Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/04/2021, a pag. 36, con il titolo "Conversioni sospette" l'analisi di Paolo Mieli.
Paolo Mieli
La copertina (Marsilio ed.)
Celeste Di Porto, l’ebrea romana che collaborò con i nazisti identificando e mandando a morte qualche decina di suoi correligionari, ed Elena Hoehn, accusata nel dopoguerra di essere stata una spia dei tedeschi, si conobbero in carcere, alle Mantellate, nel giugno del 1946. Tra loro nacque un ambiguo rapporto che è oggetto di un interessantissimo libro scritto da Anna Foa e Lucetta Scaraffia, Anime nere. Due donne e due destini nella tragedia del Novecento (Marsilio). Tra le due, la più conosciuta è senza alcun dubbio la prima, già protagonista di un romanzo di Giuseppe Pederiali, Stella di piazza Giudìa (Giunti). Di lei Anna Foa aveva intravisto le tracce nel corso degli studi che la portarono a scrivere Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del 1943 (Laterza). Figlia di un venditore ambulante, Settimio Di Porto, Celeste era nata nel 1925. Bellissima (di qui il soprannome «Stella del ghetto»), aveva cominciato a lavorare a quattordici anni come cameriera in una famiglia di conoscenti ebrei, poi nel ristorante «Il Fantino».
La trattoria era frequentata dai fascisti della banda di Giovanni Cialli Mezzaroma e tra loro c’era Vincenzo Antonelli di cui la ragazza diventerà amante (pur se, nel processo di cui parleremo in seguito, negherà di esserlo stata). Sarà Antonelli — nel periodo tra il settembre del 1943 e il giugno ’44, ai tempi in cui la capitale fu sotto il dominio tedesco — ad indicarle la via per guadagnare «soldi facili»: quella di aiutarlo nella caccia agli ebrei da consegnare ai nazisti. All’origine della decisione di dare una mano ad Antonelli in questa spregevole attività potrebbe esser stato, anche, il risentimento nei confronti della parte più abbiente della comunità ebraica. Parte a cui appartenevano i genitori di un suo fidanzato che avevano costretto il figlio a troncare il rapporto con lei, giudicata povera e di facili costumi. Al processo, Celeste sosterrà di aver svolto quell’attività di delazione per aiutare alcuni suoi correligionari a sfuggire alla cattura. Nelle mani dei tedeschi finirà – non denunciato da lei — anche suo padre, che prenderà le distanze dalla figlia e troverà la morte ad Auschwitz. Il resto dei suoi familiari sfuggirono alla cattura. Così come — per intercessione di Celeste — una sua compagna di scuola, Rosina Di Veroli, che si salverà e al processo testimonierà a suo favore. In ogni caso già nei primi mesi del 1944 all’interno della comunità ebraica romana si seppe di quel che realmente faceva Celeste, soprannominata da quel momento «Pantera Nera». Il pugile ebreo Lazzaro Anticoli, detto «Bucefalo», da lei denunciato, finì alle Fosse Ardeatine; qualche giorno prima della morte lasciò scritto — sulla parete della cella nel carcere romano di Regina Coeli – di essere stato catturato per «colpa di quella venduta de Celeste». E chiese di essere vendicato. Appena gli alleati entrarono a Roma, nel giugno del 1944, Celeste sfuggì all’ira dei suoi correligionari, riparò a Napoli e cambiò nome.
