Zelensky chiede l’adesione accelerata alla Nato Due servizi di Anna Zafesova
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Anna Zafesova Titolo: «Lo Zar scollegato dalla realtà rischia di perdere i fedelissimi - Zelensky risponde alle illegalità di Putin bussando alla porta della Nato»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/10/2022, a pag. 3, con il titolo "Lo Zar scollegato dalla realtà rischia di perdere i fedelissimi", l'analisi di Anna Zafesova; dal FOGLIO, a pag. 1, la sua analisi dal titolo "Zelensky risponde alle illegalità di Putin bussando alla porta della Nato".
Ecco gli articoli:
"Lo Zar scollegato dalla realtà rischia di perdere i fedelissimi"
Anna Zafesova
«Siamo pronti al dialogo con la Russia, ma soltanto con il suo prossimo presidente»: mentre firma la richiesta di adesione accelerata alla Nato, Volodymyr Zelensky lancia un messaggio a chi ha appena finito di ascoltare il lungo e confuso discorso di Vladimir Putin dedicato alla annessione dei territori occupati dell'Ucraina. Nel giorno in cui a Kiev come a Mosca molti si aspettavano l'inizio della escalation nucleare il leader russo ha presentato quella che ritiene essere una proposta di negoziato: la Russia si tiene quello che ha conquistato in sette mesi, e si dichiara disposta a trattare sul resto, come il Cremlino ribadisce in un ulteriore comunicato la sera. «Un segno di debolezza e non di forza», commenta il segretario generale dell'Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg, e la situazione al fronte gli dà ragione: dopo l'annessione – più sulla carta che sul terreno – l'esercito di Mosca viene battuto in quello che considera il proprio territorio. Putin, sfoggiando il suo piumino Brioni da dieci mila euro, ha cercato di strappare un triplo «hurrà» a studenti e dipendenti pubblici convocati al concerto al Cremlino, proprio mentre 5 mila truppe russe venivano accerchiate a Liman. Nulla da festeggiare, nulla da mettere sul tavolo delle trattative, e Zelensky risponde chiudendo la porta in faccia e non menzionando nemmeno l'annessione di Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Luhansk nel suo videomessaggio serale. La consacrazione da grande leader che doveva risollevare la popolarità di Putin, come era successo dopo l'annessione della Crimea nel 2014, non è avvenuta, e non soltanto perché Mosca dichiara suoi territori che non controlla, con la linea del fronte che continua a cambiare, prevalentemente non a favore dei russi. Perfino secondo i sondaggisti governativi, il livello di angoscia dei cittadini è raddoppiato in una settimana, dal 35 al 69%, e le rilevazioni demoscopiche dell'indipendente Levada Zentr danno numeri ancora più elevati. Metà della Russia è in fuga dalle lettere di arruolamento, in coda al valico di frontiera più vicino, oppure in viaggio verso le trincee del Donbass, senza addestramento, e spesso senza armi, uniformi e medicinali. Ma Putin non menziona nemmeno la mobilitazione, preferendo dilungarsi in invettive contro l'Occidente come «nemico storico» della Russia. Un testo pieno di cliché ideologici, alcuni dei quali rispolverati dall'armamentario della propaganda sovietica e altri più vicini alle teorie cospirazioniste dei sovranisti: gli occidentali vengono incriminati di «colonialismo», «apartheid», «avidità» e «sfruttamento», di aver «spinto alla droga interi popoli», «depredato le ricchezze naturali» e «sradicato valori tradizionali» grazie al «dominio del dollaro e delle tecnologie». Un'accusa curiosa di fronte a una platea arricchita grazie alla vendita di petrolio e gas in Europa. Ma Putin non sembra rendersi conto delle contraddizioni, anche quando accusa dei non meglio precisati «anglosassoni» di aver sabotato i gasdotti North Stream, rivelazione smentita clamorosamente poche ore dopo da Nikolay Patrushev, il potente segretario del Consiglio di sicurezza. Un altro di tanti piccoli segnali di disagio del regime. Il patto del consenso putiniano si è rotto due volte: quello dei militaristi imperialisti è stato perso nella fuga precipitosa dell'esercito da Kharkiv, quello dei russi comuni della maggioranza silenziosa nella mobilitazione, «parziale» soltanto