Il Corriere ancora contro l'accordo Israele-Emirati Nel pezzo di Antonio Armellini, ex collaboratore di Aldo Moro e Altiero Spinelli
Testata: Corriere della Sera Data: 06 settembre 2020 Pagina: 30 Autore: Antonio Armellini Titolo: «L'accordo fra Israele e Emirati arabi è una vera svolta?»
Riporendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/09/2020, a pag.30, con il titolo "L'accordo fra Israele e Emirati arabi è una vera svolta?" l'analisi di Antonio Armellini.
Antonio Armellini è stato collaboratore di Aldo Moro alla Farnesina e a Palazzo Chigi, Portavoce di Altiero Spinelli alla Commissione di Bruxelles, ambasciatore in Algeria, in India, all’OCSE a Parigi, capo della missione italiana in Iraq nel 2003-04. Non stupisce, con questi incarichi alle spalle, che attacchi Israele e l'accordo di pace tra Stato ebraico e Emirati arabi. Ricordiamo infatti la linea ostile a Israele sia di Moro sia di Spinelli. Solo chi è a priori contro Israele mette in dubbio le conseguenze positive di un trattato di pace che aiuta la distensione e la cooperazione in Medio Oriente. Ci chiediamo quale sia stata la funzione della Farnesina in tutti questi anni. Una analisi sul lavoro di molti ambasciatori è sempre più urgente, ma chi sarà a proporla? Stante l'esempio negativo della Commissione Esteri, quale partito la richiederà?
Ecco l'articolo:
Antonio Armellini
Benjamin Netanyahu, Mohammed Bin Zayed
II faro dell'attenzione mediatica sull'accordo di pace fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti si è attenuato e sono cresciute le interpretazioni e i dubbi: accordo fatto più per dividere che per unire il mondo arabo, soffiando sulla rivalità sunnita-sciita; abile manovra per colpire l'Iran e le sue ambizioni di potenza regionale; mossa propagandistica di Trump in chiave elettorale, e così analizzando. Ci sono elementi di verità in queste letture, ma resta il fatto che l'intesa annunciata segna un passo concreto — dopo molti anni — verso l'unica soluzione possibile; quella del riconoscimento della mutua legittimazione per israeliani e palestinesi a coesistere in un territorio che appartiene a entrambi. Una soluzione sfuggita a Oslo nel 1993, perla quale Sadat ha probabilmente pagato con la vita e che, a detta di molti, solo un nazionalista israeliano intransigente potrebbe imporre. Ieri Begin, oggi Netanyahu. Era l'unica soluzione anche per Moshe Dayan. Nel marzo 1971, al termine di una complessa visita in Israele del ministro degli Esteri Moro, venimmo invitati per il Shabbat nel kibbutz Gesher, come all'epoca di prammatica; era quello del potere e visi ritrovava in pratica l'intero governo. Nel clima rilassato delle conversazioni serali Dayan, forse incuriosito dal fatto che ero di gran lunga il più giovane della delegazione di Moro, mi prese da parte per chiacchierare. Era il fresco vincitore della prima delle guerre che si sarebbero succedute e l'eroe incontrastato del momento; mi aspettavo che esaltasse il suo successo. Invece si dichiarò pessimista per il futuro e deluso dell'atteggiamento del suo governo, che non capiva come l'essenza della vittoria non risiedesse nel rafforzamento di un dominio territoriale comunque fragile, bensì nell'opportunità di fare da posizioni di forza un'offerta di pace generosa, da cui Israele per primo avrebbe tratto il maggior vantaggio. Siamo un Paese —disse — che in termini di solidità democratica e sviluppo economico non ha eguali in una regione nella quale siamo assediati, ma che rappresenta invece il nostro naturale mercato di sbocco. La combinazione positiva fra la nostra superiorità tecnologica e capacità produttiva da un lato, e l'abbondanza di manodopera unita alla domanda potenziale della regione dall'altro, rappresenterebbe la vera garanzia di sicurezza a lungo termine per Israele. Temo che non succederà, aggiunse, perché il vento sta cambiando e l'intolleranza rischia di prevalere sul ragionamento. Sono passati più di cinquant'anni: che sia la volta buona?
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