici vennero accolti bene a Kabul. Anche i sovietici imposero la loro pax con l’esercito. Convinsero addirittura le donne a togliersi il burqa: rammenti? Però dieci anni dopo dovettero andarsene, cedere il passo ai Talebani. Domanda: e se, invece di scoprire la libertà, l’Iraq diventasse un secondo Afghanistan? E se, invece di imparare la democrazia, l’intero Medio Oriente saltasse in aria o il cancro si moltiplicasse? Di paese in paese, con una specie di reazione a catena... Da occidentale fiera della sua civiltà e quindi decisa a difenderla fino all’ultimo fiato, senza riserve dovrei in tal caso unirmi a Bush e a Blair asserragliati dentro una nuova Fort Alamo. Senza riluttanze dovrei in tal caso combattere e morire con loro. Il che è l’unica cosa sulla quale non ho il minimo dubbio. Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare la propria opinione alla redazione del Corriere della Sera. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.