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Il Giornale Rassegna Stampa
20.07.2020 La rinascita della lingua yiddish e il fenomeno Unorthodox
Commento di Alberto Giannoni

Testata: Il Giornale
Data: 20 luglio 2020
Pagina: 20
Autore: Alberto Giannoni
Titolo: «Rivive a Milano la lingua della serie tv di culto - In eredità un paio di Nobel e lo slang di Woody Allen»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 20/07/2020, a pag.20, con il titolo "Rivive a Milano la lingua della serie tv di culto, il commento di Alberto Giannoni; il commento "In eredità un paio di Nobel e lo slang di Woody Allen".

Ecco gli articoli:

Unorthodox, la serie Netflix in yiddish che devi vedere ora - Cultura
Una scena della serie Netflix "Unorthodox"

Alberto Giannoni: "Rivive a Milano la lingua della serie tv di culto"

Immagine correlata
Alberto Giannoni

Unorthodox a Milano. Il successo delle serie tv dedicate agli ebrei americani ha riacceso la curiosità per il mondo degli ortodossi. E anche nella più europea delle città italiane oggi c'è una presenza di osservanti, e un piccolo nucleo di yiddish, il giudeo-tedesco che molti ritenevano perso per sempre coi campi di sterminio e che invece è sorprendentemente vivo, in Israele come nelle comunità della diaspora. Quanti lo parlano a Milano? Una stima è difficile, ma si ritiene che siano una cinquantina di persone. Storia recente. Le comunità ebraiche italiane, invece, hanno origini che si perdono nei secoli, o nei millenni. Quella di Roma è la più antica d'Occidente e alcune famiglie di ebrei romani fanno risalire la loro presenza in riva al Tevere a prima di Cristo. Gli ebrei d'Italia, oltre ovviamente all'italiano, parlavano anche lingue nate dall'incontro fra l'ebraico e i dialetti locali: come il bagitto livornese, o il giudeo romanesco, o il giudeo-mantovano, lingue giudeo-italiane formatesi in modo simile all'yiddish, ma rimaste circoscritte e poi estinte. L'italiano ha avuto anche alcuni «prestiti» dall'ebraico: la parola marachella, per esempio, o l'aggettivo fasullo. Ma pur dilettando gli studiosi sono casi rari. Gli ebrei italiani non conoscevano l'yiddish. Nella «Tregua», Primo Levi racconta l'incontro con due ragazze. «Le salutai e sforzandomi di imitarne la pronunzia chiesi loro in tedesco se erano ebree, e dichiarai che anche noi quattro lo eravamo». Le ragazze scoppiarono a ridere. «Voi non parlate yiddish dissero - dunque non siete ebrei». «La frase spiega Levi - equivaleva a un rigoroso ragionamento. Eppure eravamo proprio ebrei, spiegai. Ebrei italiani: gli ebrei, in Italia e in tutta l'Europa occidentale, non parlano yiddish. Questa, per loro, era una grande novità». La sorpresa delle due giovani era comprensibile, ma il torinese Primo Levi era ebreo esattamente quanto loro, anche se non come loro. Gran parte degli ebrei europei per secoli ha vissuto in Polonia e nei Paesi dell'est. In Italia numericamente questa presenza è sempre stata molto ridotta, anche se significativa.

La comunità milanese ha una storia diversa, più simile a quelle americane. Complice la dominazione spagnola, Milano un tempo non aveva una consistente presenza ebraica, tanto che si considera nata come costola di Mantova. Oggi però vanta una comunità che, pur piccola (circa 5mila persone) è fra le più variegate del mondo. Nel primissimo dopoguerra infatti Milano è stata un crocevia fondamentale verso Israele. Poi nel corso del Novecento ha accolto un gran numero di ebrei provenienti dalla Libia, dall'Iran, dal Libano: famiglie in fuga da una vera e propria persecuzione nei Paesi islamici. In questo caleidoscopio ecco gli ortodossi di Milano - alcune centinaia di persone - ed ecco fiorire l'yiddish. Ma chi è l'ebreo ortodosso? L'ebraismo, intanto, è quanto di più «antidogmatico» possa esistere, e questo ne spiega anche il fascino. Le definizioni risultano ardue e gli ortodossi vengono conosciuti generalmente per i lori abiti, o per i capelli, o per i copricapi. Ma occorre fare attenzione.

