Riprendiamo dal CORRIERE della SERA COOK di oggi, 17/02/2021, a pag.9, con il titolo "Sami Tamimi", il commento di Gabriele Principato.
Sami Tamimi con Yotam Ottolenghi
«A sedici anni mi sono scoperto diverso e solo a Gerusalemme. A Londra, però, ho trovato casa. E in Umbria una seconda famiglia». Sami Tamimi oggi ha 52 anni ed è co-proprietario di sei indirizzi di tendenza nella capitale inglese insieme all'amico Yotam Ottolenghi, chef come lui e food writer fra i più amati, conosciuti e premiati del Regno Unito. Palestinese il primo e israeliano il secondo, sono gli artefici della ribalta della cucina del Middle East nel mondo anglosassone. Successo cristallizzato nel 2012 da Jerusalem, edito da Ten Speed. Diventato un caso letterario — premiato dalla James Beard Foundation — proprio a causa delle loro origini apparentemente in conflitto. «Non abbiamo raccontato la cucina ebraica o quella araba — spiega —, ma la simbiosi di tradizioni gastronomiche che unificano i nostri popoli. Ingredienti e gesti che sopravvivono nei mercati e nelle ricette di una metropoli altrimenti frammentata come è Gerusalemme». Da otto mesi Tamimi vive a Limigiano, borgo di 56 anime a mezz'ora d'auto da Perugia. Qui, fra le colline umbre, ha comprato una villetta quattro anni fa. Ma è stato il lockdown, attuato per contenere la pandemia, a dargli l'occasione di viverci per la prima volta. L'entrata della casa — da una grande parete di vetro — catapulta subito in un open space che unisce cucina, salotto e soggiorno. L'aria è intrisa di cannella. Quella che ha usato per preparare dei tahini rolls da accompagnare a un tè di benvenuto. «Ho scelto quasi tutto io, qui», dice con un sorriso e indicando alcuni coloratissimi dipinti d'arte contemporanea messicana. La sua casa londinese ad Acton, nel West London, è invece in stile vittoriano. «La adoro, ma è più opera di mio marito che mia», racconta. Lui è un analista immobiliare inglese di nome Jeremy Kelly: stanno insieme da i6 anni e sono sposati da dieci. Fra loro è stato amore subito. Si sono conosciuti in discoteca e dopo due mesi già convivevano. «Passare questo strano periodo in Umbria ci ha permesso di allontanarci dal silenzio angosciante di una metropoli deserta come è Londra oggi. Qua, invece, è come stare in una bolla. I problemi appaiono lontani e tutto sembra semplice».
Uno dei libri di cucina di Tamimi e Ottolenghi
Tamimi passa le sue giornate realizzando videoricette e studiando preparazioni. Ma ha anche recuperato tempo da dedicare a sé. Per dipingere, scrivere poesie in arabo e giocare con Reg e Bea: i suoi due amati french bulldog. Quando gli si chiede cosa ha significato essere un adolescente gay in una famiglia musulmana osservante il silo sguardo si fa malinconico. «Sentirsi sempre non gradito», dice. «Hassan e Nama, i miei genitori, mi volevano bene: ma non riuscivano ad accettare la mia sessualità. Avrei potuto viverla di nascosto, ma non sopporto le maschere». A 15 anni Tamimi aveva lasciato la scuola per andare a lavorare al Mount Zion, un hotel di Gerusalemme Est. «Da bambino ho ricevuto tutto quello di cui avevo bisogno, ma appena sono diventato adolescente mio padre mi ha detto che qualsiasi cosa volessi avrei dovuto lavorare per ottenerla: anche la bicicletta. L'ho fatto. E lo faccio ancora». Nessuno gli ha regalato nulla. «Ho iniziato come facchino di cucina, poi sono passato a fare il lavapiatti. Così, per caso, ho scoperto che ingredienti e ricette mi incuriosivano. Avevo tanto da dimostrare. E in tre anni riuscii a diventare capo chef della colazione: fu come fare un "master" in uova strapazzate», racconta divertito. Nonostante questo Tamimi si sentiva solo. «Non poter parlare con nessuno della mia sessualità mi riempiva di rabbia». Così, questo diciassettenne — ottavo di dodici fratelli — lascia la casa di famiglia per trasferirsi a Tel Aviv. «Cercavo un luogo in cui poter "respirare"». E in parte è stato così. «Ma anche se era una città aperta mi sentivo giudicato per il mio essere gay. In più, ero un palestinese e quello era il periodo della prima Intifada...».