In un primo tempo riuscì a nascondersi, poi, per guadagnarsi da vivere, fu costretta a prostituirsi e venne riconosciuta da due persone. Arrestata, fu riportata nella capitale e incarcerata in attesa del processo che iniziò nel 1947. L’inizio del dibattimento non passò inosservato: «Pantera Nera in gabbia davanti a quelli che ha tradito», titolò «Il Tempo»; «La Voce Repubblicana» riferì di una folla che davanti al tribunale ne pretendeva «il linciaggio». Sara Vivanti, unica sopravvissuta di una delle famiglie più colpite dagli arresti, raccontò di averla vista nei giorni precedenti l’eccidio delle Fosse Ardeatine mentre partecipava «con una pistola in mano» al saccheggio dei negozi degli ebrei. Fu condannata proprio per questo, per aver «collaborato con il tedesco invasore a scopo di lucro» fornendo indicazioni e «materialmente partecipando» all’arresto di numerosi israeliti. Se la sentenza sottolineava la questione del lucro («quasi apparisse ai giudici più importante di ogni altro aspetto della vicenda», scrivono Foa e Scaraffia), è conseguenza delle norme per l’amnistia del 1946, secondo le quali gli unici delitti non coperti dal provvedimento di clemenza erano quelli «particolarmente efferati» o, appunto, commessi «a scopo di lucro». Ma non era da considerarsi «particolarmente efferata» la denuncia di un ebreo destinato alle Fosse Ardeatine o ad Auschwitz? No, sostenne la difesa, dal momento che Celeste poteva non essere a conoscenza della fine che avrebbero fatto quelli che aveva denunciato. E i giudici — anche in altri processi — accolsero questa tesi. Celeste finì in cella con Tamara Cerri, l’amante sedicenne di Pietro Koch capo della feroce banda di seviziatori che dalla loro sede — la pensione Oltremare in via Principe Amedeo (i locali in cui oggi c’è Radio Radicale) — davano una mano alla Gestapo. Koch verrà fucilato a Forte Bravetta il 6 giugno del 1945. In una memoria successiva ritrovata dalle autrici, Celeste, a proposito all’esecuzione di Koch, ricorderà di aver saputo dalle suore che il torturatore «aveva fatto una morte da santo, in perfetta pace con Dio, rassegnato a morire con una forza d’animo superiore». C’era anche, sempre secondo le monache, chi «diceva di invidiare una morte simile» e questo «faceva sperare che il Signore lo avesse perdonato in tutto facendolo entrare nel Regno dei Cieli». Dalle religiose che assistevano le detenute, in altre parole, la «Pantera Nera» veniva a sapere che ci si domandava se, dopo la fucilazione, ad un notissimo criminale sanguinario (qual era Koch) sarebbero state spalancate le porte del Paradiso. Alle Mantellate, Celeste restò due anni. Nel giugno del 1946, incoraggiata dalle suore, incontrò in carcere la coprotagonista di questo libro, Elena Hoehn. Con la quale avrà un rapporto dapprima difficile, poi sempre più intenso. Al termine del processo, la «Stella del ghetto» verrà condannata a dodici anni. Dodici anni immediatamente condonati a sette e alla fine ne sconterà soltanto tre (comprensivi dei due trascorsi alle Mantellate più uno a Perugia).
Uscirà di prigione il 12 marzo 1948 e, nove giorni dopo, riceverà il battesimo (madrina la Hoehn) dal vescovo di Assisi. Per poi trovare rifugio a Trento. Sempre accompagnata da Elena. Elena Hoehn era nata in Slesia nel 1901. Nel primo dopoguerra era giunta in Italia dove aveva conosciuto Luigi Alvino, un commerciante avellinese destinato a diventare suo marito (con rito civile). Un matrimonio di breve durata dal momento che Elena era poi diventata l’amante di un deputato fascista (nonché direttore del Banco di Napoli) molto ascoltato da Mussolini: Giuseppe Frignani. Secondo Armando Droghetti — autore di Elena Hoehn. Protagonista della storia italiana (edizioni San Paolo) — la ragazza ebbe all’inizio degli anni Trenta una conversione al cattolicesimo. Foa e Scaraffia mettono in dubbio l’autenticità di questo atto di cambiamento di fede e sollevano interrogativi su come fu possibile che — nonostante la relazione tra lei e Frignani fosse pubblica — la conversione di Elena ottenesse l’«avallo» dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Ascalesi. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Hoehn scoprì che Frignani aveva sposato un’altra donna che gli aveva dato due figli. Elena tornò con il marito, Luigi Alvino, che, nel 1943, accettò di «nascondere» Giovanni Frignani (fratello del suo ex amante). Questo Frignani era il tenente colonnello dei carabinieri che il 25 luglio del 1943, su incarico del re Vittorio Emanuele III, aveva arrestato Mussolini. Dopo l’8 settembre i nazisti gli davano la caccia e nel gennaio del 1944 riuscirono a catturarlo nel rifugio predisposto da Alvino e Hoehn, si presume in seguito ad una spiata. Con lui caddero nelle mani dei tedeschi due ufficiali dei carabinieri e, di lì a qualche giorno, l’intera rete che faceva capo al comandante del Fronte militare clandestino, il colonnello Montezemolo. Tutti furono poi trucidati alle Fosse Ardeatine. Appena finì la guerra, la Hoehn venne accusata di spionaggio a favore dei nazisti e tratta in arresto. Ma lei — con l’aiuto di personalità del mondo cattolico — seppe trasformarsi in un’«eroina cristiana» portando «in dote» la «conversione di Celeste Di Porto». Foa e Scaraffia sostengono che i racconti di Elena al processo non quadrano, infarciti come sono di ben individuabili contraddizioni. Un dettaglio colpisce le autrici della ricerca: il marito di Elena, Alvino, racconta che la mattina della cattura di Frignani era andato a messa «come sempre senza la moglie». Nessuno riferì di averla mai vista in una chiesa durante le funzioni religiose. Strano che una donna, convertitasi da oltre dieci anni, non andasse mai a messa. Romolo Guercio, maggiore dei bersaglieri, non ebbe dubbi e già il 5 luglio del 1944, all’indomani della liberazione di Roma, denunciò Elena. Gli indizi sul fatto che avesse lavorato per i nazisti sono davvero innumerevoli, eppure il 3 dicembre del 1946 fu prosciolta dalla Corte d’Appello di Roma.
