Michel Onfray è il guastafeste della gauche. Nella famiglia che lo ha coccolato e adulato per una vita, oggi non è più il benvenuto per le sue posizioni controcorrente sull'islam, sulle questioni bioetiche e sull'antirazzismo di maniera. «Non ho mai avuto uno spirito gregario», risponde a chi gli chiede con aria inquisitoria perché non partecipa alle manifestazioni di piazza di una sinistra francese che non sa più parlare alla classe operaia e importa dagli Stati Uniti la folle ideologia decolonialista dei campus. Sessantuno anni, figlio di un bracciante agricolo e di una cameriera addetta alle pulizie nelle case benestanti di Chambois, in Normandia, Onfray ha sempre preferito Proudhon a Marx, la «sinistra dionisiaca» alla «sinistra del risentimento», «un'analisi giusta di Alain de Benoist a un'analisi ingiusta di Alain Minc, Jacques Attali o Bernard-Henri Lévy».
E' appena uscito il primo numero della sua nuova rivista, Front Populaire, un'avventura metapolitica con vista sulle presidenziali francesi del 2022. Perché ha deciso di fondare Front Populaire e con quali obiettivi? «Avevo creato un'Università popolare nel 2002, ma le autorità politiche l'hanno sabotata: la città di Caen, in Normandia, dove si svolgevano le lezioni, la sua università, la sala spettacoli che accoglieva le mille persone del mio uditorio, oltre al potere che mi ha licenziato da France Culture, la radio di Stato dove i miei seminari erano diffusi ogni anno da più di un decennio con un milione di podcast, hanno reso impossibile la tenuta dei miei corsi. Ho dunque creato questa rivista con il mio amico Stéphane Simon per non aderire alla volontà del potere di farmi tacere. Il nostro progetto è quello di riunire i sovranisti di destra, di sinistra, di ogni latitudine, che vogliono fare nuovamente politica. Una piattaforma accompagnerà questa rivista: funzionerà come un parlamento delle idee sul modello degli Stati generali e dei Cahiers de doléances. Vogliamo contribuire alla fabbricazione di un programma politico a partire dalla base, dal popolo. L'incredibile successo che abbiamo avuto - 30mila abbonati prima ancora della pubblicazione della rivista - ci permette di pensare a uno sviluppo della nostra avventura sul terreno mediatico - piattaforma, agenzia di stampa, casa editrice, ecc.».
In che cosa consisteranno precisamente questa sorta di «Cahiers de doléances del Ventunesimo secolo» che affiancheranno la rivista? «Abitualmente, il potere giacobino prende le decisioni ai vertici e impone l'obbedienza alla base. Le elezioni sono alterate dalla propaganda di Stato e dai media di Stato che appartengono a dei miliardari, ma sono comunque sovvenzionati da soldi pubblici. Mettono al potere i difensori dell'ideologia liberale e dello Stato maastrichtiano. Una volta uno di centro-destra, un'altra uno di centro-sinistra, ma sempre un devoto del sistema europeista. Seguendo il principio girondino, non vogliamo più che il potere scenda dal cielo giacobino, ma che salga dalla base verso l'alto. Lo Stato non è lì per imporre la le ; e emanata dal capo, ma per garantire la volontà popolare. Come afferma la Costituzione, pensiamo che la democrazia sia il governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Vogliamo realizzare questa democrazia. L'autogestione è il nostro principio di base. Perché chi più di un professionista sa cos'è meglio per la sua professione? Sicuramente non un commissario europeo e nemmeno uno che di mestiere fa il politico».
Quali saranno le principali tematiche affrontate e in quali aspetti la sua rivista si distinguera dalle altre? «Non sarà fatta da giornalisti professionisti formattati dalle scuole di giornalismo, dall'ideologia dominante, dalle loro redazioni, dalla loro autocensura, ma da persone che avranno delle cose da dire. Grazie ai nostri abbonamenti, viviamo senza pubblicità: non dovremo rendere conto a nessun inserzionista, dunque non ci saranno tematiche tabù. Il giornalismo non può essere riservato ai giornalisti professionisti, dal momento che non si sono mostrati all'altezza. Reporters sans frontières ha recentemente comunicato la posizione in classifica della Francia in materia di libertà di stampa: siamo passati dalla 32esima posizione alla 34esima. La Namibia e il Ghana ci hanno superato... Non le darti il sommario dei prossimi numeri, ma le posso garantire che affronteremo tutte le questioni possibili di filosofia politica!»
Le Monde, Libération e altri giornali di sinistra l'hanno accusata di sedurre «gli ambienti di estrema destra» e con un certo disprezzo le hanno dato del «sovranista». Cosa risponde a queste accuse? «Hanno prelevato quattro nomi da una lista di mille abbonati e hanno detto che queste persone erano di estrema destra, il che è tutto da provare. Al di là del fatto che confondono abbonati e redattori della rivista, ecco qui dei presunti giornalisti che, siccome lo 0,4% degli abbonati sarebbe di estrema destra - e ripeto, è tutto da provare che lo siano - giungono alla conclusione che una maggioranza di persone di estrema destra è sedotta da Front Populaire, rivista che peraltro non hanno ancora letto». Le hanno rimproverato in particolar modo di aver «reclutato» il virologo marsigliese Didier Raoult. Le Monde scrive ironicamente che lei ha «un tempismo perfetto, così come il senso del marketing».
