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Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.06.2020 Conversazione con Esther e Jonathan Safran Foer
Di Alessia Rastelli

Testata: Corriere della Sera
Data: 28 giugno 2020
Pagina: 18
Autore: Alessia Rastelli
Titolo: «Esther Safran Foer. Sulle orme del padre e del figlio»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La Lettura di oggi, 28/06/2020 a pag.18, con il titolo "Esther Safran Foer. Sulle orme del padre e del figlio" il dialogo di Alessia Rastelli con Esther e Jonathan Safran Foer.

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Alessia Rastelli

Esther Safran Foer, Bisogna tornare in Ucraina perché ogni cosa ...
La copertina (Guanda ed.)

Siamo di fronte a un libro molto personale, che narra un'esperienza e un viaggio individuali, ma che ha implicazioni più ampie. Una vicenda ebraica, certamente, sulla risposta alla tragedia della Shoah. Ma che riguarda anche chiunque si senta incompleto per qualcosa che gli è accaduto, o è successo alla sua famiglia, e voglia quindi aggiungere un tassello alla sua storia. Nella consapevolezza, comunque, che la conoscenza totale, esaustiva, la compiutezza, non sono davvero raggiungibili». Collegato da New York, è Jonathan Safran Foer ad aprire la conversazione con «la Lettura» e introdurre il memoir di sua madre Esther, Voglio sappiate che ci siamo ancora, pubblicato in Italia da Guanda, editore di tutti i libri dello scrittore americano. In video via Zoom c'è anche la mamma-autrice, sorridente e commos sa. Parla da Washington, dove vive, chiusa in casa per l'emergenza coronavirus non ancora domata. Figlia di genitori provenienti da due shtetl dell'allora Polonia orientale, oggi Ucraina, unici sopravvissuti delle rispettive famiglie e in seguito emigrati negli Stati Uniti, Esther sente il bisogno di tornare. Vuole conoscere più di quanto il suicidio del padre e i silenzi della madre le abbiano lasciato ricostruire: colmare l'incompletezza, aggiungere il suo «tassello». Nel 2009 parte così per l'Ucraina, dove qualche anno prima aveva indirizzato Jonathan, incoraggiandolo a compiere il viaggio da cui sarebbe nato Ogni cosa è illuminata (2002). Jonathan cerca Augustine, la donna che presumono abbia salvato il nonno, ma non la trova e dalla realtà passa all'immaginazione, coltiva il dubbio e l'ironia e scrive quello che Fernanda Pivano definì all'epoca «il libro straordinario di uno scrittore straordinario». Esther, invece, trova quello che cerca e la sua esperienza, a lungo rielaborata, scritta in almeno un paio d'anni, dà vita a un racconto autobiografico prezioso: semplice, sincero, pieno di dettagli. Che rapporto c'è trai vostri due libri?
ESTHER SAFRAN FOER— Nel 1998 Jonathan cercava un argomento per la tesi, così gli suggerii di raggiungere lo shtetl di Trochenbrod, in Ucraina, da dove veniva mio padre. Gli diedi anche una quarantina di copie di una foto di suo nonno con le persone che, secondo mia madre, lo avevano nascosto. Speravo che Jonathan ne trovasse traccia, ma neppure del villaggio restava nulla. Dunque in Ogni cosa è illuminata non potè che ricorrere all'invenzione, ma il suo romanzo fu la svolta nella mia ricerca reale: in molti mi scrissero da varie parti del mondo per esprimere apprezzamenti o critiche, ma soprattutto fornendomi informazioni sugli ebrei di Trochenbrod, tutti fucilati dai nazisti. Si salvarono in tre, incluso per caso mio padre, che il giorno della strage era stato spedito a riparare le finestre di una stazione. A quel punto sentii che io stessa dovevo mettermi in viaggio.
JONATHAN SAFRAN FOER — Quando partii io, provavo interesse, ma non posso dire che fossi altrettanto preparato. Mia madre, qualche anno dopo, aveva raccolto tantissime informazioni, si era rivolta persino a lui. Quello era davvero il suo viaggio: era lei che, più di me, sentiva da anni il «vuoto», la mancanza da colmare. Non è un caso che fu sua anche l'idea, nel 1998, che andassi io.
