Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 17/07/2020, a pag. 25, l'intervista di Francesco Maria Del Vigo a Enrico Mentana dal titolo 'Il politically correct? L'opposto del giornalismo'.
Bene fa Enrico Mentana a chiarire che il politicamente corretto è l'opposto del giornalismo. Peccato che il suo telegiornale su La7 non tenga conto di questa premessa, in particolare quando si tratta di Israele, che viene ignorato oppure - e questa è la cosa peggiore - tratteggiato come Paese militarista e occupante.
Ecco l'intervista:
Enrico Mentana
Enrico Mentana - direttore del Tg di La7 e pure editore online - non ha dubbi: politicamente corretto e informazione non hanno nulla da spartire. Anzi, meglio se stanno alla larga «perché il giornalismo è discontinuità e spiazzamento, cioè l'opposto dell'omologazione».
Direttore, ieri abbiamo pubblicato su queste pagine l'intervento con il quale Bari Weiss, editorialista del New York Times, lascia il quotidiano accusandolo di averla emarginata per le sue idee centriste. È finita nel mirino degli haters e dei colleghi perché troppo politicamente scorretta. Tutto questo nel tempio dell'informazione anglosassone, in una delle testate più prestigiose del mondo. Cosa sta succedendo? «Sta succedendo una cosa che noi sperimentiamo da tempo: è difficile la convivenza con il tempo nuovo che stiamo vivendo ma, soprattutto, la convivenza con i social. Quello che la signora Weiss denuncia è principalmente quella dittatura esterna che viene fatta dalla pressione dei social network, in questo caso da Twitter, sul prodotto giornalistico. Se tu scrivi un articolo e te lo stroncano a folate sui social e magari vedi che tra coloro che lo fanno, in nome del politicamente corretto, ci sono anche dei tuoi colleghi, capisci che non è una partita ad armi pari. Dio preservi chiunque dal rischio di essere omologati, negli Usa ci sono la Fox News e la Cnn, ogni giornale sceglie liberamente la sua linea e sono solo fatti loro, con vantaggi e svantaggi. Ma qui il problema travalica, perché c'è un doppio flusso esterno: quello dei social e quello della folla reale e iconoclasta che butta giù le statue. Washington Post e New York Times pagano il fatto di essere grandi giornali non dell'America tutta, ma soltanto della costa Est, dei grandi stati che sono profondamente cosmopoliti e democratici. In quella famosa divisione storica tagliata con l'accetta c'è del vero: l'America profonda conosce la main street del villaggio, l'altra conosce Wall Street, il luogo della finanza. È ovvio che non esiste una forte rappresentanza per quell'altra America, mentre questa, come diremmo in Italia, ha i grandi giornaloni».
Parla di statue oltraggiate e penso subito a quello che è successo a quella di Montanelli... «Guardi, bisogna rapportarsi con la Storia per come stavano le cose in quel momento. È ridicolo giudicare la Storia ai tempi di Twitter. Non se ne capisce la progressività. Tutto cambia. La mia generazione ha imparato alcune cose con nomi che oggi non sono più utilizzabili. Come le canzoni nelle quali si parla di zingari o angeli negri. Sono cose che non si dicono più. Fuori moda. Al giorno d'oggi sarebbe impensabile fare quello che ha fatto Montanelli in Africa, è ovvio. Ma il senno di poi è il senno di poi. Vorrei riportare tutti coloro che criticano Montanelli al 1994, quando ruppe con Berlusconi e divenne l'idolo dei progressisti. Nessuno dei quali criticò il suo passato. È inutile dirlo, lo capisce chiunque: Montanelli è morto 19 anni fa. Non si può utilizzare una sola parte di un percorso umano e giornalistico - anche la più spregevole - per giudicare una vita intera. La Storia, prima di usarla come una clava, andrebbe studiata. Molti non lo fanno».