«Quel che si vede nelle serie tv rappresenta solo una corrente, è la punta dell'iceberg - spiega Edoardo Fuchs, milanese, insegnante di ebraismo - In genere si tratta degli indumenti usati fra l'Ottocento e il Novecento dagli ebrei nei Paesi dell'Est Europa. Non hanno a che fare in senso stretto con la religione ebraica. Essere osservante non significa necessariamente avere quella origine e quelle tradizioni. Io mi considero ortodosso e osservante, ma mi vesto in modo moderno». Spesso, i gruppi ortodossi prendono il nome dalle località di origine. Vale anche per i «Chassidim Satmar», quelli di «Unorthodox», un movimento chassidico fondato dal rabbino di Szatmarnemeti, al tempo Regno di Ungheria (oggi Romania). Osservante e ortodosso sono considerati sinonimi. «Qualcosa di paragonabile a praticante, spiega Fuchs. Occorre ricordare che nell'Ottocento, nell'ebraismo, si è formato un movimento riformato che ha abbandonato gran parte delle regole ebraiche tradizionali, per cui i non-riformati hanno avuto bisogno di un termine per definirsi. Ecco perché si dice ortodosso. Nessun ebreo, prima, si sarebbe mai detto osservante, tutti lo erano». «Ho visto Unorthodox e in parte mi ha deluso dice Fuchs l'interesse sta soprattutto nello spaccato che offre. L'ebraismo americano ha grandi numeri ma storicamente è meno interessante di quello europeo. La presenza nell'Est Europa è sempre stata consistente e si fa risalire a re Casimiro e prima ancora al regno dei Khazari, un popolo turcofono che a un certo punto seguì il suo re nella conversione all'ebraismo. In Italia si può dire che l'ebraismo è stata la prima religione moderna. Gli ortodossi che vediamo nella serie tv, invece, dal punto di vista religioso, non hanno caratteristiche peculiari. Hanno portato negli Usa vestiti e tradizioni che appartengono all'Europa orientale. Anche le parrucche e i cappelli. Prima si usavano indistintamente, tutti usavano i cappelli, non solo gli ebrei, e dal 1600-1700 in Europa anche le parrucche. Visto che la regola impone di coprirsi il capo, come ogni altra parte del corpo, per pudore, ecco l'usanza di cappelli e parrucche. Quelli che sono considerati comunemente ortodossi sono in realtà ebrei che si vestono come i loro antenati polacchi o ungheresi».

Unorthodox è curata e ben recitata. Però Maria Schrader, la regista, ne parla come della storia di una ragazza «costretta a fuggire». «Al centro di tutto - spiega - c'è Esther, la sua sofferenza». Sofferenza, costrizione. Sentimenti molto diversi da quelli che esprime Gheula Canarutto, che invece da ogni parola sprizza la gioia dell'«osservanza». «Nell'ebraismo l'essere umano è centrale - spiega Gheula, ricercatrice e docente alla Bocconi, ora impegnata in conferenze sui temi ebraici - L'essere umano è socio chi lo ha creato, chi lo ha creato cerca l'uomo che lo sta cercando. È una discussione continua con Dio, una polemica continua. Le regole sono moltissime, si dice 613 ma in realtà sono di più. Molte sono pratiche e questa pratica è il cuore dell'ebraismo, perché solo attraverso l'azione pratica riesci a migliorare come persona. Intenzioni e pensiero non bastano». Gheula di recente ha tenuto un «lezione» via facebook sul «perché le donne ebree mettono la parrucca», spiegando la «regola della modestia». «In Unorthodox - dice - questi ebrei sono tristi. L'ambiente è cupo, paiono arrabbiati. E un po' mi dispiace. Il popolo ebraico è un popolo felice. Io non giudico la storia della protagonista ma noi non siamo schiavi. Mi pare un'occasione persa». «Io non tocco cibo che non sia kasher - racconta - e quando vado in vacanza me lo porto dietro. Nel sabato, nelle feste, tutto ruota intorno ai nostri tavoli, tavoli di 20-25 persone, molto ospitali, socievoli, con molti amici. E il matrimonio non può mai essere combinato». «Come molto aspetti quotidiani - aggiunge - anche l'intimità tra marito e moglie assume una dimensione diversa nell'ebraismo osservante. Per due settimane al mese la coppia si separa, ognuno dorme nel suo letto e non è permesso nessun contatto fisico. Per sancire la fine delle due settimane e potere ritornare alla sfera intima, la donna si immerge nella vasca rituale, il mikveh, che si è vista anche in Unorthodox. Questo distacco porta a un rinnovamento continuo della relazione e a non dare mai per scontato niente, nemmeno il poter sfiorare la mano del tuo partner». «È difficile definire un osservante. Per me è quello che cerca, sottolineo cerca, di vivere la vita seguendo quelle regole, che cerca di integrarle nella sua vita. Ma osservante può essere anche chi non rispetta sabato e non mangia kosher». Niente di più sbagliato che considerare l'ortodossia come un integralismo, almeno nel senso in cui lo si intende per altre religioni. «Siamo umani, abbiamo di tutto al nostro interno, ma l'ebraismo non vuole mai imporre il suo punto di vista. Non fa proselitismo. Anzi, a chi vuole convertirsi si chiede continuamente: Ma sei proprio sicuro?».