Tamimi, comunque, ci rimane per dodici anni. La città gli piaceva. Così i caffè e i ristoranti europei. Ma, più di tutto, il lavoro da chef che aveva trovato al «Lilith»: una brasserie alla moda in cui il proprietario — un americano naturalizzato — serviva originali piatti a base di carne e verdure grigliate. Una versione (più semplice) del tipo di preparazioni che Tamimi realizza tuttora. Proprio a un tavolo di questo locale, però, lo aspettava la svolta della sua vita. «Una sera cena qui una donna inglese, rimane così conquistata dalle mie ricette che fra una chiacchiera e l'altra mi offre un lavoro a Londra». Da allora questo pensiero diventa assillante. «Volevo crescere, mettermi alla prova. A Tel Aviv avevo lavorato nei migliori locali. Non c'erano più sfide». Così, decide di fare un salto nel buio. Era il 1997. Chiama la donna, sale su un aereo e nell'arco di tre giorni si trova nella cucina di «Baker e Spice»: a metà fra un negozio di alimenti mediorientali e una gastronomia che proponeva tanto insalate dai gusti arabeggianti, quanto lievitati israeliani, polli allo spiedo e broccoli alla brace. «È stato allora che ho tagliato i ponti con la famiglia: dovevo lasciarmi tutto alle spalle per affermare me stesso». Per 12 anni non li ha visti, né è tornato in Palestina. «Ma mi mancavano, come i colori e i sapori di Gerusalemme». La nostalgia l'ha placata cucinando e rileggendo ricette. Trasformando, ad esempio, un piatto di rape ripiene di agnello in brodo di tamarindo che sua madre amava preparare, in una moderna torta a strati cotta in pentola. E ideando molte delle delizie che colmavano i banconi colorati che, due anni dopo, avrebbero attirato lo sguardo di Yotam Ottolenghi. Era un giorno di primavera quando questo giovane ebreo di origini italo-tedesche fermò il suo scooter davanti all'ingresso del locale per chiedere un lavoro. Dopo una laurea in filosofia, aveva abbandonato un dottorato sull'estetica della fotografia per studiare alla celebre scuola di cucina Le Cordon Bleu. «Siamo diventati subito amici», ricorda Tamimi. «Parlavamo la stessa lingua, pensavamo in modo simile: ci capivamo». I due iniziano a frequentarsi, fare gite o pilates insieme. «Non discutevamo mai di politica. Non ce ne era necessità. Londra offriva la possibilità di vivere senza essere etichettati come israeliani ebrei o arabi palestinesi. E, al di là della nostra provenienza, ci assomigliavamo». Ottolenghi e Tamimi sono nati nel '68 a Gerusalemme. Ma cresciuti in culture apparentemente distanti. In cerca di pace, tutti e due si sono trasferiti nello stesso periodo prima a Tel Aviv e poi a Londra. Entrambi avevano trovato la propria identità attraverso la cucina tradizionale. Seppure riletta con la creatività di chi ha uno sguardo fisso sul mondo. «Volevamo sorprendere, ma anche che il cibo avesse un sapore "confortevole"».