nelle promesse del governo. Ora, il Levada Zentr rileva che il numero dei sostenitori della pace ha superato quello dei fan della guerra, e un presidente che promette una vittoria mentre sta perdendo delude i primi come i secondi. Il ricorso alla minaccia nucleare - «non è un bluff», aveva giurato Putin nel suo discorso in tv la settimana scorsa – sembra aver terrorizzato più i russi che gli ucraini, e il giornale di opposizione Meduza cita alti funzionari del Cremlino che parlano della prospettiva di una apocalisse nucleare come di qualcosa di inesorabile. Che Putin non sa usare il freno è noto, e la sua propagandista Margarita Simonyan spiegava che «se non mettiamo la retromarcia resta la speranza che la mettano i nostri avversari». L'ex presidente Dmitry Medvedev invece aveva esposto la teoria strategica: l'Occidente vile e avido non si sarebbe schierato a difesa dell'Ucraina, «lasciandoci usare qualunque arma». È il «chicken game», il gioco a chi si spaventa per primo, e Kiev insieme alle capitali occidentali ha deciso saggiamente di non scommettere sul bluff, per togliere a Putin la tentazione di dimostrare che non stava scherzando. Invece, Zelensky ha mostrato di prendere la minaccia nucleare molto sul serio, bussando alla porta della Nato e revocando la sua proposta di un negoziato sulla sicurezza di un'Ucraina neutrale. E soprattutto, lanciando un segnale a una classe dirigente russa già profondamente turbata dal disastro militare ed economico prodotto da un presidente che cita Goebbels e rimprovera gli Usa di aver bombardato Dresda e occupato la Germania, mentre 5 mila suoi soldati vengono accerchiati a Liman. È evidente che i vip invitati al Cremlino ieri stanno pensando a come sopravvivere a Putin, e l'articolo uscito ieri sul Washington Post a firma di Alexey Navalny – che dalla sua prigione propone la fondazione di una repubblica parlamentare, per distruggere l'«autotoritarismo imperale aggressivo che continua a riprodursi» in Russia – ne è un ulteriore segnale.
"Zelensky risponde alle illegalità di Putin bussando alla porta della Nato"
Volodymyr Zelensky
Milano. Volodymyr Zelensky rovina la festa a Vladimir Putin con una sola firma, apposta davanti alle telecamere pochi minuti dopo che il presidente russo si è messo a scandire “Russia, Russia”, stringendo le mani dei quattro “capi” collaborazionisti delle regioni ucraine che vuole annettere. In risposta alla “annessione” delle regioni di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia proclamata da Mosca, Kyiv chiede la procedura accelerata per l’adesione alla Nato. La scenografia imperiale della finta annessione di quattro territori ucraini ancora tutti da conquistare, con le facce di pietra dei membri dell’establishment putiniano che vagano con lo sguardo sulle decorazioni dorate della sala San Giorgio del Cremlino, contrasta con lo stile marziale del leader ucraino che firma la lettera di ammissione all’Alleanza atlantica davanti alla sede della presidenza, su un tavolino piazzato in mezzo alla strada. Un gesto simbolico al quale il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg replica subito con la promessa di procedere, che però richiederà i suoi tempi, con tutti i 30 membri che devono dare il loro assenso. Intanto, la Nato “sosterrà l’Ucraina per tutto il tempo necessario”, anche se “non sarà formalmente parte del conflitto”, aggiunge Stoltenberg, probabilmente per non sconvolgere ulteriormente Mosca, dove il presidente del comitato Esteri della Duma Leonid Slutsky parla già di “coinvolgimento diretto” degli occidentali nella guerra. L’impatto mediatico della cerimonia di “annessione” che doveva trasmettere il senso del trionfo del Cremlino viene così rovinato, e perfino i commentatori della propaganda russa parlano più dell’Ucraina nella Nato – esattamente la prospettiva che la guerra lanciata sette mesi fa doveva impedire, secondo i putiniani – che dell’allargamento dell’impero russo. Anche perché le nuove regioni russe sono tali soltanto sulla carta, e perfino sui volti cupi dei gerarchi del regime radunati ieri nella sala San Giorgio ad ascoltare il presidente si leggeva chiaramente una totale assenza di