Testata:La Repubblica - Avvenire - Il Foglio - Il Sole24Ore Autore: Sharon Nizza - Fiammetta Martegani - Micol Flammini - Roberto Bongiorni Titolo: «Elezioni Israele, testa a testa negli exit poll. Likud primo partito, resta il rebus alleanze - Israele, Netanyahu verso la conferma: 'Con Bennett ha i voti per governare' - Se non Bibi, chi? - Netanyahu spera (anche) nella ripresa dell'economia»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 24/03/2021, a pag. 17 il commento di Sharon Nizza dal titolo "Elezioni Israele, testa a testa negli exit poll. Likud primo partito, resta il rebus alleanze"; da AVVENIRE, a pag. 16, il commento di Fiammetta Martegani dal titolo "Israele, Netanyahu verso la conferma: 'Con Bennett ha i voti per governare' "; dal FOGLIO, a pag. 1, con il tiolo "Se non Bibi, chi?", il commento di Micol Flammini; dal SOLE24ORE, a pag. 25, con il titolo "Netanyahu spera (anche) nella ripresa dell'economia", il commento di Roberto Bongiorni.
Ecco gli articoli:
LA REPUBBLICA - Sharon Nizza: "Elezioni Israele, testa a testa negli exit poll. Likud primo partito, resta il rebus alleanze"
Tel Aviv – Anche le quarte elezioni in due anni non sciolgono il rebus delle alleanze e alla chiusura delle urne alle 22:00 locali, gli exit poll rispecchiano quanto pronosticato dai sondaggi: la strada verso il 35mo governo israeliano è tutta in salita. Il blocco Netanyahu conta tra i 53 e i 54 seggi, i suoi rivali 59-60, ossia, al momento, nessuno raggiunge i 61 seggi (su 120) necessari a formare una maggioranza. Nel mezzo ci sono 7-8 seggi che potrebbero essere l’ago della bilancia per cercare di sbloccare una situazione di stallo politico che si protrae dal dicembre 2018. Sono quelli di Naftali Bennett, la destra nazionalista che ammicca al centro: cinque in più dell’attuale Knesset. Oltre agli ultraortodossi (15 seggi tra due partiti), alleati tradizionali di Netanyahu, e alla destra nazionalista religiosa (7 seggi), Bennett è l’unico che non ha posto il veto a un nuovo governo del contestato premier in carica. Sarà forse una strada meno tortuosa di quella apertasi con le elezioni precedenti, avvenute solo il 2 marzo 2020, che all’epoca ha impiegato due mesi e mezzo per portare a un instabile governo di unità nazionale, con l’alleanza tra i due Benjamin, Netanyahu e Gantz. E se il “referendum su Netanyahu” non ha raggiunto il quorum, rispetto alle tre precedenti tornate elettorali il premier in carica incassa comunque una vittoria, nonostante il processo penale che lo vede coinvolto: il Likud resta il primo partito (tra i 30 e 32 seggi). Israele sta uscendo dalla pandemia, il successo della campagna vaccinale, che ha coinciso con quella elettorale, ha dato i suoi frutti. Perde intorno ai 5 seggi rispetto alla Knesset attuale, che hanno seguito probabilmente Gideon Saar, fuoriuscito dal Likud a dicembre e dato allora come il vero rivale, mentre oggi guadagna solo 6 seggi. Più di 10 seggi lo separano dal secondo partito, Yesh Atid di Yair Lapid, che è dato a 18. Una variabile non da poco con cui dovrà fare i conti il presidente Rivlin nel stabilire a chi assegnare per primo l’incarico di formare un governo dopo le consultazioni che inizieranno il 31 marzo. Gli altri leader della “coalizione del cambiamento” ottengono numeri a una cifra: Avigdor Lieberman scende a 5; l’unica leader donna, Merav Michaeli, riesce a far resuscitare lo storico partito laburista, che oggi viaggia però sui 7 seggi; la Lista Araba Unita (Lau) si posiziona tra i 7 e i 9 seggi, penalizzata rispetto ai 15 della Knesset uscente da una rottura interna e da un forte calo nell’affluenza alle urne