Bari Weiss ha detto che il vero direttore editoriale del Nyt è Twitter. Lei ha lasciato il social di microblogging nel 2013, ma ha ancora un profilo Facebook seguito da più di un milione di persone ed è editore di un giornale online. Che rapporto ha con il web e con il suo popolo? «A me non interessano le critiche in Rete. Poco prima di Pasqua, quando Conte ha usato il suo discorso per attaccare la Meloni e Salvini, io lo ho criticato e sui social mi sono preso tutto lo shit storm dei filo-Conte. Ma se tu sei strutturato e hai detto una cosa perché la pensavi, non ti fai condizionare nemmeno per un secondo. Non bisogna cadere nemmeno nel vittimismo degli opinionisti: sia in Italia che negli Usa non si vedono dei grandi perseguitati. Certo, devi sempre tenere conto della testata per la quale scrivi e dei tuoi lettori».
Quattro anni fa nessun giornale statunitense ha fatto l'endorsement per Trump. Eppure ha vinto le elezioni. I media tradizionali sono dei Re Mida al contrario? Che problema c'è? «No, ci sono pubblici diversi. Anche qui da noi nel 2013 nessuno faceva il tifo per i Cinque stelle e anche nel 2018 erano pochissimi a sostenerli pubblicamente, eppure hanno preso il 34% dei voti e sono diventati il primo partito, vincendo le elezioni. Ci sta che gli elementi outsider, i fenomeni nuovi o i movimenti che non nascono dal mainstream (quindi non le Sardine, ma semmai il contrario delle Sardine) non riescano a essere rappresentati dal mondo dell'informazione. Rispetto ai quotidiani cartacei ha conosciuto questa dinamica anche Berlusconi, all'inizio. È un problema dell'informazione? Forse. Ma perché l'informazione deve essere la fotografia del Paese? Non lo è mai stata. Sbagliamo nel considerare che l'edicola sia il Parlamento, è un insieme di prodotti che scelgono liberamente chi rappresentare e da chi farsi leggere».
Quello che sta succedendo negli Usa, come spesso accade con idee e mode, arriverà con la stessa forza anche in Italia? «Penso sempre che quello che succede in Italia accade dopo negli Usa. Li anticipiamo. Noi abbiamo avuto Silvio Berlusconi prima di Donald Trump. Il fenomeno è lo stesso: uno che è fuori dal politicamente corretto, ma interpreta l'affaticamento dell'establishment nei rapporti con il pubblico. La stessa cosa è successa con i Cinque Stelle».
La sinistra, italiana e internazionale, sembra utilizzare le leve del politicamente corretto per silenziare le idee diverse, per mettere a tacere tutto quello che esce dai propri confini intellettuali, non Le pare? «No, non credo che ci sia una grande intelligenza collettiva in grado di dire facciamo questo o quello. Il fatto è che le sinistre europee, riformiste e socialiste, sono fortemente establishment. E sono fatalmente conservatrici, nel senso che vogliono conservare. Forse sarebbe più giusto definirli dei preservatori. Poi però crescono anche cose diverse e a loro volta cambiano. Sicuramente il populismo e il sovranismo sono state le novità del nuovo Millennio, però il Covid è stata una sorta di Xylella del sovranismo: ha riportato in auge il bisogno di aiuti da parte dell'Europa, il parere dei tecnici e persino la Scienza».
Lei conduce un telegiornale, il Tg La7, molto seguito. Ha mai sentito la pressione del politicamente corretto? «Assolutamente no. Il politicamente corretto è esattamente il contrario del giornalismo perché porta all'omologazione. Per fare giornalismo devi trovare degli elementi di discontinuità, stupore, spiazzamento. Il politicamente corretto è il contrario. Il politicamente corretto senza passato e senza futuro è pericoloso. Io su certe cose sono rigido, come sui valori dell'antifascismo: non vanno fuori moda, perché il nostro Paese ha conosciuto una attrazione fatale per la illiberalità. Dobbiamo renderci conto che a tutti quelli che dicono Così non si fa, bisogna rispondere che Così non si fa solo se fa danno a qualcuno. Tutto il resto è assolutamente insensato».
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