Lavorano insieme due anni. Tamimi si occupava del salato e Ottolenghi della pasticceria. «Ma a un certo punto Yotam si mette a cercare uno spazio per aprire un suo locale». Ad aiutarlo c'è l'ex compagno Noam Bar, rimasto un amico inseparabile e diventato socio in affari. «All'epoca la cucina del Middle East era sconosciuta a Londra». I due chiedono a Tamimi di unirsi a loro. «Per mesi sono stato indeciso: temevo che se fosse andata male la nostra amicizia si sarebbe rovinata. Ma alla fine ho accettato», dice. La gastronomia di Notting Hill apre nel 2001. Aveva solo otto coperti, ma perlopiù viveva con l'asporto. Sopra la porta campeggiava la scritta «Ottolenghi» in caratteri stampatello color rosso acceso. «Yotam mi chiese se volessi aggiungere il mio nome: gli dissi di no, il sogno era suo. Lui stava rischiando tutto. Io avevo le mie capacità da investire, ma non i soldi». E, del loro duo di successo, Ottolenghi è ancora il frontman, il volto più noto. Anche grazie ad una fortunata rubrica sul Guardian, alcuni cookbook diventati bestseller e numerose apparizioni in tv. Tamimi, invece, è rimasto più in disparte, nell'ombra. «Non amo essere al centro dell'attenzione come Yotam. Lui è più spigliato di me. Il fatto che io preferissi raccontarmi attraverso i piatti ci ha reso complementari». Oggi, lui divide la sua settimana lavorativa fra i loro locali. «Sarebbe facile per me visitare una cucina, assaggiare e andare via, ma sento il bisogno di condividere ciò che conosco», dice. E di indirizzi, adesso, ne hanno sei. «Nel 2004 inaugurammo un vero e proprio ristorante in Islington, con 45 coperti». D'un tratto piatti come le melanzane al forno con za'atar, melograno e salsa di yogurt, oppure i broccoli grigliati con peperoncino, aglio fritto e fagiolini erano diventati celebri, amati e copiati. Così, in breve, aprirono altre due gastronomie in quartieri trendy come Belgravia e Spitalfields. Poi, il ristorante « Nop » a Soho nel 2012. E, infine, «Rovi» a Fitzrovia, due anni fa. «Tutti volevano provare la nostra cucina basata su ingredienti freschi e originali». Persino la regina Elisabetta che l'ha scelta per festeggiare alla Royal Academy of Arts il Diamond Jubilee della sua ascesa al trono. Durante l'intervista squilla il cellulare. È Ottolenghi. Parlano qualche minuto. «He is depressed», dice Tamimi sorridendo finita la telefonata. «È preoccupato perché tenere i ristoranti chiusi ha costi alti e in più l'incertezza sul futuro non permette di fare progetti».
Ma nessuno dei due è spaventato. «Quando si potrà riaprire, i tavoli si riempiranno e torneremo alla routine. Ma non credo che dopo il Covid sarà tutto come prima. Penso che si starà di più a casa e la domanda di delivery rimarrà costante. In questi mesi abbiamo avviato una dark kitchen per portare i nostri piatti ai londinesi e far lavorare le brigate. La manterremo attiva. Il problema, semmai, sarà trovare persone preparate da assumere: con la Brexit arriveranno meno professionisti e tanti hanno già lasciato il Regno Unito sentendosi rifiutati dal Paese». Ma nel futuro di Tamimi c'è anche l'Italia. «L'Umbria è la mia seconda casa. Sono venuto la prima volta 14 anni fa con Gianluca, un amico londinese originario di Limigiano. Da allora torno spesso. Mi sento parte della famiglia. E sua mamma Iolanda, adesso, è un po' anche la mia». Ora, dopo averci vissuto veramente, pensa che in futuro vorrebbe passare parte dell'anno in Italia. «Magari facendo consulenze nel mondo della ristorazione, oppure scrivendo un libro per raccontare la vostra cucina. Ingredienti come l'olio d'oliva e il basilico. Sapori che adoro come quelli del pecorino o della mortadella. O, ancora, le ricette di mamma Iolanda: dalle lasagne ai carciofi alla carbonara». Sarebbe il suo quarto cookbook. L'ultimo, scritto con la food writer Tara Wigley ed edito da Ebury Press, si intitola Falastin. Termine che in arabo significa Palestina. «È un viaggio nella cultura gastronomica della terra in cui sono cresciuto, fra unicità che adesso stanno emergendo grazie al talento di una generazione non impegnata solo a combattere», spiega Tamimi. Dentro sono raccontate con originalità storie, ingredienti e tradizioni. Ma questo libro per lui è speciale anche per un'altra ragione: gli ha dato l'opportunità di riconnettersi con la sua enorme famiglia. «Nel periodo in cui sono stato a Gerusalemme a fare ricerche, ogni giorno qualcuno di loro mi invitava a casa e cucinava per me: era un modo per dirmi che mi volevano bene. Certo, non posso dire di conoscerli davvero. Ma stiamo ricostruendo un rapporto. Sono felici dei miei successi. Ed io, che ero partito carico di rabbia, adesso quando torno a trovarli indosso sempre un sorriso».
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