in particolare dell’elettorato arabo. L’approccio pragmatico di Mansour Abbas, il parlamentare arabo che si era posto come la grande novità dell’ultima campagna elettorale affermando che avrebbe sostenuto “il governo che offrirà di più”, senza quindi escludere un governo di destra, non è stato premiato dagli elettori, e in tutti gli exit poll è l’unico partito tra quelli in bilico che non passa la soglia di sbarramento (3,25). Abbas ha tuttavia dichiarato di essere fiducioso che lo spoglio di tutti i seggi confermerà l’ingresso di Ra’am, come accaduto nella consultazione dell’aprile 2019. Gli altri partiti dati per tentennanti stralciano invece le previsioni negative date dai sondaggi: 6 seggi per la sinistra di Meretz; 8 per Blu Bianco di Gantz, l’attuale ministro della Sicurezza (in caduta libera dai 33 delle scorse elezioni, prima della spaccatura con Lapid); 7 per la coalizione sionista-religiosa di Betzalel Smotrich – che Bennett ha fatto fuori dal suo partito per ripulirsi nell’eventualità di un’alleanza con il centro-sinistra. Con Smotrich entrano esponenti dell’estrema destra che si oppongono a qualsiasi concessione territoriale, alcuni apertamente omofobi, che si riveleranno critici per la formazione di un governo Netanyahu, ma al contempo saranno la sua spina nel fianco. Nel ringraziare i sostenitori, Yair Lapid ha detto “faremo di tutto per portare a un cambiamento. Non nascerà un governo sostenuto da estremisti razzisti”. Netanyahu alle 2:30 di mattina prende la parola in un discorso che canta una semi vittoria, “un enorme risultato per la destra e per il Likud a mia guida”. Sa che anche Bennett potrebbe non bastare a raggiungere i 61, e quindi specifica: “noi non boicottiamo nessuno. Intendo parlare con ogni singolo parlamentare che si riconosca nei nostri obiettivi per evitare quinte elezioni”. Gli altri leader di partito sono ancora cauti nell’esultare, alla luce del fatto che questi numeri potrebbero subire stravolgimenti con il conteggio di mezzo milione di schede doppie (positivi, quarantenati, diplomatici, soldati, tutti quanti non abbiano votato presso il proprio seggio di residenza), il cui spoglio inizia solo a 24 ore dalla chiusura delle urne e si concluderà venerdì, in quanto richiede una procedura di verifica anti-brogli più complessa. Al momento si profilano diversi scenari per raggiungere i 61 seggi necessari a creare una maggioranza. Se, con il sostegno di Bennett (e forse di qualche disertore), Netanyahu ottenesse gli agognati 61, si tratterebbe della coalizione più a destra della storia del Paese, ma a quanto pare la più plausibile. In questo scenario, la questione palestinese, assente da tutte le ultime consultazioni elettorali, potrebbe fare nuovamente capolino, così come è stato per un momento ieri, quando un missile lanciato da Gaza è esploso, senza causare danni, nei pressi di Beer Sheva, proprio mentre Netanyahu stava concludendo lì la sua campagna. Se Bennett rimanesse con gli alleati del “tutto tranne Bibi” si tratterebbe di una coalizione di ben 67 seggi tra destra nazionalista, partiti arabi e sinistra progressista, dalla tenuta quindi molto instabile. Infine, se i partiti ultraortodossi, noti per le loro posizioni pragmatiche, portassero in dote i propri 15 seggi alla compagine avversaria a Netanyahu – ottenendo molti benefit in cambio – i giochi potrebbero essere fatti, con una coalizione intorno ai 63. Non è uno scenario così astruso, considerato che Rabin nel ’92 riuscì a fare sedere i laicissimi di Meretz con i haredim di Shas. E tra le opzioni sul piatto, nessuno esclude che si possa sempre andare a quinte elezioni.
