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Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.09.2020 Alain Finkielkraut: 'Vi racconto la mia vita'
Lo intervista Stefano Montefiori

Testata: Corriere della Sera
Data: 06 settembre 2020
Pagina: 9
Autore: Stefano Montefiori
Titolo: «'Devo tutto a Kundera. Mi ha cambiato la vita'»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La lettura di oggi, 06/09/2020, a pag.9, con il titolo 'Devo tutto a Kundera. Mi ha cambiato la vita' l'intervista di Stefano Montefiori.

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Stefano Montefiori

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Alain Finkielkraut

“Milan Kundera mi ha cambiato la vita», scrive Alain Finkielkraut nel libro autobiografico In prima persona, la sua «memoria controcorrente» pubblicata in questi giorni da Marsilio. Davanti a un caffè del Select, storico locale di Montparnasse, l'intellettuale più amato e odiato di Francia spiega a «la Lettura» perché Kundera è stato così importante, e perché c'è di mezzo il «Corriere della Sera».
Come ha conosciuto Kundera? «Nel 1978 l'allora corrispondente del "Corriere", Alberto Cavallari, si era messo d'accordo con Michel Foucault per creare una piccola squadra che raccontasse le tendenze intellettuali nascenti, e realizzare reportage di idee da pubblicare poi sul "Corriere della Sera". Io ero una specie di segretario generale di questa cellula, e feci due reportage: uno negli Stati Uniti sulla nuova destra libertaria, l'altro con Benny Lévy sulla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Egitto. Poi ho voluto proporre un'intervista a Milan Kundera, Foucault era entusiasta e mi ha detto di provarci. Così ho telefonato al grande scrittore ceco in esilio a Parigi».
Kundera, oggi novantunenne, è noto per non rilasciare interviste. «E per non rispondere al telefono. Oppure rispondeva la moglie Vera, in modo sempre molto evasivo. Ma la mia ostinazione ha avuto ragione delle loro paure e ho ottenuto un appuntamento. Alla fine sono riuscito a intervistarlo».
Un colloquio straordinario che ha occupato, per tre giorni, la «terza pagina» del «Corriere della Sera» nel giugno 1980. Avete parlato dell'esilio, della primavera di Praga, della Cecoslovacchia, quell'«Occidente colonizzato che non ha mai colonizzato nessuno», del marxismo lirico che ancora stregava tanti intellettuali. «È nata così un'amicizia che dura fino a oggi e che per me è una benedizione. A lui devo il fatto di avere capito meglio il mondo nel quale vivo. Kundera ha parlato di una realtà che tutti pensavamo di conoscere molto bene, il totalitarismo sovietico, ma con un vocabolario inedito: ha introdotto i nomi propri dei Paesi, delle civiltà. Accanto ai paradigmi "comunismo e capitalismo", "totalitarismo e democrazia", Kundera ha spiegato che quel che accadeva in Europa centrale non si riassumeva in una tragedia solo politica, ideologica, e parlava di un giogo "russosovietico". La civiltà russa voleva impadronirsi di un'altra e la Cecoslovacchia era un Occidente colonizzato, cosa che per noi, che avevamo assistito alla guerra del Vietnam, sembrava un ossimoro: l'Occidente, prima di Kundera, poteva essere solo colonizzatore. Kundera mi ha fatto capire che in Europa centrale si svolgeva quello che più tardi si sarebbe chiamato uno "scontro di civiltà"».
Con gli occhi di Kundera lei poi ha osservato altri conflitti? «Quello sguardo mi accompagna ancora oggi. Devo a Kundera il modo in cui ho interpretato la guerra nell'ex Jugoslavia, sostenendo il diritto di croati e sloveni a reintegrare l'Europa perché la Jugoslavia, Stato diviso tra alfabeto latino e cirillico, non era una nazione. E non dimentico la lezione di Kundera quando guardo agli effetti del cambiamento demografico in Europa. Gilles Kepel parla di una "frattura francese" e penso che sì, una parte di immigrati rifiutano di stare al gioco dell'assimilazione perché vengono da un'altra civiltà, alla quale non hanno intenzione di rinunciare. Poi Kundera è stato fondamentale anche per i miei studi di letteratura». L'ha riconciliata con il romanzo. «Avevamo un'idea radicale della modernità, che in letteratura doveva manifestarsi nell'abbandono della mimesis, della rappresentazione. Il nouveau roman era, come diceva Roland Barthes, la "festa del significante", la scrittura che diventa oggetto di sé stessa. Arriva Kundera e ci racconta tutta un'altra storia: essere moderni non è rompere con il passato, ma piuttosto avanzare con nuove scoperte sulla strada che abbiamo ereditato».
