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Il Giornale - La Repubblica Rassegna Stampa
03.10.2020 Usa verso il voto: il virus influenzerà le elezioni?
Commenti di Federico Rampini, Gian Micalessin

Testata:Il Giornale - La Repubblica
Autore: Federico Rampini - Gian Micalessin
Titolo: «L’incognita sul voto così il virus diventa l’arbitro della corsa - Il virus irrompe sulle elezioni (e Trump prova a cavalcarlo)»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 03/10/2020, a pag.3, con il titolo "L’incognita sul voto così il virus diventa l’arbitro della corsa" il commento di Federico Rampini; dal GIORNALE, a pag. 7, con il titolo "Il virus irrompe sulle elezioni (e Trump prova a cavalcarlo)", il commento di Gian Micalessin.

Ecco gli articoli:


Donald Trump, Joe Biden

LA REPUBBLICA - Federico Rampini: "L’incognita sul voto così il virus diventa l’arbitro della corsa"

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Federico Rampini

Il coronavirus era già centrale, ora diventa l’arbitro inappellabile della corsa alla Casa Bianca. Donald Trump positivo al test, prima «con sintomi lievi», poi ricoverato in un ospedale militare per una “cura sperimentale”, «affaticato ma di umore positivo », ha cancellato tutti i suoi impegni. La sua agenda originaria prevedeva perfino un comizio in Florida. Tuttavia il presidente «resta in carica», per ora è nell’esercizio dei suoi poteri. Fino a quando, non dipenderà solo da lui ma dal decorso della malattia. Proprio questo imprevedibile sviluppo del coronavirus apre a diversi scenari, sia per la campagna elettorale sia per il governo della superpotenza mondiale, il rapporto con il resto del mondo, addirittura la questione dei poteri di guerra qualora il presidente risulti “incapacitato”. Agli americani interessa di più l’impatto elettorale. I suoi avversari vedono nella notizia del contagio una nemesi, il castigo per chi è stato il leader mondiale dei negazionisti o riduzionisti. Per mesi Trump è stato il leader più in vista in una sorta di Internazionale populista (con Boris Johnson, Jair Bolsonaro) dedita a minimizzare il pericolo di questa pandemia. Trump lo ha fatto come leader dell’esecutivo, lanciando messaggi sbagliati sulla fine imminente della pandemia e contraddicendo gli stessi esperti che dovevano coordinare la risposta degli Stati Uniti; ha contribuito a una performance del suo paese piena di ritardi e di inefficienze. Lo ha fatto infine col suo comportamento personale: ha forzato i tempi sul ritorno ai comizi di massa, si è fatto vedere spesso senza mascherina, ha incoraggiato i suoi sostenitori a fare lo stesso. Si sospetta che lui possa essere stato contagiato perché ha continuato ad avere contatti ravvicinati con la sua collaboratrice Hope Hicks, positiva, ma potrebbe anche essere avvenuto il contrario: Trump ha continuato a frequentare eventi di massa e a circondarsi di collaboratori, prendendo poche precauzioni. La “tracciabilità”, nel suo caso, diventa impossibile. Lo scenario dei prossimi trenta giorni fino al voto è disseminato di incertezze e a scioglierle sarà prima di tutto il virus; in secondo luogo il livello di trasparenza che la Casa Bianca vorrà dare sul decorso della malattia. Finora Trump non ha brillato per la completezza dell’informazione, neanche sul proprio stato di salute; è chiaro però che un eventuale aggravamento non potrebbe nasconderlo a lungo. Nel caso che la malattia abbia un peggioramento, anche solo “alla Boris Johnson”, il presidente deve far scattare di propria iniziativa la procedura del 25esimo emendamento: il trasferimento dei poteri al suo vice Mike Pence, sia pure a titolo temporaneo. La procedura venne definita dopo l’assassinio di John Kennedy nel 1963 e poi fu usata la prima volta dopo l’attentato a Ronald Reagan, quando il presidente finì sotto i ferri del chirurgo. Se non è lui a trasferire volontariamente i poteri dovrà prendere l’iniziativa il vicepresidente, attraverso una complessa autorizzazione del governo e del Congresso. Pence diventerebbe a tutti gli effetti il capo dell’esecutivo. Con una ricaduta per la campagna: gli americani comincerebbero a immaginarsi che votare per Trump può significare una presidenza Pence. Il livello di popolarità e di carisma del numero due tra i fan di Trump è tutto da verificare, anche se la base di consenso del vicepresidente nella destra religiosa forse è perfino superiore a quella del presidente. La politica estera finirebbe pro tempore – forse molto a lungo – nelle mani di Pence, Pompeo, il Pentagono, la triplice P che rappresenta l’establishment. Poi c’è lo scenario “mild”: il decorso leggero, con il presidente tutt’altro che incapacitato dalla malattia. Questo apre perfino una possibilità di rimonta. Nell’ipotesi più benigna dal punto di vista sanitario, cioè che oltre ad avere una forma lieve del virus Trump ne guarisca prima del voto, tenterà di trasformare questa sua vicissitudine personale in una moderna “ordalia”, il giudizio divino del Medioevo. Lungi dall’essere una punizione per la sua leggerezza, la malattia diventerebbe la conferma delle sue tesi: che il coronavirus non deve spingerci al panico o a misure estreme, che da questa epidemia molti guariscono, che bisogna invece concentrarsi sul danno economico e rilanciare la crescita al più presto. Almeno una parte dei suoi seguaci lo considererebbe un miracolato, o un superman, e si sentirebbe ancor più galvanizzata. Tutto questo è nel regno delle ipotesi. L’impatto immediato invece lo indebolisce, proprio dove lui era già più debole. È in un ospedale, limitato nella sua capacità di comunicare con il Paese proprio quando il conto alla rovescia si fa serrato e gli restano solo trenta giorni utili per una rimonta nei sondaggi, dove era sfavorito già prima della malattia.