AVVENIRE - Fiammetta Martegani: "Israele, Netanyahu verso la conferma: 'Con Bennett ha i voti per governare' "
Tel Aviv « Stavolta non voto, tanto la nostra voce non è mai contata nulla». Wael prepara un caffè turco nel bar a Jaffa, a sud di Tel Aviv. Di fronte c'è una delle tante scuole adibite a seggio, ma c'è più gente che va in direzione opposta, verso la spiaggia. E in fondo a lui non dispiace. Ieri in Israele faceva più caldo del solito, per essere marzo: con 31 gradi già alle 10.00 del mattino, molti, approfittando della giornata elettorale, sono andati al mare o fare shopping. Probabilmente anche questo ha contribuito ad abbassare di molto l'affluenza - alle 20 era del 60,9%, con un 4,7% in calo rispetto al precedente voto: mai così già dal 2009 - ma deve avere inciso anche l'abbuffata elettorale di questi ultimi mesi. Molti gli indecisi, che però sono sempre decisivi in Israele per raggiungere i 61 su 120 seggi necessari alla maggioranza. Proprio in questa grande fetta di incerti gravita l'elettorato arabo, che rappresenta il 17% dei 6,6 milioni di votanti e che mai come quest'anno, in uno scenario tanto frammentato, è stato determinante. II premier Benjamin Netanyahu lo ha capito subito e, da subito, ha spostato secondo posto, si sono attestati i centristi di Yair Lapid: il suo Yesh Atid ha guadagnato 17 seggi, A sinistra, hanno ripreso fiato i laburisti (7 seggi) e Meretz (6-7). II blocco anti-Netanyahu arriverebbe a 59 seggi. Si disperde invece il voto degli arabi. Bibi ha lavorato per spaccare il fronte e ci è riuscito: la vecchia Lista Unita guadagna 8 seggi, ma il nuovo partito dissidente Raam resta a zero. Non c'è una maggioranza, insomma. Ma Netanyahu, se convince Bennett, può farcela. «Farò solo quello che è bene per Israele», è stato il primo commento di Bennett. A lui la palla. la sua campagna elettorale sui loro villaggi, nel nord e nel sud del Paese, promettendo risorse e denaro pubblico ai cittadini e ministeri a chi, tra i candidati delle varie liste, avesse appoggiato il suo blocco governativo. Tra questi c'è Mansour Abbas. I cartelloni del suo partito tappezzano le zone a maggioranza araba. Dopo una scissione interna alla "Lista araba condivisa", ha fondato il suo neo-partito "Raam", acronimo ebraico per "Lista araba unita". In molti hanno deciso di dargli una chance. «Perché? Perché siamo stanchi del vecchio partito, perennemente all'opposizione e quindi irrilevante», dicono accavallando le voci uno sull'altro tre ragazzi al tavolino. Non frequentano gli stessi locali degli israeliani, mala politica è un'altra faccenda. «Con qualcuno ci si deve alleare, no? Tanto vale farlo con chi ha più possibilità di vincere». Anche se questo qualcuno è Netanyahu? «L'importante è avere voce in capitolo». Non tutti sono d'accordo. «Preferisco votare Meretz commenta Shadi, appena entrato nel bar carico di sacchetti della spesa e seguito da un nugolo di bambini, dopo aver votato -: è l'unico partito che si è sempre impegnato a portare avanti il processo di pace con i palestinesi. Io di Bibi non mi fido, ci sta usando e basta». La tv, appesa in alto, passa la notizia di un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza e caduto vicino a Beersheba, in una zona disabitata. In giornata era stato lì Netanyahu per un comizio. Qualcuno sorride malizioso. Qualcuno indica lo schermo con un cenno di disapprovazione. Ma a tutti è chiaro che quello è il problema. Chiunque sarà il vincitore.
IL FOGLIO - Micol Flammini: "Se non Bibi, chi?"