È così che è arrivato a Philip Roth. «Grazie a Kundera mi sono riavvicinato al romanzo come alta forma di investigazione della realtà umana, con le opere di Dostoevskij, Henry James, Joseph Conrad, Vasilij Grossman, Albert Camus, e poi Philip Roth, certamente, l'altro romanziere che mi ha influenzato di più. I suoi libri non rimangono mai sullo scaffale, li devo rileggere di continuo. Come Kundera, Roth ha formato la mia visione del mondo. Guardate la follia della cancel culture che dilaga oggi negli Usa, questi benpensanti feroci che dominano le università: è La macchia umana di Roth».
Piccolo passo indietro. Michel Foucault come l'ha conosciuto? «Nel 1977 Foucault aveva scritto una lettera a Pascal Bruckner, autore assieme a me del Nuovo disordine amoroso, per farci i complimenti: avevamo spiegato che la liberazione sessuale di cui si parlava tanto non rendeva giustizia né al desiderio né all'amore».
Fu così che Alain Finkelkraut, oggi associato all'immagine di severo Intellettuale, partecipò a un pomeriggio lisergico a casa Foucault. «Se lo racconto nel libro non è per darmi un tono ma per mostrare l'apertura di idee di Foucault. All'epoca le droghe si trovavano ovunque e una domenica pomeriggio uno dei suoi amici mi chiamò dicendo: "Abbiamo un po' di Lsd, vieni". Mi precipitai in rue Vaugirard. Sono nato nel 1949, "ho fatto il Sessantotto", come si dice. Ma non ho mai amato la cannabis, forse perché non sono un buon fumatore. L'Lsd, l'acido lisergico, invece mi piaceva: per carità, l'ho usato solo qualche volta, ma nessun bad trip, nessuna allucinazione spettacolare, solo la capacità di ridere a crepapelle con chi ti sta intorno. In generale, preferisco essere eccitato che inebetito. Comunque, quel pomeriggio, arrivo da Foucault e viene lui ad aprirmi la porta. Sulla moquette ci sono gli amici sotto acido, ma il padrone di casa mi invita ad andare nel suo studio per parlare un po'. Abbiamo discusso appassionatamente fino al tramonto».
Nel suo libro dedica molto spazio a Charles Péguy. «Per il suo attaccamento alla scuola, che per me è in crisi terminale. E poi perché mi aiuta a riconciliarmi con me stesso quando dubito del mio lavoro. Nel rgoo Péguy fondò "Les Cahiers de la Quinzaine", nei quali affrontava le miserie del presente. Un po' come faccio io. Quando mi dico che rischio di diventare un povero commentatore dell'attualità mi ricordo di Péguy, certo mutatis mutandis. Kundera ha detto di me che sono "l'uomo che non sa non reagire"».
Per questo si è attirato un'infinità di attacchi, specie da chi la considera un reazionario. «"Reazionario", questo marchio di infamia. Non sono certo che qualsiasi novità sia necessariamente un miglioramento, per non parlare del mio essere sostenitore del diritto di Israele a esistere, cosa che mi rende infrequentabile per alcuni. Eppure "reazionario" è un'etichetta che sento di non meritare».
Nel maggio 2002, nei giorni della mobilitazione contro Jean-Marie Le Pen passato al ballottaggio delle presidenziali, lei partecipò a un «dibattito repubblicano» al Bataclan, locale destinato a diventare tragicamente famoso, accanto al futuro premier JeanPierre Raffarin, al presidente mancato Dominique Strauss-Kahn e ad altri. Fu l'unico a dire frasi come: «È osceno che persone In grado di mandare i propri figli al liceo Henri IV di Parigi si permettano di dare lezioni agli abitanti delle periferie che votano Le Pen». «Sono felice che lei mi ricordi queste parole, e sollevato, perché temevo di avere partecipato anche io a quel clima teatrale, lirico e fantasmatico nel quale tutti ci prendevamo come dei resistenti. Una cosa un po' ridicola, si parlava di JeanMarie Le Pen come del ritorno del fascismo. Non era vero. In certe periferie i francesi non si sentono più a rasa, e allora come oggi la risposta sarebbe affrontare una inquietudine legittima, non certo abbandonare il problema nelle mani dell'estrema destra per poi criminalizzarla».
Le cose adesso sono cambiate, lei non è più solo. Ma cosa pensa di certi leader che hanno fatto di una pretesa connessione con la realtà la loro offerta politica, e sono arrivati al potere? Per esempio Trump. «È terribile che la volontà di dire le cose come stanno sia incarnata da un presidente megalomane, incolto e capriccioso come un bambino. Lo spettacolo offerto dagli Stati Uniti oggi è scoraggiante: si affrontano un Partito repubblicano rappresentato in modo caricaturale da Trump e una sinistra radicale che pratica una cancel culture di cui Joe Biden sembra prigioniero. L'uno rinforza l'altro. Siamo stretti nella morsa di due idiozie».

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