Si scrive Biden si legge Obama Commenti di Giorgio Ferrari, Daniele Raineri
Testata:Il Foglio - Avvenire Autore: Giorgio Ferrari - Daniele Raineri Titolo: «Medioriente la svolta di Biden - Due test per Biden»
Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 18/02/2021, a pag. 3, con il titolo "Medioriente la svolta di Biden", l'analisi di Giorgio Ferrari; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Due test per Biden", il commento di Daniele Raineri.
A destra: Joe Biden, Mohammed Bin Salman, Donald Trump
Ecco gli articoli:
AVVENIRE - Giorgio Ferrari: "Medioriente la svolta di Biden"
Giorgio Ferrari
Il cambio di passo è oltremodo evidente. Soprattutto nei confronti dell'Arabia Saudita e a seguire dell'Iran e di Israele. Nei giorni scorsi Joe Biden aveva preannunciato: «Stiamo mettendo fine a ogni tipo di sostegno americano alle operazioni militari nel contesto della guerra in Yemen, compresa la questione fondamentale della vendita di armi a Riad». Nelle ultime ore ha rifilato uno schiaffo diplomatico al principe ereditario Mohammed bin Salman, precisando - è la portavoce della Casa Bianca Jen Psald a renderlo noto - che l'America «ricalibrerà le relazioni con l'Arabia Saudita: la controparte del presidente è il re Salman bin Abdulaziz, e al momento opportuno avrò una conversazione con lui». Ma quel kairós, il momento opportuno, è giunto tardissimo nei confronti di Israele: solo ieri. Biden aveva fatto sapere che sarebbe stata la prima delle telefonate ai leader e alleati mediorientali, ma il ritardo con cui il telefono di Benjamin Netanyahu ha squillato a un mese dall'insediamento del nuovo presidente dice molto, considerando che finora Biden aveva già chiamato i leader di Russia, Cina, Francia, Germania, Inghilterra, Australia, India, Giappone, Corea del Sud, Canada e Messico, oltre al segretario generale della Nato. E soprattutto dice che la tela geopolitica e strategica tessuta in Medio Oriente da Donald Trump si va rapidamente disfacendo. A cominciare dall'intenzione di Biden di riprendere i colloqui con l'Iran sul nucleare, conservando l'accordo raggiunto da Barack Obama nel 2015 e accantonando il brutale muso duro di Trump, culminato un anno fa con l'omicidio (ispirato con tutta probabilità da John Bolton e da Mike Pompeo) del generale Qassem Soleimani, dal 1998 alla guida della Forza Quds, la "Brigata Santa" dei guardiani della rivoluzione e figura leggendaria nel suo Paese. Un rientro che alla Casa Bianca potrebbe costare parecchio, visto che Khamenei chiede il ritiro delle sanzioni imposte da Donald Trump («Ma siamo sempre in tempo a ripristinarle», fanno sapere a Washington). Resta il problema di Israele. Il lungo silenzio del presidente è stato a modo suo assordante e perfino pericoloso secondo alcuni osservatori, visto che Israele è storicamente il più stretto alleato americano nella regione. Trump aveva offerto a Netanyahu il più simbolico dei regali, spostando la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e corredandolo di un piano di pace discusso e discutibile (due Stati, Gerusalemme capitale indivisa di Israele e Gerusalemme Est capitale della Palestina), ma assai articolato. In compenso Biden non si opporrà a quegli "Accordi di Abramo" (siglati sotto l'amministrazione Trump) che hanno visto il riconoscimento diplomatico di Israele da parte di svariate nazioni arabe e l'inizio di relazioni, soprattutto commerciali, fra l'Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo e lo storico «nemico sionista». Ciò che probabilmente farà la differenza nel nuovo corso di Biden in Israele è l'atteggiamento che avrà nei confronti dei palestinesi. Trump aveva tagliato i fondi a Abu Mazen in conseguenza del suo ritiro dai negoziati con la controparte israeliana mettendo in crisi l'Autorità nazionale palestinese, stretta fra l'emergenza Covid e la penuria di risorse finanziarie. E anche qui si intravede un cambio di marcia «La sospensione degli aiuti al popolo palestinese - dicono al Dipartimento di Stato - non ha prodotto progressi politici né ha ottenuto concessioni dalla leadership palestinese, danneggiando solo palestinesi innocenti». Non è rischioso immaginare come la prospettiva venga accolta da Netanyahu, il quale si avvia alla quarta campagna elettorale consecutiva (si vota il 23 marzo), con prevedibile vittoria del Likud e nuova coalizione di destra. Non esattamente quella ideale per i dem che hanno conquistato presidenza e Congresso. Ma l'aiuto americano ai palestinesi non sarà del tutto gratuito: i dollari di Biden - tutti lo sanno - esigeranno una contropartita politica Una nuova Road map, per capirci, anche se sicuramente avrà un nome diverso. Sl, ma la benedetta (e tardiva) telefonata fraWashington e Gerusalemme? «Non è un problema-avevano minimizzato fino a ieri nell'entourage di Netanyahu - l'alleanza è solida». Nel dubbio, però, si erano già andati intensificando i contatti fra Mosca, Pechino e la capitale israeliana. Sarà solo un caso?
IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Due test per Biden"
Daniele Raineri
Joe Biden con Benjamin Netanyahu
Roma. Arrivano i primi due test per l'Amministrazione Biden nel conflitto permanente con l'Iran. Il primo nel nord dell'Iraq, a Erbil, città amministrata dai curdi e di solito risparmiata dalla violenza delle milizie sciite. Alle nove e un quarto di lunedì un attacco pesante con razzi ha colpito la zona dell'aeroporto internazionale che contiene una base militare - dove alloggiano anche soldati americani - ma pure in modo casuale le strade e i palazzi dei civili. L'attacco è stato compiuto con un sistema semplice e quasi impossibile da prevenire, molti tubi di lancio piazzati sul pianale di un camion a circa otto chilometri da Erbil e puntati verso le piste - le stesse dove il 7 marzo dovrebbe atterrare Papa Francesco al terzo giorno di visita in Iraq. I radar di terra della base si sono accorti di almeno quattordici razzi in volo verso la zona militare ma non hanno fatto scattare le contromisure per non colpire i piani alti dei palazzi Crisi in Iraq e Yemen per la nuova Amministrazione che non vuole fare come Trump di Erbil - queste contromisure sono lunghe raffiche guidate da un computer collegato al radar di terra che dovrebbero distruggere i razzi in volo, ma l'aeroporto è dentro alla città e appunto c'era il rischio di colpire anche gli edifici attorno. I razzi hanno ucciso un contractor straniero, ma non americano, e ne hanno feriti altri cinque (si chiamano contractor, vale la pena ricordarlo, anche i lavoratori impiegati nelle mense e nelle lavanderie) e in più hanno ferito un militare americano. Altri undici razzi piovuti fuori hanno ferito tre persone e hanno colpito il consolato cinese e quello dell'autorità palestinese. Come si vede, questi attacchi sono casuali come una roulette russa: ammazzano chi si trova per fatalità dove cadono i razzi e la possibilità di uccidere americani è accettata come una possibilità. Tre ore dopo una sigla già conosciuta ha rivendicato il lancio, si tratta della Saraya Awliya al Dam, i guardiani del sangue, che è soltanto un paravento per Asaib Ahl al Haq, la lega dei giusti, uno dei gruppi filoiraniani più forti in Iraq. Gli iraniani sanno che l'Amministrazione Biden vuole agire in modo diverso da Trump, che invece a dicembre 2019 dopo l'uccisione di un contractor americano aveva ordinato una escalation velocissima: prima il bombardamento delle basi dei gruppi filoiraniani e poi, dopo l'assedio all'ambasciata americana a Baghdad, l'uccisione con un drone del generale iraniano Qassem Suleimani. Come farà l'Amministrazione Biden a mantenere un minimo di potere di deterrenza? L'altro test è in Yemen, dove il gruppo Ansar Allah in questi giorni ha lanciato un'offensiva contro Marib, la regione appena a est della capitale Sana'a. Ansar Allah è il nome dei cosiddetti "ribelli Houthi", che però non sono più ribelli dal 2015. Da quell'anno controllano la capitale e ci tengono a essere chiamati con il nome di "partigiani di Dio", così più adatto al loro motto: "Dio è il più grande, morte all'America, morte a Israele, maledetti gli ebrei, vittoria per l'islam". Ansar Allah è un gruppo sciita legato all'Iran e se riuscisse a conquistare la regione di Marib in pratica controllerebbe le parti più importanti dello Yemen, dove la maggior parte della popolazione non li ama. A Marib ci sono almeno due milioni di sfollati - che hanno lasciato altre aree per sfuggire ad Ansar Allah - e anche una buona parte delle poche risorse in gas e greggio dello Yemen: sarebbe il caos. E' per evitare questa avanzata che i sauditi nel 2015 hanno cominciato una disastrosa guerra civile nel paese: non accetterebbero il nuovo Yemen che di fatto nascerebbe dopo un'eventuale perdita di Marib. Anche in questo caso l'Amministrazione Biden vuole distinguersi da Trump e ha appena ritirato il suo appoggio ai sauditi nella guerra, oltre ad avere dato altri segni di freddezza: Biden parla con il re Salman, non con il principe erede al trono Mohammed bin Salman che della guerra è l'architetto. Ma non può nemmeno permettersi, l'Amministrazione Biden, un trionfo storico dei filoiraniani in Yemen che manderebbe segnali paurosi in tutta la regione.
Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare Avvenire02/6780510 Il Foglio 06/ 589090 Oppure cliccare sulle email sottostanti