Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La Lettura di oggi, 20/09/2020, a pag.20, con il titolo 'Cittadini e polizia, serve un'alleanza', l'intervista di Viviana Mazza a Roland G. Flyer Jr.
Viviana Mazza
Roland G. Flyer Jr
Nel 2007, a 30 anni, l'economista Roland G. Flyer Jr divenne il più giovane afroamericano con una cattedra a Harvard, famoso per i suoi studi sulle discriminazioni razziali. Ha fatto molto discutere un suo lavoro pubblicato nel 2016 sul «Journal of Political Economy», in cui esplorava le differenze razziali nell'uso della forza da parte della polizia. Nei casi di violenza non letale, esaminando cinque milioni di interazioni tra agenti e civili a New York, Fryer rilevava una netta discriminazione a sfavore dei neri e dei latinos: hanno il 53% di probabilità in più dei bianchi di essere picchiati (anche se obbediscono agli agenti, hanno il 21% di probabilità in più di subire abusi). Nelle sparatorie, invece, analizzando 1.399 casi di violenza della polizia tra il 200o e il 2015 in 5 Stati americani, Fryer non ha trovato differenze razziali. Nel 2019 lo studioso è stato sospeso da Harvard per due anni, per battute e messaggi a sfondo sessuale denunciati da quattro sue assistenti: ha chiesto scusa per il comportamento inappropriato, pur definendo «profondamente ingiusta» la sospensione con la motivazione di «molestie sessuali». In questi mesi le sue ricerche sono state spesso citate, per sostenere ad esempio che non c'è razzismo nella polizia: respingendo queste e altre interpretazioni ideologiche, in un intervento recente sul «Wall Street Journal» Fryer ha spiegato che a lungo si è domandato la ragione di quei risultati che contrastavano peraltro con la sua esperienza vissuta.
Uno dei problemi di ricerche come la sua è l'assenza di dati completi. «Sono intervenuto nel dibattito sulla brutalità della polizia perché francamente non ci sono molti dati, ma dobbiamo prendere decisioni sulla base di quelli disponibili, altrimenti seguiremo l'umore o il vento che tira, cosa che mi fa ancora più paura. Vorrei che i dati influenzassero le riforme della polizia». Lei spiega di essere «un ragazzo del Sud, cresciuto senza madre, sperimentando sulla propria pelle la brutalità della polizia», ma anche un economista che crede «nel potere dei dati».
Come mai i risultati del suo studio sembrano contraddire i video di indubbia brutalità della polizia soprattutto contro i neri? «Quanti di questi video avremo visto negli anni: 16, forse 20? È sulla base di essi che la psiche americana e forse mondiale vede le morti per mano della polizia: gli agenti fermano qualcuno per un faro posteriore guasto, la situazione precipita, il poliziotto spara. Ci sono migliaia di casi, però, e questo non è ciò che succede in media. Di solito c'è un crimine violento in atto, la polizia arriva, la persona agita un coltello o una pistola, c'è una sparatoria. Queste cose nei video non compaiono. Noi abbiamo una distribuzione di dati che vanno dal caso in cui la polizia è totalmente giustificata a sparare fino all'estremo opposto: la morte di George Floyd. Tempo fa però uno studente mi fece riflettere: mi invitò a pensare ai 50 casi peggiori dell'anno — quelli in cui il comportamento degli agenti era stato più brutale e immotivato —e a valutare se, tra questi, i neri sono maggiormente rappresentati. Come economista non lo so, non ho i dati, ma da ragazzo del Sud — e intuitivamente dopo aver visto quei filmati — dico di sì. Penso che ci siano differenze razziali nei casi estremi, ma non nella media dell'uso letale della forza da parte della polizia».