Per quale motivo? «Queste persone ignorano che una rivista non si lancia in quindici giorni e che lavoriamo su questo progetto da ben prima dell'epidemia! Come si pub anche solo immaginare che una rivista possa essere creata ex-nihilo in uno o due mesi? E una follia. Quanto al professor Raoult, ha accettato a titolo gratuito di darci un'intervista: questo significherebbe che l'abbiamo "reclutato"? Capisce bene da questo fatto qual è il livello di professionalità delle persone che scrivono sul Monde».
Perché la sinistra intellettuale parigina rifiuta di dibattere con coloro che non condividono la sua opinione, come per esempio con il giornalista e polemista del Figaro Eric Zemmour? Mi viene in mente, per esempio, la «Convention de la droite» del settembre 2019, alla quale solo il filosofo Raphael Enthoven, del campo dei progressisti, ha accettato di partecipare... «La sinistra è molto tollerante, ma solo con le sue idee. E a favore dell'unione, ma solamente sotto il suo patrocinio. E di idee larghe, basta che siano le sue. Ti invita nelle sue radio di Stato pagate dal servizio pubblico, ma solo se sei dalla sua parte. Parla di te dalle colonne dei suoi giornali che vivono grazie alle sovvenzioni pagate con i soldi dei contribuenti, ma solo se sei completamente d'accordo con lei. Se eccezionalmente questa sinistra ti chiama nei suoi media, è per chiederti se sei un nazista, cosa pensi di Marine Le Pen, perché fai il gioco del Rassemblement national... Per tutto il resto del tempo, fa dite un razzista, un fascista, un nazista, un petainista, un omofobo, un antisemita, un sessista, ecc.».
La gauche ha abbandonato il popolo da molto tempo, non la sentiamo più parlare di classe operaia, ma solo di diritti delle minoranze. Come spiega questo comportamento? «Da quando Mitterrand ha rinunciato alla sinistra nel 1983 e ha optato per la politica liberale e europeista del suo avversario Giscard d'Estaing, la gauche ha dovuto trovare nuovi segni distintivi per smarcarsi dalla destra. E andata a cercarli nel campo delle questioni di società. Destra e sinistra maastrichtiana difendono lo stesso progetto politico, la gauche, invece, si è intestata la battaglia delle minoranze facendo sua l'ideologia neofemminista, decolonialista, razzialista e antisionista della falsa sinistra dei campus americani».
La rivolta dei gilet gialli è anche il risultato della spaccatura sempre più ampia tra Francia metropolitana e Francia periferica. Come puó essere ridotto questo clivage? «La rivolta dei gilet gialli, nel suo primo mese di esistenza, ha rappresentato il grido di sofferenza di una popolazione sacrificata dal regime liberale di Maastricht. Queste persone hanno semplicemente detto che già non potevano arrivare a fine mese o comprare i giocattoli per i propri figli a Natale e che sarebbe stato impossibile pagare un prezzo più alto il pieno di benzina: non per spirito di rivolta, ma per mancanza di mezzi economici. Un mese dopo, la sinistra ha confiscato la loro parola, poi sono arrivati i casseurs, e infine il governo di Macron, che ha strumentalizzato questa violenza per screditarla. I gilet gialli sono stati ingannati e traditi dalla classe politica, che ha fatto i propri interessi. In un certo senso, la nostra rivista riprende in mano la loro bandiera e propone di organizzare questa forma di espressione così com'era prima della sua strumentalizzazione».
Qual è la sua opinione a proposito di questa rabbia iconoclasta che spinge migliaia di persone in giro per il mondo ad abbattere statue e a voler riscrivere i nomi delle strade all'insegna dell'antirazzismo? «La sinistra intellettuale dei campus americani è stata formattata dal pensiero strutturalista francese che si fa beffa del reale e della storia perché si interessa soltanto alle belle costruzioni intellettuali che girano a vuoto. Questo pensiero solo per il pensiero stesso, così come c'è l'arte solo per l'arte stessa, volta le spalle alla verità, alla realtà, e anche al buon senso. Dal Maggio '68, non si insegna più la storia, ma il catechismo europeista liberale. Il risultato è che l'incultura degli abbattitori di statue formattatasi dalla deculturazione americana passa per la massima espressione della cultura! Nel regno dei ciechi, l'orbo è re!».
Thomas Piketty, In un articolo sul Monde, ha lasciato intendere che bisognerebbe aprire un dibattito per «fissare una frontiera tra le buone e le cattive statue». Cosa pensa di questa idea? «Che Piketty è in un'ottima posizione per presiedere il tribunale rivoluzionario che deciderà quali saranno le buone e quali saranno le cattive statue...».
C'è qualcosa che salverebbe del mandato di Macron fino ad oggi, a livello di misure e riforme approvate? «No, nulla...».
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