Regole antirazziste agli Oscar? Commenti di Antonio Monda, Giulio Meotti
Testata:La Repubblica - Il Foglio Autore: Antonio Monda - Giulio Meotti Titolo: «Un po’ di Alaska nel Padrino - Ci mancavano solo le regole antirazziste agli Oscar»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA, di oggi 10/09/2020, a pag. 24, con il titolo "Un po’ di Alaska nel Padrino", il commento di Antonio Monda; dal FOGLIO, a pag. 1, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo "Ci mancavano solo le regole antirazziste agli Oscar".
Ecco gli articoli:
REPUBBLICA - Antonio Monda: "Un po’ di Alaska nel Padrino"
Antonio Monda
Era nell’aria da tempo, ma la decisione dell’Academy di considerare “l’inclusione” come requisito indispensabile per essere eleggibili agli Oscar a partire dal 2024, apre una nuova frontiera nel rapporto tra arte, industria, libertà espressiva e correttezza politica. Prima di riflettere su questa novità, clamorosa e discutibile, è necessario confrontarsi con la storia degli Oscar, che ha visto mortificate le presenze femminili e la gente di colore. A questo dato va aggiunta la differenza di salario: una star maschile prende mediamente il 30% in più di una femminile. Si tratta di dati certamente intollerabili, che affondano le proprie radici in una sottocultura antiquata (fino a due anni fa l’età media di un votante dell’Academy era superiore ai sessant’anni) con venature di misoginia e razzismo, e che ha ripetutamente penalizzato numerosi talenti. Per ovviare a questo problema oggettivo, l’Academy ha allargato in un primo momento il numero dei votanti di 819 elementi su un totale di 9921: i nuovi inviti sono stati operati in buona parte secondo il criterio della diversità, ottenendo tuttavia - sinora - risultati al di sotto delle aspettative. Inevitabilmente, in risposta a una sempre maggiore pressione sociale, culturale e politica, in particolare da parte dei movimento “#oscarsowhite”, ha ufficializzato il nuovo regolamento, che prevede che nelle pellicole candidate come miglior film sia indispensabile la presenza almeno di un attore a scelta tra queste categorie: “asiatico, ispanico, nero non americano, afro-americano, nativo-americano, abitante dell’Alaska, mediorientale, nord-africano, hawaiano e un rappresentante delle isole del Pacifico.” Non solo: nei ruoli secondari è indispensabile scritturare, oltre ad un appartenente a un qualunque tipo di minoranza, almeno uno a scelta tra un interprete Lgbtq+ o affetto da disabilità, e gli studios saranno tenuti ad assumere almeno il 30% del loro staff secondo questo stesso criterio, anche per quanto riguarda ad esempio gli uffici marketing. Negli anni che ci separano dal 2024 sarà inoltre necessario esibire, per il momento in maniera confidenziale, un documento che testimonia di aver rispettato gli inclusion standards. In una dichiarazione congiunta, il presidente dell’Academy, David Rubin, e l’amministratrice delegata Dawn Hudson, hanno dichiarato che questa scelta è stata effettuata in modo da avviare una rivoluzione all’interno di Hollywood: è «una novità che serve a catalizza cambiamenti essenziali e duraturi per la nostra industria». Il punto però è che non si tratta solo di un’industria, ma di una fondamentale realtà artistica e culturale: in superficie Hollywood applaude alla novità che mette forzatamente fine a un’indubbia ingiustizia, ma in privato cresce il malumore, lo sconcerto e la preoccupazione che tali norme generino una limitazione della libertà creativa, con film costruiti da norme che non hanno nulla a che fare con l’arte. Solo per fare un esempio, secondo questi criteri un capolavoro come Il Padrino non sarebbe eleggibile e forse neanche possibile, e per citare la passata edizione degli Oscar, almeno due delle pellicole candidate come miglior film, The Irishman e 1917 , non sarebbero state al loro volta eleggibili. Nella Hollywood di oggi sono pochi coloro che escono allo scoperto denunciando una decisione nata con le migliori intenzioni che finisce tuttavia per castrare la libertà creativa: tra queste Kirstie Alley, che ha definito le regole «dittatoriali e anti-artistiche». Non è l’unica, ma il dibattito e le proteste avvengono rigorosamente a porte chiuse. Chi si occupa di cinema deve tener presente le imperdonabili assenze del passato, anche recente, tuttavia l’imposizione per statuto di quote estese ad ogni tipo di minoranza discriminata, genera almeno due gravi problemi: un’indubbia limitazione nella libertà di creare, selezionare e premiare un film, e il sospetto che alcune scelte nascano non in base alla qualità ma per ottemperare a questo obbligo. Se Hollywood continuerà a dominare il cinema mondiale dovremmo aspettarci opere anestetizzate, costruite con il bilancino, e non è soltanto una battuta quella di chi invita a immaginare Francis Ford Coppola sul set del Padrino costretto a prevedere un eschimese o un nativo americano.
IL FOGLIO - Giulio Meotti:"Ci mancavano solo le regole antirazziste agli Oscar"
Giulio Meotti
Roma. Alcune delle pellicole che in questi anni hanno vinto l'Oscar come miglior film, nel 2024 potrebbero essere chiamate a restituire l'ambita statuetta: "II caso Spotlight", "Il discorso del re", "Non è un paese per vecchi", "II gladiatore", "A beautiful mind", "American Beauty", "Titanic", "Braveheart", "Il paziente inglese", "II silenzio degli innocenti", "Schindler's List"... Questo per andare indietro solo agli anni Novanta. Non si salveranno certo "Ben Hur", "Il cacciatore", "Il Padrino"... Saranno forse chiamati a restituire l'Oscar non perché non lo meriteranno più, ma perché in quei film non ci sono protagonisti di colore, spesso neanche in ruoli secondari. Né ci sono quote riservate alla comunità Lgbt. Ovviamente non accadrà niente di tutto questo, anche se proprio il 2024 è l'anno che l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che assegna gli Oscar, ha scelto per far entrare in vigore le nuove regole per candidarsi a miglior film. Registi e produttori hanno tutto il tempo per adeguarsi. Un canone ideologico da seguire per poter essere anche solo fra i prescelti al titolo di miglior pellicola. Il film dovrà dunque soddisfare due dei quattro nuovi standard stabiliti, ha affermato l'Accademy, che corre ai ripari dopo le polemiche della campagna #OscarsSoWhite e Black Lives Matter. La pellicola che vuole candidarsi a miglior film deve avere almeno un personaggio principale o un personaggio secondario significativo appartenente a "un gruppo razziale o etnico sottorappresentato"; almeno il trenta per cento dei ruoli secondari deve andare a due "gruppi sottorappresentati"; infine la trama principale o la narrazione devono essere focalizzate su un gruppo sottorappresentato. Per gruppi sottorappresentati si intendono donne, persone di colore, Lgbt o con disabilità. Le produzioni devono anche compilare dei "moduli di standard di inclusione". In pratica "diversity" significa "niente maschi bianchi" (lo ha detto la candidata all'Oscar Charlotte Rampling). Peggio ancora se eterosessuali e cristiani. Il Los Angeles Times fa notare che "alcuni recenti candidati al miglior film con attori quasi esclusivamente bianchi e maschili — tra cui il film sulla Prima guerra mondiale `1917' e l'epica gangster 'The Irishman' — potrebbero avere difficoltà a soddisfare i nuovi standard". Per non parlare di "Joker". E che ne facciamo di "Dunkirk", "L'ora più buia" e "Hurt Locker", grandi film di guerra che non passerebbero l'esame imposto dall'Academy che vuole trasformarsi in una sorta di Eurovision cinematografica? Poche, finora, le critiche dagli attori. Kirstie Alley, che ha vinto un Emmy e un Globe, ha twittato che le regole di Hollywood sono "dittatoriali". E ha aggiunto: "Questa è una vergogna per gli artisti di tutto il mondo... Puoi immaginare di dire a Picasso cosa doveva mettere nei suoi fottuti dipinti? Avete perso la testa". Non supererebbero l'esame neanche film dal chiaro messaggio progressista, come "Le regole della casa del sidro", candidato a sette statuette, compresa quella per il miglior film, pellicola pro aborto ma senza neanche l'ombra di un nero o un gay in ruoli decisivi. E che ne facciamo di "Cleopatra", il film del 1963 reo di appropriazione culturale con la bianca Liz Taylor nei panni della regina egizia? E "Rocky", questo simbolo della tanto esecrata "mascolinità bianca eterosessuale"? E "La mia Africa", con tutte quelle fantasie coloniali? E le nuove norme significherebbero forse che il primo film straniero a vincere la statuetta, "Parasite", sarebbe interdetto perché in Corea del sud i coreani non sono una minoranza? L'Academy con queste nuove norme segna il ritorno allo spirito dell'Agitprop sovietico, il "realismo socialista" dei film moscoviti, tutti educativi e didattici, in cui kolkoziani e giovani operai cantavano e ballavano con l'eroe positivo comunista sempre abbronzato, sempre felice, sempre muscoloso, sempre ligio ai diktat del Partito. Quando gli fu chiesto un'opinione, lo scrittore sovietico Ilja Ehrenburg rispose: "Il realismo socialista? Nessuno sa dire cosa sia. Forse è ciò che piace alla cricca che difende il proprio posto e che domina ancora". Anche a Hollywood, forse, hanno paura di essere travolti dalla "giustizia sociale".
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