entusiasmo, e perfino un po’ di nervosismo, soprattutto quando Putin si è lanciato in una lunga e sconclusionata descrizione dei peccati dell’occidente. Nonostante la scenografia solenne, la sala a tratti ricordava una riunione sindacale in un ufficio sovietico, con i dipendenti costretti ad assistere alla conferenza di un propagandista sindacale pagato tre rubli all’ora per indottrinarli sulla situazione internazionale. Putin non si è negato nessuno dei cliché utilizzati dai suoi troll sui social: non sono mancati lo sterminio degli indiani d’America e la “riduzione alla tossicodipendenza di interi popoli”, le accuse di “colonialismo e apartheid” nei confronti della Russia, “depredata delle sue ricchezze nei terrificanti anni Novanta”. Nel tentativo di presentarsi come il leader di una rivolta anticolonialista, Putin ha usato un repertorio di invettive che andava dal classico del gender all’accusa agli Stati Uniti di tenere “sotto occupazione militare” Germania, Giappone e Corea, fino addirittura alla critica agli Alleati per aver bombardato Dresda nel 1945. Unica novità, l’accusa a degli imprecisati “anglosassoni” di aver fatto esplodere i gasdotti Nord Stream. Ma nell’insieme le fantasie “geopolitiche” di un leader che ieri ha rinfacciato agli occidentali il “satanismo” (mentre il patriarca Kirill brillava per la propria assenza giustificata dal coronavirus) hanno reso poco convincente la cerimonia pensata come un bis dell’annessione della Crimea nel 2014. Non è stata pronunciata nemmeno una parola sulla mobilitazione, ma è apparso evidente che Putin vorrebbe chiudere la guerra con questo bottino: a Kyiv è stato proposto di riaprire un negoziato, dal quale però verrebbero esclusi i territori che da ieri Mosca considera “tornati alla casa storica, per sempre”. Una proposta surreale alla quale Zelensky ha reagito bussando alla porta della Nato, e avvertendo che d’ora in poi negozierà con la Russia soltanto “se avrà un altro presidente”. Un invito fin troppo esplicito ai presenti nella sala San Giorgio di provvedere alla propria salvezza prima che sia troppo tardi. L’escalation militare e politica ha preso una accelerazione vertiginosa, anche se la procedura di adesione alla Nato si concluderà probabilmente “già a guerra finita”, commenta il consigliere di Zelensky Mikhaylo Podolyak, facendo capire che più che durare a lungo la ratifica durerà poco il conflitto. Il segnale però è stato mandato: Kyiv non può aver fatto il gesto di inviare richiesta formale a Bruxelles senza averlo preventivamente concordato con gli alleati occidentali, in primo luogo la Casa Bianca, che ieri ha garantito l’invio di nuove armi e aiuti all’Ucraina. Nel gioco a chi si arrende per primo che Putin ha lanciato con le sue minacce di “ricorrere a qualsiasi arma a nostra disposizione”, cioè alla bomba atomica, l’assunto – formulato esplicitamente qualche giorno fa dall’ex presidente Dmitri Medvedev – era che l’occidente non si sarebbe schierato accanto a una “Ucraina inutile”, e che avrebbe “mandato giù il ricorso a qualsiasi arma” da parte della Russia. Una scommessa pericolosa, e Stoltenberg ieri ha confermato che Mosca è stata informata nel dettaglio sulle “serissime conseguenze dell’utilizzo degli armamenti nucleari” in Ucraina. I commentatori russi e ucraini parlavano di un attacco atomico di Mosca come quasi inesorabile, e il leader russo anche ieri ha menzionato Hiroshima e Nagasaki come “precedente creato dagli Stati Uniti”, ma in serata il segretario di stato americano Antony Blinken ha rassicurato che non si vedono segni di un imminente utilizzo delle armi non convenzionali da parte della Russia. Indiscrezioni moscovite dicevano il contrario, in un gioco di nervi che rendeva difficile distinguere le minacce reali dal bluff (del resto, Putin aveva avvertito che la sua minaccia atomica “non è un bluff”). Le attese più apocalittiche sono state comunque deluse: nessun ultimatum a Kyiv di ritirarsi, e da ieri sera l’esercito ucraino sta avanzando imperterrito su territori che Mosca ora considera di sua proprietà.
Per inviare la propria opinione alla Stampa, telefonare 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante