Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/07/2020, a pag.23, con il titolo "L'equivoco di Heidegger", il commento di Luc Ferry.
Va messa la parola definitiva su Heidegger, un nazista antisemita che non ha mai riconsiderato le proprie opinioni. Heidegger si salvò da Norimberga, dopo il crollo del regime di Hitler, grazie all'intercessione di Hannah Arendt dall'America, sarebbe altrimenti finito sul banco degli imputati.
Ricordiamo inoltre la figura di Donatella Di Cesare, che si è sempre rifiutata di spiegare perché abbia accettato la carica di vice presidente della Fondazione tedesca intitolata al nome di Martin Heidegger. Si dimise soltanto dopo che vennero pubblicati i “quaderni neri” con gli scritti che comprovavano la adesione al nazismo e all'antisemitismo razzista di chi era comunemente ricordato come il ‘filosofo di Hitler”. Soltanto la Di Cesare non lo sapeva?
Ecco l'articolo:
Martin Heidegger
Heidegger svelava nel pensiero moderno, quale si elabora in Occidente a partire da Cartesio (nella «metafisica della soggettività»), un vasto progetto di dominazione del mondo grazie alla scienza e alla tecnica. E, di fatto, egli non dubita che la filosofia dei Lumi fosse animata dall'idea che il progresso delle scienze avrebbe generato il progresso della civiltà, il quale avrebbe emancipato l'umanità, che a sua volta avrebbe potuto padroneggiare a suo vantaggio l'universo naturale e sociale. Ora, secondo Heidegger, la «tecnica» propriamente detta si produce quando tale volontà di padroneggiare la natura e la società non è più sottomessa a un obiettivo, a un fine di emancipazione (garantire la felicità e la libertà degli uomini), ma si trasforma in un fine in sé. La volontà di padronanza diventa allora cieca, diventa «volontà di volontà», padronanza per la padronanza, ed è allora che si entra nell'universo tecnico propriamente detto, al quale il mondo contemporaneo è votato senza distinzioni. In un piccolo saggio intitolato Il superamento della metafisica Heidegger descrive come la dominazione della tecnica che caratterizza, secondo lui, l'universo contemporaneo nel suo insieme sia il risultato di un processo che prende impulso dalla metafisica della soggettività cartesiana e, più in generale, dal razionalismo del XVII secolo, per estendersi poco a poco a tutti gli ambiti della vita detta «democratica», sia liberale (americana) sia comunista (sovietica). Comunque, all'epoca della nascita della scienza moderna non siamo ancora entrati nel mondo della tecnica propriamente detto, vale a dire in un mondo da cui la considerazione dei fini finisce per scomparire totalmente a vantaggio di quella dei mezzi. È questo il punto cruciale che Heidegger intende mettere in rilievo: il mondo contemporaneo, il mondo della tecnica, sia americano liberale sia sovietico comunista, appare come radicalmente differente non soltanto dal mondo degli antichi, ma anche da quello dei Lumi, benché ne sia direttamente l'erede. Nel razionalismo dei secoli XVII e XVIII, in Cartesio, negli enciclopedisti francesi o in Kant, il progetto di una padronanza scientifica dell'universo possedeva ancora una prospettiva emancipatrice. Occorreva che il progresso scientifico cessasse di mirare a fini esterni e superiori, per diventare un fine in sé – come se l'accrescimento della potenza o della padronanza degli uomini sull'universo diventasse di per sé la sua stessa finalità. Ora, è esattamente questo che, secondo Heidegger, avviene nella storia del pensiero con la dottrina nietzschiana della «volontà di potenza», una volontà che diventa volontà di volontà, che prende sé stessa come fine perché ha decostruito «con il martello» tutti gli «idoli», tutti gli ideali superiori, dunque tutte le finalità. Nella realtà – e non più soltanto nella storia delle idee – tale mutamento appare con l'avvento del mondo tecnologico in cui il «progresso» è stranamente diventato un processo automatico e definalizzato, una sorta di meccanismo di cui gli esseri umani sono totalmente spossessati. Ed è appunto la scomparsa dei fini a vantaggio della sola logica dei mezzi a costituire la vittoria della tecnica in quanto tale. Come una bicicletta deve avanzare per non cadere o un giroscopio girare in permanenza per restare sul filo su cui è istallato, le imprese moderne devono, nel contesto di questa seconda globalizzazione, innovare di continuo per continuare a vivere. La trascendenza dei grandi ideali umanistici, di quegli «idoli» di cui si faceva beffe Nietzsche, è svanita in modo che secondo Heidegger – che mi sembra su questo avere ragione al contrario di Deleuze e Foucault – è proprio il programma della filosofia di Nietzsche a compiersi nel capitalismo globalizzato. Non si tratta più di dominare la natura o la società per essere più liberi e più felici, ma di padroneggiare per padroneggiare, di dominare per dominare. Perché? Per nulla appunto, o piuttosto, come in Nietzsche e Spinoza, per il semplice desiderio di intensificazione della vita, ma anche perché è semplicemente impossibile fare altrimenti, data la natura delle società, totalmente animate dalla competizione, dall'obbligazione assoluta di progredire o perire. È questa la differenza ultima che ci separa dai Lumi, l'abisso che oppone il mondo contemporaneo all'universo dei primi moderni: nessuno può più ragionevolmente essere certo che tali evoluzioni brulicanti e disordinate, tali movimenti incessanti che non sono più legati da nessun progetto comune, ci conducano infallibilmente verso il meglio. Gli ecologisti ne dubitano, i critici della globalizzazione anche, ma altrettanto fanno i repubblicani che, per tale ragione stessa, diventano, sia pure talvolta controvoglia, nostalgici di un passato ancora recente ma, sembra, irrimediabilmente trascorso. Quale lezione trarre da una simile analisi? In primo luogo, che Heidegger avrebbe potuto trarre conseguenze completamente diverse rispetto a quelle che ha dedotto dal suo rifiuto della modernità. Avrebbe potuto, ad esempio, decretare che la prima urgenza fosse lavorare per riprendere il controllo su un corso del mondo che ci sfugge da ogni parte, tentare, se possibile, di padroneggiare la padronanza. Il problema è che egli non ci credeva affatto, dubitava che la democrazia fosse all'altezza di una simile sfida, pensava anche, e la cosa va di pari passo, che la tecnica, benché distinta, non fosse alla fine che il prolungamento della rivoluzione scientifica dei Lumi – e questa è senza dubbio una delle principali ragioni che l'hanno indotto ad aderire al peggiore regime che l'umanità abbia conosciuto. Egli pensava che le democrazie aderiscono fatalmente, in verità per la loro stessa essenza, alla struttura del mondo della tecnica poiché condividono con essa una radice comune, vale a dire la metafisica della soggettività.
Vedeva le democrazie intimamente legate al sistema liberista di concorrenza fra le imprese che, ai suoi occhi, provocava necessariamente la progressione illimitata e meccanica delle forze produttive. Stessa cosa sul piano politico, poiché le elezioni assumono ugualmente la forma di una competizione organizzata che tende verso una logica la cui struttura più intima, quella della demagogia e del regno incontrastato di un'audience, è l'essenza stessa della tecnica. Si potrebbe obiettare a Heidegger che il nazismo non fosse la soluzione, che la rivoluzione conservatrice associata all'antisemitismo e alla guerra totale non potesse che generare catastrofi assolute, sia sul piano umano e morale sia su quello politico, e che ciò di cui abbiamo bisogno non è certamente di abbandonarci all'amore sconsiderato di un Führer totalitario, ma piuttosto di reinventare i Lumi o, perlomeno, di pensare i dati nuovi che permetterebbero, se non una governance mondiale, almeno delle istanze mondiali di regolazione. Heidegger ha preferito una rivoluzione conservatrice i cui effetti furono spaventosi, una rivoluzione di cui continuò comunque per tutta la vita ad ammirare la «grandezza e la verità interna». Corruptio optimi pessima, ahimè…