"In eredità un paio di Nobel e lo slang di Woody Allen"

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Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale tra i 13 e i 17 milioni di persone in Europa e America parlavano l'yiddish come lingua madre. Oggi si calcola che ne siano rimaste meno di un milione. Per questo l'Unesco ha inserito l'antica lingua delle comunità ebraiche centro-europee nell'elenco degli idiomi in via di estinzione. In yiddish si esprimeva circa l'85% degli ebrei uccisi nei campi di concentramento nazisti, ma il lento prosciugarsi è continuato anche dopo la Shoah, con l'assimilazione in Occidente e l'emigrazione in Israele, dove, salvo alcuni quartieri di Gerusalemme e centri come Bnei Brak, l'yiddish è praticamente scomparso a favore dell'ebraico moderno. La lingua in sè è qualche cosa di unico: nata nelle comunità della Germania medioevale, nella zona renana, cuore dell'antica Ashkenaz, nome ebraico dell'Europa centrale e della Germania (da cui il termine askenazita), si è subito arricchita di termini semitici, utilizzati nell'ebraico e nell'aramaico delle Sacre scritture. Alle due radici (quella germanica pesa per circa il 70%) si sono aggiunte le influenze slave, mano a mano che la popolazione ebraica medievale cercava spazio e sopravvivenza nelle terre dell'Europa Orientale, Russia e Polonia soprattutto. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento l'emigrazione da quelle zone verso gli Stati Uniti ha creato una nuova area di diffusione. Gran parte degli ebrei orientali arrivati in America in quel periodo finiva per assestarsi nella zona di New York e nel 1915 il giornale in yiddish pubblicato in città, Forverts (oggi esiste ancora online con il nome inglese di Forward) vendeva più copie del New York Times di allora. Secondo il censimento del 2010 negli Usa ci cono ancora 178mila persone che dichiarano di parlare yiddish in casa (113mila vivono nell'area di New York, in particolare a Williamsburg, la zona di Brooklyn dove la serie Unorthodox è ambientata). Ma l'importanza di una lingua non è solo questione di numeri. Un premio Nobel, Isaac Bashevis Singer (premiato nel 1978 e morto nel 1991, nato in Polonia e naturalizzato americano) scriveva in yiddish. Un altro, Saul Bellow (canadese diventato poi statunitense), era bilingue e ha tradotto in inglese libri di Singer come «Gimpel l'idiota». Un altro autore notissimo, Isaac Asimov, tra i re della fantascienza (emigrato negli Usa con la famiglia dalla regione russa di Smolensk), ha sempre scritto in inglese ma è cresciuto parlando yiddish. L'influenza dello slang newyorkese, ricco di termini ebraici, ripresi molto spesso da scrittori come Woody Allen, ha poi innestato molti termini della lingua degli ebrei orientali nell'inglese «ufficiale». Il termine bagel (la ciambella rotonda per cui gli americani vanno matti) arriva dall'yiddish. Leggendo un giornale americano capita spesso di incontrare termini come «chutzpah» (faccia tosta) o come «mensch» (una brava persona). Molti tra gli insulti che si ascoltano nei film made in Usa arrivano dai vecchi ghetti: «schmuck», idiota, o, peggio, «schlong», l'organo sessuale maschile. In qualche caso l'yiddish fa capolino anche in espressioni usate in italiano. Un solo esempio: il Golem, essere mostruoso plasmato nell'argilla, antenato di Frankenstein, protagonista di innumerevoli trattazioni fantastiche, ha le sue origini nelle leggende del folklore ebraico medievale e dalla letteratura in yiddish.

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