La sentenza la dipinge come una persona di dubbia moralità anche se, a detta dei giudici, nulla autorizzava a «ritenerla capace di architettare il diabolico piano» che avrebbe portato alla cattura e all’uccisione di Frignani. Negli anni successivi Elena continuerà ad occuparsi di Celeste Di Porto e, dopo la conversione dell’amica ebrea (accompagnata da un memoriale che contiene non poche considerazioni antisemite) la condurrà a Trento dove la introdurrà tra i seguaci di Chiara Lubich (1920-2008), la terziaria francescana che nel 1943 aveva dato vita all’importante movimento dei «focolari». Una figura, quella della Lubich, importantissima nella storia del cattolicesimo: basti dire che, dal 2015, è in corso la causa della sua beatificazione. Celeste Di Porto si tratterrà poco tempo dalla Lubich, per un po’ resterà in corrispondenza con Elena (chiedendole soldi), poi tornerà a Roma dove si sposerà e continuerà a vivere fino alla morte avvenuta nel 1981. Elena invece, ormai accreditata dalla Lubich, si avvicinerà a Igino Giordani, un importante politico e intellettuale cattolico antifascista per il quale, tra il 1949 e il 1953, finanzierà — tramite il marito — il settimanale «La Via». Giordani, scrivono Foa e Scaraffia, avrà con «La Via» il modo per avere finalmente «un giornale tutto suo dove avrebbe potuto esprimere le sue idee di pace e di dialogo con i comunisti». Ad Alvino quel giornale darà l’opportunità di entrare, sia pure «dalla porta di servizio», nel «mondo del potere democristiano». Ciò che rende «pericolosamente simili» le due conversioni — quella di Elena e quella di Celeste — è, proseguono Foa e Scaraffia, «che entrambe nell’abbracciare una vita apparentemente intrisa di spiritualità, negano ogni addebito del passato, negano di avere compiuto i delitti che con ogni evidenza hanno compiuto». Chiara Lubich e Igino Giordani e, prima di loro, il vescovo di Assisi — scrivono ancora Foa e Scaraffia — «hanno accolto le due donne a braccia aperte, soprattutto Elena, apprezzandone la generosità e la capacità di impadronirsi dell’ideale focolarino». Laddove, per le autrici, «impadronirsi» è un verbo scelto non a caso. Elena — sostengono Foa e Scaraffia — non riuscì «a imboccare veramente una nuova strada», non fu capace di «fare a meno della menzogna» raccontando a Chiara la sua vera storia. E le due storiche si domandano come mai — dal momento che «i santi dovrebbero leggere nel cuore delle persone» — Chiara Lubich non riuscì ad accorgersi della «falsità di Elena». Alla fine degli anni Settanta, Elena tornò sulla scena pubblica testimoniando nell’importante processo contro Robert Katz, il quale — nel libro Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine (Editori Riuniti) — aveva accusato Pio XII di non essere intervenuto per impedire l’eccidio. Testimonianza, quella di Elena, a favore del pontefice. Che contribuì a far condannare Katz. Dopo la morte del marito, la Hoehn andrà a vivere in una propria casa ad Assisi dove morirà nel 2001, all’età di quasi cento anni. Indisturbata, come del resto era accaduto a Celeste Di Porto.
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