Siria, 10 anni di guerra Cronache di Lorenzo Cremonesi, Gian Micalessin
Testata:Corriere della Sera - Il Giornale Autore: Lorenzo Cremonesi - Gian Micalessin Titolo: «Una guerra infinita e un Paese distrutto dieci anni dopo la rivoluzione - Una guerra simbolo del disordine mondiale»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/03/2021, a pag.19, con il titolo "Una guerra infinita e un Paese distrutto dieci anni dopo la rivoluzione", il commento di Lorenzo Cremonesi; dal GIORNALE, apag. 14, con il titolo "Una guerra simbolo del disordine mondiale", il commento di Gian Micalessin.
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi: "Una guerra infinita e un Paese distrutto dieci anni dopo la rivoluzione"
Lorenzo Cremonesi
No, non doveva finire così. Nel marzo 2011 i primi attivisti erano convinti che le riforme democratiche avrebbero prevalso, la dittatura di Bashar Assad poteva essere cambiata e le elezioni finalmente pulite sarebbero state in grado di modificare il sistema di potere baathista fondato sui privilegi della minoranza alawita, sulla corruzione diffusa e la mancanza delle libertà fondamentali. Non avrebbero mai immaginato che io anni dopo i morti e desaparecidos sarebbero stati oltre mezzo milione, i feriti con menomazioni gravi più di due milioni, i profughi fuggiti all'estero circa sei milioni, con un numero simile di sfollati interni. Soprattutto, non avevano messo in conto che la guerra sarebbe stata ancora attiva e il Paese diviso, con il tasso di povertà in continua crescita, le scuole chiuse, l'economia allo sfascio. «Se avessi saputo che nel 2021 ben più della metà dei 21 milioni di siriani sarebbero rimasti senza casa e l'80% in lotta per sopravvivere, non avrei mai iniziato questa rivoluzione», confessava giorni fa al Corriere uno degli attivisti delle prime rivolte di Deraa, in Siria, fuggito a Erbil, nell'Iraq settentrionale. Erano anni che tanti siriani speravano di cambiare le cose. Alla morte nell'estate del Duemila di Hafez Assad, che da tre decenni governava col pugno di ferro, si erano illusi che il figlio Bashar, educato nelle migliori università britanniche e in quel momento oculista a Londra, si facesse promotore di riforme radicali. Così non è stato. Ma nei primi mesi del 2011 le «primavere arabe» avevano già bruciato i regimi tunisino ed egiziano. In Libia la Nato sosteneva le sommosse anti-Gheddafi. In Siria migliaia di soldati dell'esercito stavano disertando a favore dei rivoltosi. Interi battaglioni venivano inquadrati nel nuovo «Esercito siriano libero». Alla metà del 2012 parve che i giorni di Bashar fossero contati. Ma allora lo scenario si complicò. Russia, Iran e milizie sciite dell'Hezbollah libanese iniziarono a sostenere militarmente l'esercito. di Bashar. La repressione si fece durissima. Damasco non esitò ad utilizzare anni chimiche contro i quartieri civili. La Nato non intervenne. A ciò si accompagnò la radicalizzazione dei rivoltosi, di cui Isis e le milizie qaediste furono le manifestazioni più note L'anima democratica delle rivolte fu soffocata dai jihadisti. Oggi Russia, Usa, Arabia Saudita, Turchia, Iran si contendono l'intera regione. Siria e Yemen sono i teatri che più tragicamente hanno pagato le conseguenze delle «primavere arabe».
IL GIORNALE - Gian Micalessin: "Una guerra simbolo del disordine mondiale"
Gian Micalessin
I cinici obbietteranno che i 400mila morti della guerra di Siria sono ormai poca cosa rispetto ai 2 milioni 600mila morti (oltre centomila in Italia) mietuti dal Covid in un solo anno. Il più cinico fra i cinici non può, però, negare che la rivolta, accesa il 15 marzo 2011 dalle prime dimostrazioni anti regime, s'è trasformata in un crogiolo dell'instabilità mondiale in cui allo scontro tra ribelli e Bashar Assad s'affiancano una decina di conflitti paralleli capaci d'influenzare oltre allo scenario mediorientale, quello europeo e internazionale. Pensiamo alla Russia di Vladimir Putin. La sua discesa in campo al fianco di Assad nel settembre 2015 le ha restituito un ruolo di grande potenza non solo in Medio Oriente, ma su una scena internazionale dove Stati Uniti ed Europa s'illudevano d'aver libertà d'azione. E da europei è difficile scordare gli sconvolgimenti di fine estate 2015, quando due milioni e passa di profughi siriani diventarono un'arma di ricatto nelle mani del presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Un Erdogan che, dopo averci estorto sei miliardi di euro per richiudere le frontiere, continua a minacciarci con la stessa arma. Del resto che quel conflitto sia una «summa» del disordine internazionale lo dimostra anche l'inchiesta per terrorismo aperta dalla polizia di Londra su Asma Assad, moglie del presidente siriano. L'accusa, tutta politica, nasce dalla denuncia di Guernica 37, un'organizzazione di giuristi convinta che i discorsi d'incoraggiamento alle truppe governative pronunciati dalla signora Assad vadano considerati apologia del terrorismo. Un'accusa che può costare a Asma Assad, nata a Londra da genitori siriani, non solo una condanna, ma anche la perdita della cittadinanza britannica. Un'eventualità per nulla remota visto il sostegno sempre garantito da Londra alle forze anti-Assad. Ma gli appoggi offerti ai gruppi jihadisti da paesi come Inghilterra, Stati Uniti e Francia è ormai solo uno dei capitoli del conflitto. Un capitolo fallimentare non solo perla mancata caduta del regime, ma soprattutto per il contributo alla nascita dello Stato Islamico e alla transumanza di 5mila jihadisti europei trasformatisi in militanti del terrore islamista. Per non parlare dell'esodo di una comunità cristiana che rappresentava l'8 per cento della popolazione e conta oggi poche centinaia di migliaia di fedeli. I fallimenti occidentali s'affiancano però a quelli di Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi, pronti a garantire miliardi di dollari a dei ribelli diventati una minaccia per i loro stessi finanziatori dopo il passaggio sotto le bandiere di Isis e Al Qaida. Non a caso gli Emirati Arabi oggi appoggiano Damasco e sono pronti a tutto pur di ridimensionare la Turchia di Erdogan. Una Turchia che dopo aver lavorato con l'Occidente, aver fatto da retrovia ai ribelli e aver flirtato con l'Isis è oggi il miglior partner negoziale di quella Russia con cui, proprio in Siria, arrivò, a fine 2015, ad un passo dalla guerra. Acqua passata visto che le intese tra Putin e Erdogan determinano, oggi, oltre ai giochi siriani, anche quelli di Libia e Caucaso. La parte più invisibile, e forse più incontrollabile, d'una guerra ormai decennale resta però lo scontro collaterale tra uno stato ebraico e un regime iraniano che grazie a pasdaran e milizie reclutate in Afghanistan, Irak e Libano ha trasformato la Siria in un grande «risiko» mediorientale. Un «risiko» su cui l'America, seppur presente militarmente, ha rinunciato a giocare e su cui Israele colpisce con durezza per tener lontane dal proprio confine le forze iraniane. E così oggi la vera incognita non è più se Assad, tornato rais su tre quarti del territorio, sopravvivrà, ma se le ceneri della guerra di Siria non attizzeranno lo scontro tra Israele e Iran allargandosi all'intero Medio Oriente.
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