Giorgio Bocca dal filo nazifascismo alla Resistenza Commento di Gian Antonio Stella
Testata: Corriere della Sera Data: 27 agosto 2020 Pagina: 33 Autore: Gian Antonio Stella Titolo: «Giorgio Bocca sapeva cambiare idea»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/08/2020 a pag.33 con il titolo "Giorgio Bocca sapeva cambiare idea" il commento di Gian Antonio Stella.
Giorgio Bocca partecipò negli ultimi mesi alla Resistenza contro fascisti e nazisti, è giusto quindi ricordarlo. Altrettanto giusto è ricordare la sua giovanile adesione al regime fascista, che segnò la prima parte della sua vita, fino al punto di scrivere a 22 anni severi rimproveri a Mussolini che non si comportava come Hitler nei confronti degli ebrei . Peggio di Bocca fece Dario Fo, che non solo aderì al fascismo, ma mentre Bocca combatteva da partigiano partecipò alla guerra dalla parte della Repubblica di Salò, salvo poi saltare dall'altra parte della barricata alla fine del conflitto, prendendo la tessera del PCI, come fecero molti intellettuali fascisti per sbianchettare il proprio passato.
Ecco il commento:
Gian Antonio Stella
Giorgio Bocca
“Dormo in una stanza del Dugento, pranzo in un salone del Dugentocinquanta, cammino su un selciato, nuovo nuovo, del Trecento e mi informo sui fiorini d'oro incassati dalla Salimbeni e figli, commerciando sete lungo la via Francigena e raccogliendo le decime per conto di Onorio IV. È colpa mia se qui, il miracolo economico è avvenuto sette secoli or sono?». Cento anni dopo la sua nascita a Cuneo il 28 agosto 1920, non si può ricordare Giorgio Bocca (foto) senza partire da uno dei suoi incipit. Straordinari. Figlio di due insegnanti, tirato su dalla scuola fascista (tipico temino alle elementari: «Il Maestro ci ha spiegato che gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c'è Credere, Obbedire, Combattere»), campioncino di sci col culto del Monviso («un totem dominante»), premiato dal Duce per una vittoria nella staffetta ai Littoriali del Guf («Arrivò nel salone di palazzo Venezia con un'ora di ritardo, passò rapido fra noi inneggianti, guardandoci a muso duro e un po' sdegnoso, e lasciò ad altri il compito di distribuire i distintivi»), allievo ufficiale degli alpini, giovanotto invasato tanto da scrivere a 22 anni su «La Provincia Grande» un paio di articoli sulla razza («Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra») e sui Protocolli dei savi di Sion che gli sarebbero stati rinfacciati a vita, messo in crisi dalla guerra e dallo sfascio dell'8 settembre, quando decise di unirsi ai partigiani passò per casa e la mamma, che non capiva, gli corse dietro «sulle scale con una maglia di lana e ripeteva: "Mi raccomando, non far tardi stasera". Mi avrebbe rivisto dopo venti mesi». Non bastò una vita intera di reportage e inchieste e denunce sul «Giorno», «L'Europeo» e «la Repubblica» contro i mafiosi (memorabile l'ultima intervista a Carlo Alberto Dalla Chiesa sulla sua solitudine), i neofascisti, i mazzettari, i camorristi, i servizi deviati, i padreterni della cattiva politica, i razzisti, i palazzinari, i razziatori dell'economia («Il crollo del comunismo si è dimostrato una fregatura: quel modello opposto almeno obbligava anche il capitalismo a stabilire regole e un ordine di valori. Adesso invece contano solo i soldi») per risparmiargli attacchi e reprimende su quegli sventurati esordi. Ancor meno certe sortite successive tipo la convinzione che le Brigate Rosse fossero manovrate dai neri («Bisogna ammettere che abbiamo preso una bella cantonata», confesserà) o il provocatorio «Grazie barbari» rivolto ai leghisr (votati) per avere scardinato un sistema che aveva «fatto il suo indecoroso tempo». Commise degli errori? Si. Cambiava idea? Si. Cocciuto sulle vecchie come sulle nuove opinioni? Si. Era però un uomo libero. Capace di essere scomodo anche con sé stesso. Un fuoriclasse assoluto. Al punto da guadagnarsi alla morte, tra grandinate di critiche, l'onore delle armi d'un arcinemico come Giuliano Ferrara: «La sua lingua letteraria scoppiava di umanità provinciale, balzacchiana se ce n'era una...». E chi li ha più visti, certi incipit? Sul boom a Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste». Su un re della medicina: «Inseguo il professor Achille Mario Dogliotti per cliniche, ospedali, aule universitarie: oscuro e importuno scriba, nella scia di un sovrano...». Sui Marzotto: «Barba e baffoni per il bisnonno fondatore, soltanto baffoni per l'onorevole nonno, appena baffettini a spazzola per il benamato genitore e guance lisce, menti d'alabastro, sottonasi rasati per i figli...». Chapeau.
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