ESTHER SAFRAN FOER — All'epoca non avevo il coraggio. Adesso invece, per quanto come dicevi tu, Jonathan, sia impossibile conoscere la verità nella sua interezza, ho trovato la mia pace. La conquista più importante è stato dare un nome a mia sorella. Solo a 40 anni scoprii che mio padre aveva avuto un'altra moglie e una figlia uccise dai nazisti. In Ucraina ho incontrato i discendenti di chi lo aiutò e un'anziana che conobbe la sua prima famiglia. Ora so che mia sorella si chiamava Asya, aveva i capelli neri e amava giocare a palla. Posso immaginarla e preservarne la memoria, l'ho registrata con sua madre nel database dello Yad Vashem. E mia nipote, la figlia del mio terzogenito Joshua, porta il suo nome. e Suo padre, Esther, si è suicidato quando lei aveva otto anni. Il passato tragico ha segnato le vostre vite?
ESTHER SAFRAN FOER — Certamente, e la conseguenza più grave è stata proprio perdere mio padre. E probabile che fosse tormentato da quanto era accaduto, forse soffriva di depressione, ma negli anni Cinquanta discutere di certi mali era un tabù. La prima volta in cui sono riuscita a parlare apertamente del suo suicidio avevo quasi sessant'anni. Mi aiutò Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz, in cui affronta il suicidio della madre. Scrivere di mio padre è stata dura, ho provato un'emozione mai sentita prima.
JONATHAN SAFRAN FOER — Per quanto mi riguarda, penso che siamo così immersi nella storia familiare in cui cresciamo che è difficile dire quali effetti abbia. È come l'acqua per un pesce o l'odore della nostra casa: gli altri lo sentono, noi no. Non possiamo essere buoni giudici sull'influenza che esercita il modo in cui veniamo tirati su: qualcosa d'invisibile, ma che è tutto. Ethel, la madre di Esther, prima scappò dal nazisti e poi prese in mano la famiglia dopo la morte del marito. Quando Jonathan partì nel 1998 non le diceste della missione in Ucraina.
ESTHER SAFRAN FOER— Per mia madre era il luogo dove era successo l'indicibile e sarebbe potuto riaccadere. In seguito seppe del libro di Jonathan, e vivevamo insieme mentre scrivevo il mio. Il nostro rapporto però si basava sul girare cautamente intorno ai temi più difficili. Quando sono tornata dall'Ucraina ho provato a mostrarle alcune foto, ma quasi sempre le spingeva da parte e non faceva domande. E morta nel dicembre 2018, io ho consegnato il libro due mesi dopo, e proprio in quell'intervallo sono riuscita a scrivere le pagine più drammatiche, come se solo allora avessi potuto fare davvero i conti con ciò che provavo.
JONATHAN SAFRAN FOER — Non penso esistano ancora donne come mia nonna. Il suo stile di vita è stato di sicuro plasmato dalla sua biografia. Nel mio ultimo pamphlet, Possiamo salvare il mondo prima di cena, racconto ad esempio di quando comprava cibo in sconto al supermercato: era come se facesse la spesa non solo per la sua famiglia viva ma anche per quella perduta. Non la vidi mai piangere e mi parlò poco del passato, era completamente orientata al futuro. Forse per proteggere noi, e sé stessa, aveva eretto molte barriere. Ma appariva ottimista e aveva una mente aperta. Pensavo a lei pochi giorni fa a proposito di quanto sta accadendo qui negli Stati Uniti. Quando arrivò non sapeva che esistessero persone nere nel mondo e semplicemente accolse la scoperta, senza stupore o discriminazioni. Era già straordinariamente liberal. I testimoni della Shoah stanno purtroppo scomparendo. Come preservare la memoria?
JONATHAN SAFRAN FOER — Si può farlo attraverso commemorazioni e monumenti, ma non sempre questo implica un rapporto con la memoria che davvero ci cambi e guidi le azioni di oggi. Inoltre, siamo tutti diversi, dunque credo che la memoria si possa coltivare sommando romanzi, lezioni a scuola, giornalismo, dibattiti, come in un arazzo. In questo senso è interessante quello che sta accadendo negli Stati Uniti: la discussione, ad esempio, se rendere il Juneteenth, la ricorrenza del 19 giugno che celebra la fine della schiavitù, una festa nazionale, e il dibattito sui monumenti da abbattere o mantenere. Personalmente sono d'accordo che si possano eliminare: non si tratta di riscrivere la storia, ma di scegliere chi celebriamo. I leader dell'esercito confederato non sono buoni simboli, rappresentano la nostra parte peggiore.