Roma. Non è stato un voto soltanto su Benjamin Netanyahu, il premier che governa Israele dal 2009, è stato "qualcosa di più polarizzante. Chi dice sono pro Bibi o contro Bibi dà un giudizio sulla visione del mondo del premier", dice al Foglio Barak Ravid, che per il sito americano Axios cura una newsletter piena di notizie e storie da Tel Aviv. Gli israeliani sono tornati a votare perla quarta volta in due anni e il partito più votato rimane il Likud di Netanyahu che, secondo la media degli exit poll, avrebbe ottenuto 32 seggi sui 120 della Knesset. Yesh Atid di Yair Lapid è al secondo posto con 17 seggi, Yamina di Naftali Bennett, probabile ago della bilancia di queste elezioni, ha 7 seggi e Gideon Sa'ar, uscito dal Likud per sfidare il premier, soltanto 6. Meno di Benny Gantz, leader di Kahol lavan ed ex alleato di Netanyahu sceso a 7 seggi, dai 33 dell'ultimo voto. Tutti rincorrevano il premier. qualcuno è pronto a formare con lui un governo "fortemente di destra", come lo ha definito Netanyahu; qualcuno è pronto a unirsi in un fronte anti Bibi, non è importante l'ideologia - Sa'ar e Lapid sono agli antipodi: l'importante è allontanare il premier. "Questi fronti hanno dominato il dibattito elettorale, sono scomparsi tutti gli altri temi: l'economia, la sicurezza, la questione palestinese": ieri da Gaza è stato lanciato un razzo contro la città di Beer Sheva, dove Netanyahu era in visita. Israele è un paese stabile, con una democrazia solida, delle istituzioni sicure e mantiene queste caratteristiche nonostante il ripetersi delle elezioni, nonostante le coalizioni traballanti che vengono giù di continuo e che hanno come unico elemento di continuità la premiership di Benjamin Netanyahu. Un paese in continua campagna elettorale che riesce in cose straordinarie, come l'organizzazione di una campagna di vaccinazione che tutto il mondo invidia. Secondo Ravid la pandemia ha danneggiato molto la popolarità di Netanyahu, i sondaggi mesi prima della crisi gli assegnavano 40 seggi: "Ha perso molti punti e la campagna di vaccinazione lo ha aiutato a tirarsi su, ma non quanto avrebbe voluto". Ravid è molto severo con il premier, il suo attaccamento alla carica è anche legato ai suoi guai giudiziari, è accusato di corruzione e abuso d'ufficio, "la politica per lui è diventata una questione personale". Oltre alla sua sopravvivenza, nell'agenda di Benjamin Netanyahu non mancano però anche i risultati. Oltre alla vaccinazione, la normalizzazione dei rapporti con Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Oman, altri ne seguiranno, e sono stati un risultato storico per gli israeliani, realizzato anche grazie al rapporto tra il loro premier e l'ex presidente americano. "Trump è stato una risorsa per Bibi, lo ha usato per ottenere favori grandi e piccoli. Il riconoscimento delle alture del Golan prima della prima elezione. La promessa di un trattato di difesa (che non si è fatto) prima della seconda. La presentazione del piano di pace prima della terza. Ora con Biden è più difficile e Netanyahu ha cercato altre relazioni da sfoggiare, come quella con l'emiro Bin Zayed, che però ha preferito tenersi fuori dagli affari elettorali". Israele, a guardare i risultati di ieri, continua a far fatica a immaginarsi senza Netanyahu, sarà abitudine, ma sarà anche fiducia. Una fiducia che, dopo Gantz, nessuno è più riuscito a incarnare. Per Barak Ravid però in qualche modo passa il messaggio sbagliato che sminuisce il paese, cioè quello secondo cui è un uomo a determinare la stabilità di Israele e non il paese a essere una democrazia solida. "Israele è un paese moderno con delle istituzioni forti che se un giorno Bibi dovesse perdere rimarrebbe in piedi. Chiunque abbia abbastanza sostegno per diventare il futuro primo ministro dopo Netanyahu potrebbe governare questo paese", che continua a oscillare tra stabilità e instabilità, un uomo forte e tanti appuntamenti elettorali.
