Le 3 linee del fronte di Kherson Cronaca di Andrea Nicastro
Testata: Corriere della Sera Data: 29 ottobre 2022 Pagina: 17 Autore: Andrea Nicastro Titolo: «Medici, corpi e tank. Le 3 linee del fronte di Kherson»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/10/2022, a pag. 17, con il titolo "Medici, corpi e tank. Le 3 linee del fronte di Kherson", l'analisi di Andrea Nicastro.
Andrea Nicastro
Fronte di Kherson Non è un caso che proprio qui, secondo Kiev, si prepari la «peggiore battaglia della guerra». Per Putin, Kherson è indispensabile al rifornimento idrico e alla sicurezza delle basi navali in Crimea. Per Zelensky,sarebbe la prima grande riconquista. E allora, il maggiore Sergej detta le regole per visitare il fronte. «Geolocalizzatori spenti. Niente foto sull’esterno dei luoghi dove vivono o combattano i soldati. Anche solo il profilo di un tetto o l’inclinazione del sole. Niente». L’intelligence ucraina sa che i russi setacciano la Rete e da una sola immagine (e i suoi metadati) ricavano le coordinate per i missili. Per una volta, però, le foto non sono così indispensabili. Questa terra è intrisa di odio ed è più facile sentirlo dalle parole di chi lo vive che vederlo. «Altro che ritiro russo — assicura il maggiore — da una settimana le loro trincee sono piene di nuovi soldati, forse parte dei 300 mila appena arruolati. Continuiamo ad ammazzarli, ma loro continuano ad arrivare. Vinceremo, ma sarà lento e doloroso». «Ci sono tre aree parallele al fronte — spiega Alexandr, il primo chirurgo alle spalle dei combattimenti —. La zona grigia è larga una ventina di chilometri e non è né nostra né russa. Vuol dire che i carri armati avanzano, sparano e tornano indietro. I primi soldati stanno in quella fascia grigia, i tank al limite, poco dopo ci siamo noi con l’ospedale da campo, più o meno a dieci chilometri dai carri armati. Dietro, la prima fila di artiglieria e poi le vere retrovie dove i soldati riposano e dormono». Faccia esausta, il dottore, da sei mesi in servizio senza interruzione, vuole rimanere anonimo. «Solo mia moglie sa che opero con le bombe che esplodono attorno, gli altri mi credono al sicuro». Quelle che chiama «retrovie» sono i villaggi liberati dall’avanzata ucraina di ottobre. Gli sfollati non possono ancora tornare, sia perché le loro case potrebbero essere colpite dai cannoni russi sia perché sono utili ai soldati come dormitori. La zona è militarizzata con pochi, eccezionali, civili. Iryna è una di loro: unica commessa di una sorta di autogrill che ha benzina, ma anche comfort food per i soldati. Di notte l’intera stazione è buia, i clienti fanno la fila al bagno con la torcia del cellulare e litigano con la cinghia del kalashnikov. Sul bancone di Iryna una lampada da 60 watt. Pare il quadro di un Hopper militarista. Lei scalda hamburger e hot dog col micronde, dà il resto e non sorride. Non ne ha alcuna voglia. I colpi dei cannoni si sentono fin dentro la sua piccola cupola di luce. È l’artiglieria di Kiev che martella le posizioni russe. Per i soldati una musica rassicurante, per lei evidentemente no. «C’è un flusso continuo di informazioni che rende questa guerra diversa da quella del 1940 — sostiene il dottore —. Qui artiglieria e missili lavorano a decine di chilometri di distanza con mappe elettroniche in continua evoluzione. La prima linea resta fatta di carne e ossa che scavano buche cercando di restare vivi fino alla sortita successiva. Ma la battaglia è a distanza. Difficile che ci siano scontri con i fucili. In sei mesi di prima linea ho curato solo 5 ferite d’arma da fuoco. Non conto più invece le vittime di bombe a grappolo, a frammentazione, al fosforo che provocano emorragie interne, ustioni e soprattutto ferite multiple e afflussi di massa. Dieci, venti soldati alla volta. Il mese scorso 120 arrivi in 24 ore. Non capivo più chi stessi operando. Mi sono seduto su una sedia e mi sono addormentato». Il suo compito è quello di stabilizzare il ferito e, se ha bisogno di cure maggiori, mandarlo ancora più indietro rispetto al fronte, in ambulanza o elicottero. «Tante volte mi è capitato di soldati che si opponevano al trasferimento. “Dottore, lei non capisce, come fa la mia unità senza di me? Lei deve farmi tornare a combattere”». Stare al fronte non è come nei film. La maggior parte del tempo è impiegato a sopravvivere: mangiare, lavarsi, scaldarsi. In queste settimane c’è un gran lavoro di accetta e sega lungo i campi. L’inverno sarà rigido e i soldati raccolgono legna. Un altro «civile» che si affaccia alla zona militarizzata è Alexandr Babic. Ex poliziotto, ora agente turistico e storico dilettante, per anni ha riesumato soldati sovietici della Seconda guerra mondiale per ricostruire le fasi di quello scontro. Ora le Forze Armate sfruttano la sua esperienza per sgomberare dai cadaveri le aree appena riconquistate. Babic resiste agli incubi mescolando realtà a finzione. Ci sono cadaveri che lui collega agli orchi del Signore degli Anelli, altri allo scheletro dell’Isola del Tesoro. «Mi serve per normalizzare, forse per non impazzire». È la missione «Nashite» ispirata alle madri spartane che dicevano ai loro figli di tornare dalla guerra vincitori «con lo scudo» o, se morti, «sullo scudo». «Io e la mia squadra arriviamo quando la maggior parte dei nostri caduti sono già stati recuperati dai commilitoni. I morti russi invece non li vuole toccare nessuno. Niente “scudo” per loro. È un brutto lavoro, per l’odore, per la sensazione che ti resta nelle mani e perché erano nemici che cercavano di ucciderci». Perché allora lo fa? «Perché ormai sono morti, sono diventati russi buoni».
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