Sulla base dei risultati, lei suggerisce che la prima riforma della polizia dovrebbe consistere nel ridurre le forme di violenza «non letale», che ricevono assai meno attenzione delle sparatorie con vittime. «Ci sono migliaia di casi con uso della forza ogni giorno — per fortuna non migliaia di sparatorie — e non c'è quasi nessun incentivo a porvi fine. Ed è qui che secondo me è possibile negoziare con la polizia. Se le vite degli agenti sono in pericolo, è difficile spingerli a usare tattiche diverse prima di sparare. Non dico che non si debba fare, ma è più arduo. Credo che si possa iniziare negoziando per ridurre la violenza non letale (contro quanti vengono malmenati anche se obbedienti). Serve anche costruire la fiducia nelle comunità. Nel 2016 incontrai Barack Obama, insieme a rappresentanti di Black Lives Matter e leader dei diritti civili; ricordo che uno di questi ultimi disse che, se i neri non fossero vittime di abusi ogni singolo giorno, allora quando c'è una sparatoria sospetta sarebbero più disposti a credere alla polizia. Ma se mi picchi ogni giorno e poi a due isolati c'è una sparatoria, penserò naturalmente e razionalmente che c'è stata discriminazione. Non c'è fiducia. Bisogna trovare un punto di partenza per costruirla».
A quali incentivi pensa? «Quando un agente spara a qualcuno c'è un'inchiesta immediata, vieni richiamato dalla strada: molti poliziotti con cui ho parlato lo vedono come un evento che cambia la vita, anche in casi in cui sparare era chiaramente giustificato. Questo non succede per gli usi "minori" della forza. Non dico di tenere l'agente a casa per sei mesi, ma per una settimana sì, e deve essere chiaro che il caso verrà messo sotto inchiesta fino a valutare se la forza era giustificata. Inoltre, è necessario un maggiore addestramento: i poliziotti con cui ho parlato non sanno quale sia il livello appropriato nell'uso della forza, nessuno glielo dice, devono capirlo da soli».
Cosa pensa di «defund the police», il taglio ai finanziamenti? «Penso che sia difficile aumentare l'addestramento riducendo i soldi. La domanda è: a cosa togli i fondi?».
La polizia è chiamata a intervenire anche in crisi legate alla salute mentale, che non si risolvono con le armi. E se i soldi venissero usati per servizi diversi? «Alcune città lo hanno fatto, ma penso anche che, se qualcuno ha problemi mentali, la situazione possa degenerare. Bisogna decidere qual è la tolleranza del rischio che siamo disposti ad accettare».
Le indagini federali sulla brutalità della polizia sono cruciali, ma lei nota che va trovato un modo per farle senza subire conseguenze negative. “Il nostro studio — e non è l'unico — mostra che, quando c'è un'indagine federale dopo casi di violenza della polizia che ricevono una grossa copertura mediatica, gli interventi successivi degli agenti diminuiscono in modo significativo, e allora gli omicidi aumentano. A Chicago dopo l'uccisione di Laquan McDonald le azioni di polizia si ridussero del 90%, a St. Louis (l'area metropolitana di Ferguson) del 50%, in California negli anni Novanta del 60%, a Baltimora dopo Freddie Gray si sono azzerate. Nei cinque casi da noi analizzati, in un periodo di 24 mesi centinaia di vite sono andate perdute. Guardate al tasso di omicidi a Minneapolis dopo George Floyd. Per me Black Lives Matter non è soltanto uno slogan, ma è un'esperienza vissuta, sono profondamente rattristato per le vite dei neri che vengono spezzate dai poliziotti, ma guardo al numero totale. Sono in prima linea quando si parla di rimuovere gli agenti brutali, ma abbiamo bisogno della polizia. Se vogliamo togliere fondi alla polizia, perché non investiamo prima nell'istruzione, nelle case, in fattori che allontanano la gente dal crimine? Così possiamo fare in modo che la polizia definanzi sé stessa nel corso di 5 o 10 anni, anziché farlo subito e rischiare di perdere migliaia di vite di neri».
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