ESTHER SAFRAN FOER — Per preservare la memoria è importante raccontare anche le vicende individuali, perché integrano il quadro generale dei fatti storici e consentono a chi legge o ascolta di identificarsi. Parlando di mia sorella Asya, ad esempio, ho dato almeno un nome a uno dei bambini uccisi nella Shoah. A proposito del conflitto tra israeliani e palestinesi, al Festivaletteratura di Mantova 2019, Abraham Yehoshua ha detto che «troppa memoria fa male al due popoli». Che cosa ne pensate?
JONATHAN SAFRAN FOER — Non avevo mai sentito queste parole. Non penso possa esserci troppa memoria, allo stesso modo in cui non può esserci troppa informazione. La questione semmai è cosa ne facciamo. Certo non va bene se restiamo intrappolati nel passato, lasciando che ci renda spaventati o carichi d'odio, mentre è positivo se ci facciamo cambiare e ispirare, agendo diversamente rispetto agli errori della storia. Ma appunto questo riguarda il nostro rapporto con la memoria, non la memoria stessa. Come discendenti di superstiti alla Shoah sentite in prima persona il dovere di ricordare?
JONATHAN SAFRAN FOER — Non sento un dovere, semmai un prendersene cura. Anche per quanto riguarda la mia identità ebraica, non so se in un primo momento me ne sarei occupato se non fossi stato un autore. È stata la scrittura a farmene appunto prendere cura, ma non per dovere o senso di colpa, piuttosto per la ricchezza di storie e valori. Detto questo, seppure io sia cresciuto sentendomi un «americano» e basta, da qualche tempo, a causa della retorica antisemita, per non parlare dei crimini d'odio, sono diventato più consapevole che nella mia identità c'è anche un trattino: «ebreo-americano». Lo scorso dicembre commentai proprio sul «Corriere della Sera» una serie di attacchi antisemiti nell'area di New York, notando anche che si inquadravano in un più generale clima di insicurezza e nazionalismo.
ESTHER SAFRAN FOER — L'antisemitismo, come il razzismo, è lì sotto la superficie, specie in questa fase in cui è stato concesso all'odio lo spazio dl avanzare. Nei giorni scorsi la Corte suprema si è pronunciata contro lo stop di Donald Trump ai dreamers arrivati illegalmente da bambini negli Stati Uniti. Voglio ricordare che anch'io sono stata una di loro, approdata qui con documenti falsi quando, dopo tutto quello che era successo, la legislazione migratoria americana era ancora sfacciatamente antisemita. e Gli Stati Uniti ora sembrano reagire.
JONATHAN SAFRAN FOER — Dietro le proteste ci sono diversi fattori. Ad esempio gli americani rimasti chiusi in casa che non ne possono più, mentre sul Covid-19 non abbiamo ancora regole chiare e una gestione nazionale. Ma, soprattutto, credo si sia raggiunto il punto di rottura. Il video di George Floyd è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. È così doloroso, così esplicito: il momento in cui invoca la madre ha toccato tutti, ha suscitato empatia anche tra chi non è nero e non teme la polizia. È stato talmente scioccante da svegliarci finalmente tutti.
ESTHER SAFRAN FOER — Ognuno si guardato dentro. È un momento importante per il Paese. E abbiamo le elezioni a breve, questo potrebbe aiutare.
JONATHAN SAFRAN FOER — L'ultima volta avevo una buon presentimento e avete visto come è finita. Non so se l'attuale ondata di proteste sarà come il #MeToo, che è esploso ma poi non è riuscito a sostenersi. Di sicuro però non ho mai visto le porte aperte al cambiamento come in questo momento.

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