IL GIORNALE - Gian Micalessin: "Il virus irrompe sulle elezioni (e Trump prova a cavalcarlo)"

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Gian Micalessin

"Quello che non mi uccide mi fortifica» - ripeteva Friedrich Nietzsche. Non sappiamo se varrà anche per un Donald Trump che i 74 annidi età e una corporatura decisamente sovrappeso trasformano in un paziente ad altissimo rischio. Ma al di là delle conseguenze fisiche - con cui si misurerà lo stuolo di medici e virologi della Casa Bianca - quel che tutti vorrebbero capire sono le conseguenze politiche ed elettorali di un morbo abbattutosi come una nemesi su un presidente pronto, fino a pochi giorni fa, a negare e sminuire pericolosità e gravità del virus. Da questo punto di vista il contagio, manifestatosi a soli 32 giorni dal voto, sembra decisamente un colpo fatale. Nella migliore delle ipotesi Trump non potrà tornare in pista prima di quindici giorni. E se anche riuscirà a farlo non potrà continuare dribblare la questione Covid spostando l'attenzione sull'economia, sulla Cina o sui disordini causati dalle proteste anti-razziali e dai movimenti «antifa». Come dire sconfitta garantita. Ma poi c'è l'imponderabile. E quello, in guerra come in politica, può sempre ribaltare gli schemi finendo con il dar ragione al vecchio Nietzsche. Soprattutto se accompagnato dal «fattore umano», l'elemento più nascosto e imprevedibile di ogni competizione. Un elemento su cui già oggi sembra scommettere l'inquilino della Casa Bianca. Per capirlo basta leggere tra le righe di quei tweet che Trump non ha mai nascosto di considerare l'arma più efficace per comunicare e, insieme, colpire gli avversari. «We will get through this TOGETHER» - ovvero «Supereremo questo INSIEME» - twittava ieri Donald annunciando la malattia . «We will all get through this together» - «Supereremo questo tutti insieme» - gli faceva eco la moglie Melania. Quanto basta per intuire che su quell' «insieme» si giocherà la strategia di Potus per restare in ballo. «Insieme» in quel tweet diventa la parola magica per mettersi al livello degli altri americani dimostrandosi vulnerabile come loro - e quindi uguale a loro - davanti a un male capace di piegare la nazione trasmettendosi dall'ultimo al primo cittadino. «Insieme» significa pronto a reagire, come saprà reagire l'America quando riuscirà a scrollarsi di dosso questa maledizione. «Insieme» equivale a sussurrare «datemi fiducia per altri quattro anni e consentitemi di curare l'America come sto curando me stesso». Certo illudersi di potere accendere la solidarietà popolare dopo aver sottovalutato e negato una malattia che manda all'altro mondo mille americani al giorno è una bella pretesa. Soprattutto per un presidente che anche quando giocava all'imprenditore da «reality show» ha sempre preferito anteporre la freddezza manageriale a quella solidarietà umana su cui tenta ora si scommettere. Senza contare l'altra battaglia, quella combattuta dal Presidente tra le stanze di una Casa Bianca dov'è recluso assieme alla moglie. Per intravederne i contorni basta la goccia di veleno femminile di cui è intriso il tweet di Melania. «As too many Americans have done this years , @potus e I are quarantining at home» ovvero «come troppi americani hanno fatto quest'anno @potus ed io siamo in quarantena a casa». In quel «troppi» c'è la staffilata di Melania a un marito che non ha rinunciato a tirarsi dietro, quando era ormai sospettosamente raffreddata, Hope Hiks l'ex-modella, amica dell'odiata figlia Ivanka che Trump ha trasformato in affascinante consigliera. Un peccato che non solo Melania, ma anche tanti americani, non sono disposti a perdonargli.

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