Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 21/07/2020, a pag.1, con il titolo "Che follia: vietato dire 'jihad' " il commento di Marco Gervasoni; a pag. 10, con il titolo "Politicamente corretto", il commento di Davide Zamberlan.
Ecco gli articoli:
Marco Gervasoni: "Che follia: vietato dire 'jihad' "
Se non puoi cambiare la realtà, trasforma il linguaggio con cui viene nominata. È questa la strategia dei nuovi persuasori occulti che si battono per le minoranze, non più per la loro sacrosanta tutela, ma per l'affermazione dei loro valori a discapito di quelli della maggioranza dei cittadini - la chiamiamo «tirannia delle minoranze». Non è un caso che tutte le commissioni e i progetti di legge contro l'odio e la fobia, dall'islamofobia alla omotransfobia, si pongano come primo obiettivo cambiare le parole e introdurre una lingua nuova, che ci riporta immediatamente a George Orwell ma forse ancor più al Mondo nuovo di Aldous Huxley. Tra le minoranze più agguerrite, anche perché dispongono di finanziamenti esteri non indifferenti, ci sono le organizzazioni islamiche. Che, apprendiamo da un articolo del Times di Londra di ieri, vorrebbero che la polizia inglese non chiamasse più islamisti gli attentati... islamisti. Finora i termini usati dalle forze dell'ordine d'oltre Manica, che hanno dovuto far fronte a decine di attentati, dai più sanguinosi a quelli quotidiani al coltello degli ultimi tempi, sono «terrorismo islamista» o «jihadista». Non va bene, si alberga un sindacato islamico della stessa polizia inglese: bisogna sostituirli con «terrorismo ispirato alla fede», «terrorismo basato su motivazioni religiose» oppure «afferente all'ideologia di Osama bin Laden». E qui capiamo subito come i correttori del linguaggio finiscano per precipitare nella stupidità o nella mala fede. A parte che non tutti i terroristi islamisti si ispirano a Osama, questa ideologia cos'era? Sovranismo? (Scherziamo, ma su un grande giornale italiano abbiamo letto giorni fa di un Erdogan sovranista). Ancora più ridicola la proposta di chiamare le mattanze islamiste «terrorismo ispirato alla fede». Quale fede? Il buddhismo? Lo zoroastrismo, che nel Regno Unito sta crescendo? O magari la fede nel Liverpool o nel Manchester? È chiaro che l'obiettivo dei gruppi di pressione islamici è soprattutto uno: il cristianesimo. Che il sindacato di polizia islamico afferma essere all'origine di atti terroristici tanto quanto l'islam: certo, quanti ne abbiamo visti in questi anni di attentati cristiani! Bisogna però notare quanto i musulmani abbiano gioco facile, di fronte a un cristianesimo e ai suoi vertici ecclesiali che, diversamente dai tempi di Papa Benedetto XVI, non hanno colto, o fanno finta di non aver capito, la sfida in atto. Proprio in Uk abbiamo sentito, al tempo dell'abbattimento delle statue, un importante prelato anglicano affermare che il cristianesimo pecca per essere una religione bianca... Andatelo a dire alle migliaia di cristiani africani ammazzati, anche dagli islamici, per la loro fede. Abbattere le parole può sembrare forse meno traumatico che distruggere le statue o bruciare le cattedrali, ma l'obiettivo è lo stesso: svuotare l'identità dell'Occidente. Non possiamo permetterlo.
Davide Zamberlan: "Politicamente corretto"
La polizia inglese sta valutando di bandire l'utilizzo dei termini islamista e jihadista per descrivere le violenze perpetrate da terroristi che compiono le loro atrocità nel nome dell'islam. A rivelarlo, in un articolo di ieri, è stato il Times che ha riferito di un incontro online presieduto da Neil Basu, responsabile nazionale della polizia antiterrorismo, cui hanno partecipato anche parenti delle vittime di attacchi terroristici, sopravvissuti, accademici. Un numeroso gruppo di lavoro riunitosi su istanza dell'Associazione Nazionale della Polizia Musulmana, che raccoglie circa 3000 poliziotti inglesi di fede islamica e il cui rappresentante Alexander Gent ha invitato ad abbandonare i due termini perché «non aiutano le relazioni comunitarie e la fiducia del pubblico». In alternativa si potrebbe usare la parola araba Irhabi, che è usata nel Medioriente per indicare il terrorista ed è scevra da ogni connotazione religiosa, o espressioni quali «terrorismo di matrice religiosa» o «aderenti all'ideologia di Bin Laden». Nell'incontro si è discusso anche di abbandonare locuzioni quali terrorismo di «estrema destra» e «relativo all'Irlanda del Nord», sempre nel tentativo di non discriminare intere comunità e favorire l'inclusione. L'esperto di terrorismo Liam Duffy scrive sullo Spectator di aver partecipato all'incontro dicendosi rammaricato che «l'uso del termine islamismo sia stato inquadrato nell'attuale dibattito sulla razza». Confondendo i piani e rendendo più difficile una discussione libera da quei pregiudizi e luoghi comuni che la polizia si propone di combattere. Il punto che la proposta di revisione linguistica sembra disconoscere è che sono proprio gli stessi terroristi a definirsi islamisti, cioè di puntare a uno stato islamico imperniato su un'ideologia politica e sociale di matrice islamica. Si può discutere se uno stato islamico possa essere compatibile con la democrazia e lo stato di diritto occidentale, si può dibattere se l'Isis e prima ancora Al-Qaeda perseguissero uno stato islamico perverso, basato su una lettura fallace dei precetti coranici, ma dal punto di vista dei terroristi quello che stavano cercando di ottenere, per cui combattevano e ammazzavano e si immolavano, era un legittimo stato islamico. «Siamo contenti quando discutete se chiamarci Daesh, Isil o Isis. Finché parlate di questo e non di teologia, politica o operazioni militari, sappiamo che non ci state prendendo sul serio». Le parole ricordate da Duffy sono quelle di un favoreggiatore dello Stato Islamico, raccolte dal giornalista Graeme Wood, nel libro The Way of the Strangers: Encounters with the Islamic State. Negare attraverso un atto autoregolamentativo come quello discusso (ma non ancora approvato) dalla polizia inglese l'esistenza della piaga terroristica di matrice islamista non significa risolvere il problema, anche a volersi proclamare convinti nominalisti. E c'è di più: secondo il centro studi Quilliam, citato dal Times, raccontare una verità parziale, edulcorata, rischia anche di sfilacciare il rapporto di fiducia tra polizia e cittadini.
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