IL SOLE24ORE - Roberto Bongiorni: "Netanyahu spera (anche) nella ripresa dell'economia"
Sarà ancora una volta "Re Bibi", così come lo chiamano i suoi sostenitori, a guidare Israele, oppure è terminata la sua era? I primi tre exit polls divulgati dalle reti televisive israeliane danno il partito conservatore Likud del premier uscente Benjamin Netanyahu in testa con 31-33 seggi, ma il suo blocco non disporrebbe di una maggioranza di governo. Al secondo posto d sarebbe il partito di centro Yesh Atid, guidato dal rivale di Bibi, Yair Lapid, con 18-16 seggi. La Lista araba unita - che alle passate elezioni aveva ottenuto 15 seggi, ne avrebbe raccolti solo 8-9. Il partito centrista Blu-Bianco di Benny Gantz ha sorpreso ottenendo 7-8 seggi, così come le due formazioni di sinistra, i laburisti (7 seggi) e Meretz (6-7). Se questi dati fossero confermati il blocco anti-Netanyahu avrebbe 59 seggi (la maggioranza è 61) mentre quello delle destre 53-54. Il partito Yemina di Naftall Bennett, finora non schieratosi con nessuno, con i suoi 6-8 seggi si candida a essere l'ago della bilancia. Gli exit polls sono però da prendere con molta cautela. Perché in questa tornata elettorale, le quarte elezioni politiche in due anni, la competizione è stata ancora un volta serrata Tutto è ancora in bilico. Comunque vadano le cose, è stato rispettato il solito copione. Ovvero nessun partito ha raggiunto la maggioranza assoluta. Chiunque vincerà le elezioni, dovrà dunque avviare consultazioni che si preannunciano difficili per formare una coalizione di maggioranza. Eppure avrà anche qualche motivo per essere ottimista. Perché, nonostante le grandi sfide che dovranno esser affrontate, ancora una volta l'economia israeliana ha mostrato una resilienza fuori dal comune. Si è sempre ripresa subito dopo i conflitti, che fossero quelli interni come le Intifade o le operazioni contro Hamas, o quelli esterni contro gli Hezbollah libanesi. Lo stesso è accaduto con la pandemia di Covid 19. Ben inteso, la contrazione nel 2020 c'è stata Ma di gran lunga inferiore rispetto ad altri Paesi occidentali e asiatici. Il Pil infatti è sceso a -2,4%, molto meno di quanto si attendessero gli analisti. Giusto per avere un'idea, la contrazione media nei Paesi Ocse è stata del 5,5 per cento. Solide esportazioni di tecnologia e consumi interni ben al di sopra delle attese hanno contribuito a evitare quel crollo dell'economia che in alcuni Paesi occidentali ha provocato nel 2020 recessioni quasi a due cifre. Una tendenza che si sta manifestando anche in questi primi mesi del 2021 a causa della terza ondata causata dalle varianti del virus. Non in Israele. La sua campagna di vaccinazioni, che non ha pari in tutto il mondo, ha già somministrato le due dosi di vaccino a oltre il 5o% dei suoi 9,5 milioni di abitanti. Ciò ha consentito di riaprire prima degli altri Paesi ristoranti bar ma anche aziende. Per quest'anno la Banca centrale di Israele, tendenzialmente incline alla prudenza, stima un rimbalzo del Pil del 6,3 per cento. Goldman Sachs lo calcola invece al 7,5 per cento. La vera emergenza che il nuovo primo ministro di Israele dovrà affrontare arriva dal fronte del lavoro. Se prima della pandemia il tasso di disoccupazione si trovava sotto il 4% (un record), durante i momenti più difficili della crisi è volato ben oltre il 30% per poi scendere al 16,7% a febbraio, livello ancora troppo alto. Altra priorità è il bilancio. Per due anni Israele è stato orfano di un vero budget nazionale in modo da allocare le risorse ai vari settori. Per quanto si trovi ancora a livelli bassi, soprattutto se paragonati a quelli di alcuni Paesi europei, il debito pubblico è poi balzato nel 2020 al 72% del Pil. Altro emergenza è un piano edilizio per ridurre il divario tra la domanda di nuovi appartamenti, a livelli record, e l'offerta, in deciso calo. Più di qualche motivo per esser preoccupati c'è. Ma guardandosi alle spalle, la recente storia di Israele è incoraggiante. Nel 2019 la crescita era stata del 3,4 per cento, e dal 2009, anno in cui Bibi è salito al governo, fino al 2019 la crescita media annua è stata di circa il 3 per cento. L'ultima recessione su base annua era avvenuta nel 2002, l'anno peggiore della Seconda Intifada. Insomma l'economia israeliana stadi nuovo mostrando il suo dinamismo e la sua flessibilità Purtroppo lo stesso non si può dire dalla sua classe politica.
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