La guerra che serve ai regimi Analisi di Angelo Panebianco
Testata: Corriere della Sera Data: 18 ottobre 2022 Pagina: 1 Autore: Angelo Panebianco Titolo: «La guerra che serve ai regimi»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/10/2022, a pag.1 con il titolo "La guerra che serve ai regimi" l'editoriale di Angelo Panebianco.
Angelo Panebianco
Vladimir Putin con Xi Jinping
Il Papa ha ancora una volta invocato la pace in Ucraina. E, come già altre volte ha fatto in passato (per esempio, in occasione della guerra in Siria), ha condannato il commercio internazionale delle armi. Una condanna coerente con il più generale orientamento di questo pontificato sulle questioni che affliggono gli esseri umani in questa fase storica. E non c’è dubbio che il progresso tecnologico ha permesso di produrre e di mettere in commercio armi sempre più distruttive. È importante però che le persone non ne traggano l’errata inferenza (un errore che, certamente, non commette il Papa) di pensare che il commercio delle armi sia la causa principale, o anche solo una delle cause, delle guerre. Come, solo per fare un esempio fra i tanti, ha dimostrato il genocidio (stima approssimativa: un milione di morti) di cui, in Ruanda, furono vittime i tutsi negli anni Novanta: certamente furono usate armi da fuoco ma è anche vero che tante uccisioni furono commesse usando semplici machete. In Europa, fu dopo la Prima guerra mondiale che si diffuse la leggenda secondo cui la guerra fosse stata provocata dai «mercanti di cannoni». Di fronte a una carneficina di quelle proporzioni e constatando che i mercanti di armi ne avevano ricavato profitti altissimi, una parte dell’opinione pubblica europea, alla affannosa ricerca di una spiegazione «semplice» di quell’immane disastro, ne dedusse che proprio quei mercanti avevano voluto e provocato la guerra. Non era così. La Prima guerra mondiale, come gli storici hanno dimostrato, fu dovuta a cause politiche, a una competizione fra gli Stati europei non molto diversa da quella che, su scala globale, impegna oggi le grandi potenze. È indubbio che chi produce e chi commercializza le armi ne trae profitto ma è altrettanto indubbio che le guerre si combattono per ragioni politiche (lotte di potenza), rivalità commerciali, conflitti religiosi, scontri fra opposte identità etnico-nazionali. Se anche, per ipotesi, il commercio delle armi venisse limitato, le guerre non cesserebbero. Attraverso convenzioni e altri strumenti giuridici si è cercato e si cerca di mettere al bando le armi più distruttive. Ma come si è visto anche in Ucraina, i veti giuridici non fermano le potenze che decidano di impiegarle. La Russia ha già ampiamente usato armi (per esempio, certi tipi di bombe) messe al bando dalla comunità internazionale. Sulle cause della guerra in Ucraina si è molto scritto. Di sicuro la motivazione ufficiale russa che parlava di ricongiungimento con i «fratelli» ucraini, è falsa. Come dimostrano i massacri di civili, le fosse comuni ritrovate in tanti luoghi, i rapimenti dei bambini. Se quella motivazione avesse avuto anche solo una vaga relazione con la verità, allora Putin avrebbe dato, fin dall’inizio della guerra, l’ordine tassativo di colpire solo i combattenti ucraini e di non toccare in alcun modo la popolazione civile. Ciò che invece è stato fatto dall’armata russa ha scavato un abisso di odio che non potrà essere colmato. Sicuramente, il ricordo di questa guerra e dei suoi orrori resterà impresso per sempre nella memoria collettiva degli ucraini, verrà trasmesso di generazione in generazione, nei secoli. Comunque finisca la guerra, un processo già iniziato nel 2014 (Crimea, Donbass) è giunto ora a compimento: le barriere che separavano i supposti «fratelli» è diventato un muro spesso, altissimo e insuperabile. Restano in campo altre due motivazioni fra loro non incompatibili e sicuramente vere. La prima è che il gruppo dirigente russo, per fini di legittimazione interna, vuole ricostruire il grande impero di un tempo. Scommettendo sulla debolezza del mondo occidentale. Al momento, il revanscismo russo è in gravi difficoltà a causa della resistenza degli ucraini e dei loro successi militari, nonché della compattezza fin qui mostrata dagli occidentali nel sostegno a Kiev. Ma la partita è ancora aperta. Putin pensa che il tempo lavori per lui, che il fronte occidentale finirà per dissolversi. Nei prossimi mesi capiremo se egli vincerà o perderà la sua scommessa. La seconda motivazione ha a che fare con la paura del Cremlino di un possibile «contagio democratico». L’eventuale consolidamento di una democrazia ai confini è sempre un pericolo per un regime dispotico: potrebbe diffondere nella propria popolazione idee «sovversive» (democratiche), potrebbe destabilizzare l’autocrazia. A queste due motivazioni, ne aggiungerei un’altra. I dispotismi, come sosteneva Montesquieu, si reggono sulla paura: i sudditi hanno paura del despota, il despota ha paura dei sudditi, teme che possano prima o poi rovesciarlo. La pace è pericolosa per il dispotismo. Favorisce intrighi di palazzo e rivolte. Per questo, pensa Montesquieu, i regimi dispotici hanno bisogno della guerra. Per tenere uniti i sudditi e rendere più difficili le manovre sotterranee tese a sostituire il despota. A differenza di altri regimi che se si dedicano a conquiste militari lo fanno per ragioni commerciali o per effetto di rivalità geo-politiche, secondo il filosofo francese, i regimi dispotici, per lo più, fanno guerre nel tentativo di stabilizzare il potere del despota e dei suoi aiutanti. A volte ci riescono e a volte no. Ma poiché questa è la motivazione, il risultato è che le guerre dei dispotismi sono guerre distruttive, lasciano nella desolazione i territori su cui si abbatte la loro furia. I dispotismi non sono interessati a che i territori conquistati restino economicamente floridi. Essendo la sua una economia di rapina il despota non si preoccupa né del benessere del suo popolo né, tanto meno, dello stato dei territori che conquista. Se seguiamo Montesquieu, ne possiamo trarre due conclusioni sulla guerra in corso. La prima è che le sanzioni occidentali sono efficaci se intaccano (come sembra che facciano) il potenziale militare russo. I sacrifici che la guerra, e la rottura delle relazioni con l’Occidente, impongono alla popolazione russa, invece, non sono un problema che possa preoccupare il Cremlino. Almeno finché gli apparati della forza sono in grado di impedire rivolte estese. La seconda conclusione, che fa il paio con la prima, è che se la parte di territorio ucraino che rimanesse in mano ai russi alla fine del conflitto risultasse interamente distrutta, nemmeno questo importerebbe a Putin e al suo gruppo. Nella «ragione sociale» dei dispotismi — soprattutto se si tratta di cleptocrazie come nel caso russo — non è contemplata l’attenzione per il benessere delle popolazioni amministrate.
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