'Il mio nome a memoria': una epopea famigliare ebraica dall'Olanda all'Italia Recensione di Giorgio Montefoschi
Testata: Corriere della Sera Data: 21 giugno 2020 Pagina: 25 Autore: Giorgio Montefoschi Titolo: «Il frutto estremo dell'albero dei nomi»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/06/2020, a pag. 25, con il titolo "Il frutto estremo dell'albero dei nomi", la recensione di Giorgio Montefoschi.
Giorgio Montefoschi
La copertina (Brioschi ed.)
Corne ne La famiglia Moskat, il capolavoro di I. B. Singer, così all'inizio de Il mio nome a memoria, il romanzo di Giorgio Van Straten, un imponente albero genealogico viene offerto al lettore perché, andando avanti con le pagine e il tempo, possa ogni tanto tomare indietro e sincerarsi di non essersi sbagliato nell'attribuire parentele, aver confuso i nomi, dato a ciascuno il suo posto nella storia. Quella che racconta Van Straten, del resto, è una storia lunga che, oltre ad attraversare le epoche, attraversa i continenti e l'Europa: Rotterdam, l'America, l'Italia, la Francia e la Germania, la Russia con l'incantevole capitolo di Odessa, e se non ci fosse questo albero genealogico al quale ogni tanto rivolgersi, il lettore potrebbe disperdersi. Invece non si disperde. E non soltanto perché verifica e controlla i nomi — tutti nomi veri, come è giusto che sia, dal momento che si tratta di persone realmente esistite — e così ricostruisce i nuclei familiari, ma per una ragione più profonda che sta proprio nella parola: nome. Quell'albero, infatti, non ha rami o foglie: ha nomi. Dio ha creato il mondo, secondo la tradizione ebraica, nominando. E quell'albero di nomi, di tutti i Van Straten che sono realmente esistiti, dei parenti acquisiti, delle mogli, dei vecchi, dei bambini, degli zii e dei cugini, possiede una forza tellurica, una sacralità più forte di qualsiasi documento. e Giorgio Van Straten, l'ultimo discendente dei Van Straten, conosce i nomi e non vuole occultarli, ma non conosce tutte le vicende: di alcune possiede il sentito dire, di altre qualche lettera o qualche foglio di carta sbiadito, di altre una fotografia in bianco e nero, di molte altre non sa nulla e deve in qualche modo inventarle, comporre le tessere del mosaico che altrimenti in alcune parti rimarrebbe vuoto. Lo fa, con l'abilità consumata dello scrittore che sa vedere dove non si scorge nulla, o poco; con lo spirito, che si attribuisce, del restauratore di quadri che probabilmente gli viene dal aver vissuto in una città come Firenze, che più di ogni altra città italiana abitua l'occhio alla pittura, all'affresco, e a quello che manca. Il racconto della famiglia ebrea dei Van Straten comincia nientemeno che una gelida mattina del 18, quando Hartog, il capostipite, un uomo piccolo, magro, con gli occhi chiari, di mestiere venditore di cetrioli a Rotterdam, per ottemperare a un editto francese va in municipio per cambiare il suo nome e scegliere un nome nuovo. È perplesso. Ma lo fa. E sceglie Straaten, con due a, perché è il nome del paesino fiammingo da cui proviene la sua famiglia e perché in olandese significa «strade», e gli ebrei, pensa, vivono nelle strade, hanno le loro botteghe sulle strade, da sempre, fin dai giorni dell'Esodo, percorrono le strade del mondo. Descrivere, nello spazio contenuto di una recensione, la quantità delle vicende che, dall'inizio dell'Ottocento ai giorni nostri, coinvolgono i figli del capostipite, al quale per comodità nel cognome hanno tolto una a, i figli dei figli, i cugini, le nuore, tutti i componenti di questo albero frondoso e possente, è praticamente impossibile: dal ragazzo ribelle che fugge in America a cercare l'oro, al fondatore di una prestigiosa compagnia di assicurazioni navali iniziata sul molo del porto di Odessa e poi diventata europea, dai ferventi comunisti convinti che solo in Russia e solo con il comunismo si potrà salvare l'umanità decadente, al giovane Ivan, incerto in ogni suo passo (il padre di Giorgio Van Straten), l'elenco è sterminato. e Bisogna leggerla la storia di questa famiglia, punto e basta. Entrare nel midollo ebraico che la tiene unita e percorre i suoi rami: anche se, a poco a poco, lo spettro si restringe, e il personaggio centrale della vicenda, Ivan, come è naturale che sia, prende il sopravvento. Ma il fatto che prenda il sopravvento — e qui sta la bravura di Van Straten — a questo punto non esclude nessuno dei suoi antenati: lui è l'ebreo esitante e aggressivo, l'ebreo che sente l'esilio, l'ebreo che deve affrontare la strada. Quello che mancava al racconto e congiunge ogni parte del racconto. La strada che affronterà la maggioranza dei Van Straten conduce ai campi di sterminio. Molto bene ha fatto l'autore a scrivere soltanto i loro nomi e il luogo in cui sono morti senza aggiungere parole. E un elenco impressionante che da solo produce dolore. Lo stesso dolore che si prova allo Yad Vashem di Gerusalemme, nella sala dei bambini ebrei uccisi dal nazismo. È una sala illuminata da una sola candela nella quale, giorno e notte, una voce maschile e una femminile, come potrebbero essere quella di una madre e di un padre, si alternano per pronunciare i loro Nomi, la loro provenienza, e il luogo del sacrificio. E questo per sempre.
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